penna

il Ponte

“di Nereo Trabacchi”

Il sudore freddo percepito da Ernesto Porta era la tortura più grande che il suo fisico avesse mai sopportato. Appena appresa la notizia della caduta del ponte sul Po, tutto attorno a lui aveva iniziato ad ovattarsi, come se i suoi cinque sensi avessero deciso di comune accordo di abbandonarlo per una mezzoretta.
Era seduto sul divano nel suo ufficio con le mani in grembo e la bocca spalancata.
In sottofondo la voce dello speaker della tivù locale continuava nella telecronaca fiume di quanto stava accadendo.
Ernesto tirò un profondo respiro e riuscì a inviare il comando alle gambe; si alzò e si diresse alla scrivania.
Lui era uno delle tre persone in città che conosceva il vero motivo per cui il ponte si era spezzato correndo il rischio di inghiottire decine di macchine in transito con altrettante persone al loro interno. Grazie a Dio, era accaduto in un momento un cui il traffico non era particolarmente sostenuto, limitando così i danni.
Ma non era questa la cosa che ora più l’angustiava; quello che gli impediva di respirare regolarmente era l’enorme indecisione sul da farsi. Non poteva restare con le mani in mano. Sapeva che prima o poi questo sarebbe accaduto, ma non avrebbe mai potuto immaginare questi modi e questi tempi; era assolutamente impreparato.
Lui era uno dei custodi del segreto della città e si era sempre auspicato di dover solamente tramandare l’arcano ad uno dei successori.
Ma il destino e forse la storia, hanno voluto che fosse lui il guardiano al momento di uno dei risvegli.
Aprì un cassetto della maestosa scrivania e ne estrasse una vecchia mappa e una lunga e arrugginita chiave. Spiegò la croccante carta sul tavolo e cercò con l’indice il punto esatto dove era disegnato il simbolo del ponte. Poi guardò l’ora e calcolò rapidamente che essendo il collasso avvenuto da non più di cinquanta minuti, forse era ancora in tempo per fare qualcosa. O meglio, era suo dovere assoluto tentare di fare qualcosa. Infilò la chiave nei jeans e corse alla macchina. Pochi minuti dopo arrivò a Palazzo Farnese e attraversato rapidamente il cortile salì sull’ascensore che, dopo aver battuto un codice sulla tastiera, lo portò nei sotterranei del Palazzo. Percorso un breve corridoio si trovò di fronte a una grossa porta di legno che aprì utilizzando la sua vecchia chiave. Aveva la bocca impastata e piccole scosse lungo la spina dorsale lo avvertivano di quanto i suoi nervi fossero tesi al limite. Accese una piccola torcia e diede un’occhiata al lungo buco nero di fronte a lui. Il tunnel che collegava i sotterranei al fiume era stato scavato secoli prima come ultima via di fuga in caso di attacco al Palazzo. E lui, quel giorno, era il primo essere umano a varcarne l’umido pavimento da parecchi anni. Deglutì rumorosamente e iniziò a camminare. La temperatura si faceva sempre più fredda e l’aria più irrespirabile ad ogni passo. Dopo circa venti minuti di macabra passeggiata tra insetti e gocce grosse come frutti arrivò in una piccola stanza ricavata nella roccia. Sapeva che sopra di lui c’erano centinaia di persone tra forze dell’ordine, soccorritori e curiosi…
Era arrivato nel punto esatto in cui iniziava il grande ponte nato nel 1948.
All’interno di questo ambiente c’era solo una piccola teca, anch’essa ricavata dalla roccia. Infilò la stessa vecchia chiave con cui aveva aperto la porta in un’ invisibile fessura e dopo aver girato un paio di mandate, non senza sforzo, aprì un pesante pannello. Era lì, in tutta la sua bellezza, come aveva potuto ammirare dalle immagini che il suo predecessore anni prima gli aveva mostrato. Allungò una mano e afferrò il “cuore etrusco” che leggermente brillava e debolmente pulsava.
Lesse rapidamente le incisioni che erano sul pesante oggetto in bronzo e dopo aver chiuso gli occhi lo strinse al petto recitando quella frase conosciuta solo da pochi al mondo. Le terra tremò leggermente e dovette appoggiare una mano ad una parete per non finire a terra. Era certo che in superficie non avessero sentito nulla. Ripose il cuore nella sua sede e lo fissò per alcuni istanti. Ora il battito era tornato regolare.
Richiuse lo sportello e ripercorse il suoi passi per tornare un superficie dove avidamente respirò aria fresca. Era svuotato ed esausto, ma trovò la forza di raggiungere il ponte per controllare come andavano le cose. Fortunatamente i feriti non erano gravi e la situazione poco a poco pareva tornare alla normalità.
Rientrato nel suo ufficio, mentre riponeva la chiave e la mappa tornò con la mente alle parole che il suo maestro gli aveva tante volte ripetuto affinché lui le assimilasse.
“Piacenza è una città magica; è la primogenita d’Italia. Nelle sue viscere sono nascosti tutti gli organi che le permettono di restare in vita. Uno di questi, il fegato, ci è stato sottratto, ma tutti gli altri sono ancora esistenti e ben funzionanti. Tu e altre due persone avrete il grande onere onore, di custodirli e averne cura in caso di necessità. Dopo di voi altri arriveranno, per fare di questo il luogo più speciale…” Nereo Trabacchi.
Dedicato ai feriti sul ponte e ai loro soccorritori.



Piacenza - i ponti sul Po