penna

la Rocca

“racconto di Domenico Ferrari Cesena”

La vista più importante che si aveva dagli spalti della Rocca di Borgonovo era quella verso nord: da lì sarebbero venute, attese o inattese, le soldataglie di Pavia; in quella direzione, percorrendo il ponte levatoio settentrionale, sarebbero usciti i militi e i cavalieri piacentini che presidiavano Borgonovo per attaccare i pavesi diretti contro la loro città. La vista più bella, invece, era quella opposta, verso sud: ai piedi della Rocca, il grande borgo cinto dalle mura, 13 ettari di povere case basse dai tetti di paglia o di legno e di strade tra le case; parecchie macchie verdi a segnalare gli orti, muniti, a dispetto delle loro ridottissime dimensioni, di qualche albero da frutto, con il quasi immancabile fico; poi, in lontananza, le dolci colline della Val Tidone, la valle di cui Borgonovo controlla dalla pianura l’ampio (troppo ampio) ingresso. La Rocca e il borgo erano stati progettati e costruiti dal Comune di Piacenza in funzione principalmente anti-pavese nel 1196: una grande fortezza di pianura, con un’urbanistica interna già quasi rinascimentale; una mossa ardita, a carattere difensivo ma anche, a guardar meglio, offensivo, da parte di una delle più ricche e potenti città-stato dell’Italia settentrionale del tempo. A est, la vista si spingeva, attraverso una pianura molto simile a quella sul lato nord, fino a Piacenza: boschi e campi si alternavano in un continuo avvicendarsi di colori variabili con le stagioni, inframmezzati da villaggi da cui salivano piccole colonne di fumo. L’altezza della Rocca, che prima del Settecento aveva solo un piano sopra il piano terreno, non consentiva che l’occhio arrivasse più lontano; le torri erano più alte degli spalti, ma non alte come ora, dopo i lavori voluti dai Giandemaria, feudatari di Borgonovo dal 1691 fino alla soppressione dei feudi, che aggiunsero un piano all’edificio e il porticato con la bella scala a rampe incrociate nel cortile interno. Dalle torri, l’orizzonte era naturalmente più ampio; quella all’angolo nord-est sorvegliava appunto sia la direzione di Pavia che quella di Piacenza. Ma lo spettacolo che fu offerto dal Conte di Carmagnola, comandante di un esercito che assediava Borgonovo per conto del Duca di Milano, Filippo Maria Visconti, il 6 maggio 1418 non richiedeva agli spettatori di salire molto in alto: esso si svolgeva sul lato est della Rocca, al di là del fossato che la recingeva tutta, proprio sotto le mura del borgo. Nel più scespiriano degli episodi della storia della Val Tidone, il Carmagnola deteneva il fratello e il figlio di Filippo Arcelli, Conte della Val Tidone, rinserrato nella Rocca con la moglie Alessina Scotti, e minacciava di uccidere entrambi se Filippo non avesse dato ordine alle sue truppe che occupavano Piacenza di consegnare la città ai soldati del Duca.
Sette anni prima, Filippo e il fratello Bartolomeo si erano trovati, sotto le mura del Castello di Sarmato, nei panni che ora vestiva il Carmagnola: avendo catturato il loro acerrimo nemico Alberto Scotti, signore di Sarmato (castello che sorgeva proprio sulla strada tra Piacenza e Pavia a pochi chilometri da Borgonovo), avevano dichiarato che lo avrebbero ucciso proprio lì se gli occupanti, tra cui la madre e la sorella di Alberto, non avessero consegnato loro il castello. Alberto aveva dato ordine di aprire le porte; l’ordine era stato eseguito, e Alberto aveva avuto salva la vita. Ma la catena dei ricatti era iniziata ancora prima, quando Alberto aveva ucciso Jacopo Terzi sotto le mura di Fiorenzuola perché gli assediati non avevano obbedito a Jacopo, che ne era il legittimo proprietario e aveva chiesto che le porte venissero aperte. Il terzo episodio della serie, quello di Borgonovo, ebbe un esito tragico come il primo. Il fratello Bartolomeo, che divideva con lui la Contea della Val Tidone concessa loro in tempi migliori da Filippo Maria Visconti, e il figlio Giovanni, un giovane bello e ardito che costituiva la principale speranza della famiglia, supplicavano con alte grida Filippo di cedere Piacenza. La moglie e la madre Elena, pure presente all’interno della Rocca, lo pregavano in ginocchio di fare lo stesso. Ma Filippo, alzando gli occhi dalle forche che erano state erette sotto la Rocca, vedeva in lontananza i fumi di Piacenza, la città tanto sognata e tanto desiderata, l’ossessione della sua vita, il cui possesso, tolto al Duca di Milano ma non ancora goduto, lo aveva fatto sentire finalmente “completo.” Intanto, fervevano i preparativi delle esecuzioni. Dopo l’ultima ambasceria, cui Filippo aveva di nuovo risposto negativamente e sprezzantemente, i due Arcelli, zio e nipote, vennero impiccati. Il Carmagnola poi tolse l’assedio e si diresse con il suo esercito a Piacenza, che cadde nelle sue mani dopo poco più di un mese, ma al prezzo di numerose altre vittime da entrambe le parti. Spinto dal rapido declinare delle sue fortune, ma ancor più dallo strazio senza fine delle due madri, Filippo durante il luglio successivo riparò a Venezia, dove entrò come capitano nell’esercito della Repubblica. Era perseguitato giorno e notte dalle grida, immaginate ma ancora più lancinanti di quelle reali, di Bartolomeo e di Giovanni, di Alessina e di Elena. Per avere qualche intervallo di tregua, si gettò a capofitto nelle operazioni militari, riscuotendo notevoli successi in Istria. Morì in battaglia tre anni dopo. Il Conte di Carmagnola finì anch’egli la sua carriera come condottiero della Serenissima, e fu impiccato per alto tradimento in Piazza S. Marco nel 1432. Se Filippo Arcelli avesse potuto e saputo osservare con calma, a mente fredda, il dolce paesaggio valtidonese a sud del borgo invece di quello a est, forse avrebbe intuito che una vita più lunga e più felice lo attendeva in Val Tidone, purché rinunciasse alla signoria di Piacenza. Ma un tale cambiamento di obiettivi era impossibile: il copione dettatogli dalla sua sfrenata ambizione doveva essere recitato fino in fondo, senza improvvisazioni. E le vite dei suoi congiunti, e la sua, dovevano risultarne distrutte.
Tratto da “Terre piacentine – Bellezza, memoria e sofferenza di un territorio italiano” di Giovanni Zilioli e Domenico Ferrari Cesena, LIR Edizioni, Piacenza, 2010.



La Rocca di Borgonovo Valtidone