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i Biscotti dal Siur Pierino

“racconto di Giorgio Vecchi”
Era una consuetudine in famiglia quando si parlava di alimenti vecchi o andati a male aggiungere “tant c’me i biscott dal siur Pierino”. Vale la pena di spiegare il perché di questa curiosa frase che mi consente di abbozzare un breve ritratto dell’interessante personaggio che sta all’origine della faccenda. Nella seconda metà degli anni sessanta un giorno zia Rosa ci comunicò di aver incontrato un vecchio amico il quale l’aveva invitata insieme a tutti noi a casa sua. Si trattava, ci disse, del signor Pierino Sgorbati che in passato aveva gestito una nota drogheria sull’angolo tra via XX Settembre e Piazza Duomo. Era una specie di magazzino merci dove si vendeva un po’ di tutto dallo scatolame ai dolciumi in un’epoca in cui ancora non esistevano i supermercati. Da tempo, ormai anziano, il signor Pierino si era ritirato dall’attività ma non aveva ceduto ad altri il negozio forse perché nel retrobottega una stretta scala conduceva al suo alloggio situato proprio sopra la drogheria. Di fatto comunque già da anni della fiorente drogheria non rimanevano che alcuni locali polverosi in cui ancora si accatastavano parte delle merci rimaste invendute quando il titolare aveva deciso di chiudere i battenti del suo commercio. Nonostante l’età lo Sgorbati era una persona ancora attiva e brillante; non si era mai sposato ma gli piaceva far credere di aver fatto vita di seduttore incallito, di vero e proprio “tombeur de fêmme”. Con zia Rosa e zio Gino ai quali lo legava un’amicizia antica soleva spesso accennare alle sue pretese avventure di libertino, senza mai entrare troppo nei dettagli ma buttando là qualche frase birichina, qualche allusione piccante che poi gli zii, amanti del pettegolezzo, si incaricavano di infiorare e arricchire di particolari magari inventati di sana pianta tanto per completare il quadro di queste passioni bonariamente licenziose. L’invito del vecchio scapolone fu accolto con simpatia anche dai miei che, seppur meno in intimità con lui, lo conoscevano da sempre e lo apprezzavano per la sua schietta cordialità. Mio padre si mise d’accordo con la sorella e il cognato e così una sera dopo cena andammo tutti a visitarlo previo avviso telefonico. L’accoglienza non poté essere più amichevole; Pierino ci fece accomodare nel magazzino a piano terra dove aveva sistemato un vecchio divano e alcune sedie tarlate. L’allegra compagnia si soffermò quasi subito sul tema preferito ciarlando dei bei tempi in cui Piacenza era ancora un specie di piccolo villaggio ove tutti conoscevano tutti, Si citarono vecchi amici da tempo scomparsi, botteghe che come la sua erano ormai soltanto un ricordo poi si passò inevitabilmente a rammentare gli scandali cittadini e le storie boccaccesche che ne erano l’immancabile corollario. Zia Rosa ad un certo punto osservò che il divano su cui era comodamente seduta doveva aver visto chissà quali acrobazie erotiche e tutti le fecero eco invitandolo a narrare qualche sua impresa seduttiva. Pierino si schermì ma si vedeva che moriva dalla voglia di raccontare qualcosa. “Eh, Rosa cul divan che s’ al pudiss parlé an n’in cuntarissa di bei..” Ma poi aggiungeva che la discrezione gli impediva di parlare, di nominare le gentildonne che erano state sue ospiti per qualche convegno amoroso. E gli altri giù a incitarlo a raccontare di qualche sua impresa amatoria, a ricordare qualche aneddoto piccante e tanto insistettero che l’arzillo dongiovanni si decise infine a sbottonarsi come in cuor suo probabilmente desiderava. Ci parlò di una delle sue conquiste più ambite, trattandosi della moglie di un gerarca, un uomo potente allora in città, che gli si era data e con cui aveva avuto una storia a dir poco torrida, consumata ogni volta nel timore che il marito scoprisse la tresca e si vendicasse con chissà quali terribili artifici. Era pericoloso, aggiunse Pierino sorridendo, ma ne valeva la pena..”l’era mora, po’ älta che me d’una spanna, dü uciòn verd che it fevan perd la testa..”. Gli piaceva raccontare quella storia che gli zii dovevano già aver udito molte altre volte e noi ad insistere che ci dicesse il nome di quella ninfa. “No, si dice il peccato ma non il peccatore.. a poss mia!” sentenziava lui aggiungendo che una volta aveva osato introdursi in casa del magnate per incontrare la sua bella e gli era toccato fuggire dalla finestra anzitempo (era un piano rialzato..) per l’arrivo anticipato dell’ignaro marito. Mentre indugiava su quei perigliosi ricordi Pierino ebbe un improvviso scatto portandosi le mani alla fronte. “Ma me a sto che a cünté di rob vecc e am sum dasminghé d’ufriv da bev..” E detto ciò tolse da una vecchia credenza umbertina una polverosa bottiglia di bitter chinato, fortunatamente sigillata, che doveva albergarvi da anni e che aprì lestamente togliendo la capsula e versando il liquido in alcuni bicchierini altrettanto polverosi estratti dal medesimo mobile. “Ma spetti, ragass, ca vag a tô queicossa da mangiäg insöma..” e sparì per un attimo dietro un lungo bancone. Tornò un minuto dopo con una confezione di biscotti Lazzaroni che aprì e ci invitò gentilmente ad assaggiare. A ognuno ne offrì almeno un paio dicendo che si trattava di pasticceria finissima e che meritavano d’esser consumati. Tutti ci accingemmo dunque a gustarli ma avevano un odore stantio, di sicuro dovevano essere lì da tempo immemorabile; tuttavia per gentilezza verso il padrone di casa nessuno disse nulla. Il bello è che Pierino si mise a mangiarli di gusto come se fossero stati appena sfornati , evidentemente ci aveva fatto l’abitudine e non si accorgeva ormai più della vetustà dei suoi dolcetti. A un certo punto il nostro anfitrione, impegnato a rievocare i bei tempi della Piacenza d’anteguerra, si rammentò di una vecchia foto che lo ritraeva davanti al Bottegone con il mitico cuoco Pipotto e salì nelle stanze di sopra a prenderla per mostrarcela. Tutti allora commentammo che quei biscotti erano stravecchi e zia Rosa che se ne era messo in bocca un frammento esclamò: “Mangei no, che i fan vegn al mâl ad pansa, i gan dentar i begh!” Poco dopo Pierino fu di ritorno con la foto che mostrò a tutti noi e vedendo che i biscotti erano ancora quasi tutti lì ci rimase male e ci incitava: “Mangì, ragass, fi mia di cumplimeint..” Adducemmo vari pretesti per evitare di inghiottirli, qualcuno finse di assaggiarli e poi se ne liberò gettandoli in qualche oscuro angolo dello stanzone, zia Rosa e zio Gino si giustificarono dicendo che avevano mangiato troppo a cena, mia madre disse che era a dieta, la parte peggiore toccò a me che non sapendo inventare un pretesto plausibile dovetti inghiottirne almeno un paio sotto lo sguardo compiaciuto dello Sgorbati. Non fu cosa facile mandar giù quegli ammuffiti bocconi sebbene alla fine il dazio che pagai fu lieve. Me la cavai con una leggera dissenteria il giorno dopo ma mi consolai pensando di aver fatto contento il vecchio Pierino.
(Giorgio Vecchi – 2011).


Piacenza, piazza duomo bombardata nel 1944