Pisarei e.. quali fasö?
“la cucina piacentina nel medioevo”
Una tradizione, certamente attendibile, attribuisce la nascita del tipico piatto povero piacentino “Pisarei e fasö” alla necessità dei conventi in epoca Medioevale, di rifocillare con quanto si poteva avere a disposizione, i pellegrini che percorrendo la via Francigena e le sue diramazioni, facevano tappa nel territorio. Ma com’erano i Pisarei e fasö che nel Medioevo venivano offerti ai pellegrini? La domanda può sorgere da una curiosità storica o dal desiderio di voler riproporre l’autentico piatto di allora, magari per gustarlo in compagnia divertendosi ad indossare i panni dei viandanti, dei frati e dei popolani del tempo. Fra le ricette proposte attualmente come tradizionali (alcune delle quali decisamente “fuori rotta”) prendiamo quella suggerita da Carmen Artocchini nel suo documentatissimo e meritatamente celebre “400 ricette della cucina piacentina” edito dallo Stabilimento tipografico piacentino. L’Artocchini indica questi ingredienti: per la pasta – farina, pangrattato, acqua. Per il condimento – burro, olio, pistà ad grass (ossia lardo pestato con prezzemolo) cipolla, salsa di pomodoro, fagioli nostrani o borlotti, formaggio grana e pepe.
Per il pomodoro bisogna aspettare Colombo.
Subito ci si accorge che i cucinieri medioevali piacentini non potevano disporre di salsa di pomodoro, per il semplice fatto che la bacca destinata a diventare l’”oro rosso” della nostra pianura non era ancora arrivata dalle Americhe. Per convenzione il Medioevo viene considerato concluso proprio con la scoperta di Cristoforo Colombo. Anche senza pomodoro i Pisarei e fasö sono ugualmente ottimi.. soprattutto se a gustarli sono pellegrini con ore di cammino nei piedi e la pancia vuota.
E i fagioli?
E’ molto diffusa l’idea che anch’essi ci siano arrivati dal Nuovo Mondo e, in effetti è così per tutte le varietà che cuciniamo attualmente e in particolare per i Borlotti, considerati i più adatti per il nostro piatto. Ma i fagioli c‘erano anche prima che Colombo sciogliesse al vento le vele delle tre caravelle. Anche molto, molto prima. Ma erano di un’ unica varietà, a quanto sappiamo, ed era arrivata nella penisola italica già all’epoca etrusca, dalla fertile pianura alluvionale del Nilo: si tratta del “fagiolo all’occhio” o dolico (Dolichos) originario delle regioni tropicali dell’Asia e dell’Africa. Di taglia piccola, rispetto ai cugini d’America, è di colore chiaro, quasi bianco, presenta una caratteristica macchiolina nera, circolare, nel punto dove il seme era attaccato al baccello. Una macchiolina che ricorda un occhio. Il luogo d’origine dell’importazione nella nostra penisola gli attribuì il nome di “Fagiolo d’Egitto”. Sulle rive del Nilo la sua coltivazione era facile. Certamente faceva parte dei cibi più diffusi fra il popolo, ma vi sono documenti che attestano come fosse anche il cibo base dei sacerdoti di Iside durante i riti, nonché un’offerta per la divinità. Fagioli sono stati trovati i n sepolture egizie. Per Virgilio era “vilem” Greci e antichi romani consumavano abitualmente i fagioli, ma non lo consideravano un cibo prelibato. Virgilio lo definiva “vilem phaseulum”. E’ interessante constatare come altri legumi abbiano addirittura dato il nome a illustri famiglie latine, come i piselli , dai quali prese nome la gens gallo-piacentina dei Pisoni, della quale facevano parte il console Lucio Calpurnio la cui figlia Calpurnia, attorno al 59 A.C. andò in sposa a Giulio Cesare. Sono le lenticchie a dare il nome alla famiglia dei Lentulo e dalle fave deriva il nome della gens Flavia. Mentre ai fagioli è stata negato un simile onore. Nico Valerio, nel suo interessante volume “La tavola degli antichi” (Mondadori prima edizione 1989 ) sottolinea che il Dolichos era consumato con tutto il baccello, come i fagiolini, o anche sgranato, ma non a completa maturazione, perché produceva tossine antiproteiche velonose. L’autore cita una sola ricetta antica con fagioli, un contorno cotto di “fagioli con l’occhio” cotti in un coccio con l’aggiunta, poco prima di levare la pignatta dal fuoco, di cipolla, foglie di prezzemolo e sale e subito dopo, come condimento, olio, aceto, santoreggia, olive nere snocciolate, sedano verde tritato e aglietto fresco. Nico Valerio rileva anche che gli Etruschi non assimilarono dagli Egizi solo il culto di Iside (Iside di Vulci) ma anche l’uso dei fagioli e aggiunge che la varietà del fagioli Dolichos sopravvive ancora in Toscana, anche se il più delle volte per coprire pergolati con i suoi bei fiori. A questo punto per il piatto piacentino si potrebbe consigliare l’uso della corrispondente varietà giunta dopo la scoperta dell’America. Infatti fra le numerose qualità di fagioli americani utilizzati attualmente in cucina figura anche un fagiolo con l’occhio.
Tornano dal passato i “Fasulin de l’öc”.
fasulin de l’öc”
fasulin de l’öc”
Ma una soluzione ci può essere ed è a portata di mano, quasi a chilometro zero, come si dice e si apprezza oggi: dallo scorso anno l’antico fagiolo con l’occhio, proprio quello degli egizi, dei romani e dei piacentini del Medioevo è coltivato, seppur in piccola quantità e non per farne commercio, a pochi chilometri da Piacenza, a Pizzighettone. La cittadina murata in provincia di Cremona ha la fortuna d’esser animata da un’associazione intraprendente, il “Gruppo Volontari Mura”, una onlus che da vent’anni allestisce, con straripante successo, la tre giorni del “Fasulin de l’öc cun le cudeghe”, fagioli bianchi con la macchiolina nera abbinati alle cotiche di maiale e serviti in trattorie, ristoranti e persino tavolini all’aperto trasformando Pizzighettone in una cittadina degna di Patagruel. «Vent’anni fa – ci racconta uno dei padri della manifestazione, e fondatore dalla onlus, il perito agrario Pierantonio Bonardi tecnico con quasi quarantennale esperienza alla Facoltà d’Agraria della Cattolica piacentina – quando abbiamo pensato di rilanciare con un grande banchetto il piatto tipico locale, i “Fasulin de l’öc cun le cudeghe”, abbiamo avuto la brutta sorpresa di non trovare più qui da noi coltivazioni del piccolo fagiolo fino agli anni cinquanta – sessanta non ancora scomparso dai nostri orti.
Così abbiamo dovuto ripiegare sulla varietà peruviana. Lo scorso anno, però, siamo riusciti a recuperare e seminare il nostro vero fagiolo de l’öc. In un podere di Crotta D’Adda che ci ha messo a disposizione l’azienda agricola “ Le Gerre” dei fratelli Rinaldi, abbiamo seminato un ettaro e mezzo (sei pertiche cremonesi) ed il risultato è stato ottimo, anche se forse abbiamo esagerato nel lasciare la coltura con poca acqua, puntando più alla qualità che alla quantità. Dovremo anche migliorare la tecnica di raccolta, mentre continueremo a non usare concimi chimici.
Così abbiamo dovuto ripiegare sulla varietà peruviana. Lo scorso anno, però, siamo riusciti a recuperare e seminare il nostro vero fagiolo de l’öc. In un podere di Crotta D’Adda che ci ha messo a disposizione l’azienda agricola “ Le Gerre” dei fratelli Rinaldi, abbiamo seminato un ettaro e mezzo (sei pertiche cremonesi) ed il risultato è stato ottimo, anche se forse abbiamo esagerato nel lasciare la coltura con poca acqua, puntando più alla qualità che alla quantità. Dovremo anche migliorare la tecnica di raccolta, mentre continueremo a non usare concimi chimici.
Gran parte del lavoro è stato svolto da volontari con grande passione e, alla fine, tanta soddisfazione. Abbiamo prodotto circa sei quintali di fagioli (uno a pertica ) con un contenuto proteico decisamente più elevato dei fagioli che compravamo. La nostra produzione è finita tutta nelle tavolate dello scorso novembre, parte alcuni sacchettini di fagioli, distribuiti come souvenir e, ovviamente quelli destinati alla prossima semina. La nostra associazione, che non ha scopo di lucro, ma si autofinanzia – ha concluso Bonardi – non ha preso in considerazione la commercializzazione dei nostri fagioli, anche in considerazione della produzione limitata, ma non si può escludere che il direttivo possa decidere di cedere qualche sacchetto dei nostri fagioli alla sezione del Ducato di Piacenza e Parma del club Papillon, per preparare una cena con i pisarei e fasö alla Medioevale. Valorizzare l’antica cucina,oltre quella tradizionale più vicina a noi, è certamente un’operazione che può soddisfare il gusto, ma soprattutto il piacere della ricerca culturale» Per chi volesse saperne di più dell’esperienza della coltivazione dell’autentico fagiolo con l’occhio consulti il sito www.gvmpizzighettone.it, dal quale abbiamo tratto alcune foto.
Per le nozze di Caterina dè Medici in dono un sacco di fagioli americani.
Fu nel secondo suo viaggio che Colombo, sbarcato a Cuba, assaggiò i fagioli d’ oltreoceano. I popoli del Messico li coltivavano già da 7 mila anni. In Europa i fagioli del Nuovo Mondo rappresentarono per molti decenni una preziosa rarità, tanto da essere oggetto di regalo per importanti occasioni per super-vip: Alessandro de’ Medici ne regalò per le nozze alla sorella Caterina. Il più antico documento conosciuto in cui si cita l’arrivo di fagioli da Oltreoceano risale al 1528: il canonico Pietro Valeriano piantò alcun i fagioli ricevuti in dono da papa Clemente VII, che a sua volta li aveva ricevuti dall’imperatore Carlo V. Ricettari cinquecenteschi parlano ei nuovi fagioli ed essi risultano presenti nel menù di un banchetto popolare del 1570, attestandone, dunque, la diffusione cent’anni dopo Colombo. In Italia i fagioli americani vennero coltivati soprattutto in Veneto. Più grossi di quelli “egizi” con l’occhio, risultarono di più facile coltivazione perché più resistenti e più produttivi. Da considerare, inoltre, la possibilità di scegliere diverse varietà. I nuovi arrivati ben presto ebbero il sopravvento sul vecchio piccolo fagiolo bianco occhiuto come ingrediente fondamentale per zuppe dei poveri o come contorno alle carni nelle tavole dei ricchi. Le notevoli qualità nutritive fecero del fagiolo un alimento determinante per ridare vitalità all’intera Europa colpita nel Medioevo da carestie e pestilenze.
Un celebre dipinto di Annibale Carracci (1557 – 1602 ) ritrae un mangiatore di fagioli. Il dipinto visibile alla galleria Colonna di Roma mostra un popolano dal volto rubizzo che porta alla bocca un cucchiaio di legno appena riempito in una ciotola colma d’una zuppa di fagioli che a me sembrano proprio con l’occhio, ma certo non possiamo sapere se “Egizi” o della varietà importata dal nuovo Mondo. La scodella è appoggiata su una tavola, verosimilmente di un’osteria, dove si vedono anche tre cipollotti, un piatto di funghi e due pagnottelle. Il superato il manierismo Carracci ritrae la realtà, comprese le mani del popolano con le unghie sporche, ma anche i sentimenti del soggetto, che sembra temere che qualcuno possa interrompere quel momento a lungo atteso. Così il dipinto ci aiuta a comprendere come i fagioli fossero allora un alimento centrale dell’alimentazione del popolo. Due curiosità. Una tribù indiana dell’America del Sud, i Papago, pendeva nome proprio dai fagioli. Questo genere di legume era sconosciuto nel Nord America e ad introdurlo in quei territori furono gli europei. Ma torniamo al nostro fagiolo dell’occhio. C’è chi lo classifica addirittura nella famiglia dei piselli. Cuoce prima dei fagioli d’Oltreoceano. Ha un ottimo contenuto di proteina vegetale, molto meno grassi e zuccheri rispetto ad altri legumi ed è quindi più adatto degli altri fagioli a diete ipocaloriche. E’ ricco di fibre e ferro. Minor resa produttiva e maggiore difficoltà nella raccolta, a confronto con le varietà dei fagioli , provenienti da Oltreoceano ne aveva fatto scomparire la coltivazione, se non i qualche orto, sin dalla metà del Cinquecento. Attualmente il fagiolo dell’occhio (ma sarà proprio la varietà egizia che finiva sulle tavole degli antichi romani e di tante popolazioni italiche fino a tutto il Medioevo? ) è tornato ad essere coltivato per la commercializzazione in territori del Centro e del Sud Italia: Marche, Umbria, Lazio e soprattutto in Campania. Nella valle del Sele e nel Salernitano è chiamato “occhitiello”. Ho anche saputo che alcune mamme, per invogliare i bambini a magiare zuppe di fagioli con l’occhio li chiamano “i fagioli della carica dei 101” per la maculazione alla dalmata. A proposito della coltivazione c’è da a ricordare che le leguminose hanno nelle radici un batterio capace di fissare l’azoto dell’aria. Tale proprietà può essere sfruttata, con la rotazione delle colture, per la concimazione naturale. Da non dimenticare che gli antichi piacentini che ci hanno lasciato la tradizione dei Pisarei e fasö hanno realizzato, inconsapevolmente, una importante regola alimentare oggigiorno molto raccomandata, che prescrive l’abbinamento di cereali e legumi per una migliore assimilazione di questi. I legumi in questi ultimi decenni hanno trovato sempre meno spazio nella dieta, eppure sono un cibo straordinario. Invece devono essere considerati, abbinati ai cereali, la fonte più frequente di proteine, la più sana e quella che comporta meno rischi. C’è chi sostiene che la loro diminuzione progressiva nella dieta contemporanea sia addirittura una delle cause delle malattie legate all’alimentazione scorretta. (di Ludovico Lalatta Costerbosa , da Papillondelducato.it)