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Attilio Pavesi Campione Olimpico


Attilio Pavesi con la maglia di campione olimpico.

E’ la mattina del 4 agosto 1932. Sulla collina di Moorpark soffia una brezza lieve e piuttosto fresca, mentre il cielo appare leggermente coperto. Un paesaggio brullo e sterile, da sembrare rubato a un film Western, circonda il luogo dove, di buon ora, si stanno svolgendo le operazioni che precedono la partenza della prova a cronometro valida per il titolo olimpico di ciclismo su strada. I Giochi di Los Angeles si apprestano a scrivere un nuovo capitolo della loro storia. Trentacinque giovanotti, provenienti da diverse parti del mondo e vestiti con casacche multicolori, sono pronti a inseguire un sogno covato da mesi, forse anni. Dopo tanti sacrifici e allenamenti, ora aspettano pazientemente il loro turno, confusi tra accompagnatori, giornalisti, giudici, incaricati dell’organizzazione e semplici curiosi. Li attendono 100 chilometri da percorrere con la sola compagnia della bicicletta, contro un avversario invisibile e implacabile: il tempo. In mezzo a loro, maglia azzurra e scudo sabaudo cucito sul petto, un ventiduenne figlio della Bassa piacentina: Attilio Pavesi di Caorso. Il ragazzo è ben conscio di non aver mai vissuto prima un giorno tanto importante, ma non può ancora sapere che quello rimarrà, per sempre, il giorno più importante di una vita lunga un secolo. In quel momento, forse, Attilio è già contento di essere lì, in America, a battersi per un traguardo tanto prestigioso. Del resto, arrivarci non è stato facile. Niente è stato facile per lui, fin dall’inizio.


nella squadretta di calcio di Caorso, Attilio Pavesi è il portiere, lo vediamo seduto al centro con il pallone in mano.

Attilio Adolfo Pavesi nasce il 1° ottobre 1910 a Caorso, undicesimo di dodici figli di una famiglia assai modesta, che ruota attorno alla figura della madre, Maria Podestà, una donna instancabile e generosa. Attilio, al quale viene subito affibbiato il diminutivo di “Tic”, cresce sano, forte e soprattutto vivace. Vive un’infanzia povera e brada. Lo sport è la sua grande passione: fin da piccolo pratica la ginnastica e l’atletica, ma adora in particolare il calcio e il ciclismo. E’ un bravo portiere e quando pedala nessuno dei suoi coetanei riesce a tenergli testa. Ma l’età più bella finisce presto. Non ancora adolescente, infatti, resta orfano di padre e le ristrettezze economiche in cui naviga la famiglia lo costringono a lasciare la scuola per il lavoro. Viene assunto da un piccolo artigiano del paese, Gino Tansini, che tra le altre cose fabbrica e ripara biciclette. Il destino sta già imbastendo la sua trama. L’ammirazione per i ciclisti dilettanti che frequentano la bottega di Tansini, i vari Politi, Masarati, Bruschi e Sesenna, lo avvicina alle corse. La prima la disputa a Zerbio, un paesino a due passi da Caorso, su un breve circuito pianeggiante da ripetere più volte. E’ una gara aperta a tutti e quindi al via ci sono anche corridori si buon livello. Lui è il più giovane, nessuno lo conosce; tanto che, per fargli vivere un estemporaneo momento di gloria, gli permettono di partire con piccolo vantaggio. Qualcuno non capisce e sta già per mettersi nella sua scia, ma dalla pancia del gruppo gridano: «Lasciatelo andare, tanto poi lo prendiamo». Non sanno, non possono sapere con chi hanno a che fare. “Tic” vola su quella striscia di ghiaia spianata nella campagna e incorniciata da rogge: in pratica, quel giorno disputa la sua prima cronometro. Gli altri, nonostante un tardivo inseguimento, lo rivedono solo dopo il traguardo.

Attilio abbandona così definitivamente la porta della squadretta di calcio che aveva messo in piedi con alcuni amici e inizia a correre con continuità, soprattutto nei paesi della Bassa, dove tutte le occasioni sono buone per organizzare gare ciclistiche non ufficiali, quelle che in gergo sono chiamate “tremagli”, italianizzando il lombardo tremagg. Sempre più spesso la ruota vincente è la sua e una volta riesce addirittura a ottenere quattro primi posti in una sola settimana. Adesso gli avversari lo conoscono bene: il suo accattivante sorriso da ingenuo fanciullone, che suscita istintiva simpatia, in realtà nasconde un temperamento fuori dal comune. E poi è forte davvero: sul passo e in volata non teme nessuno, in salita solo i veri scalatori possono sperare di staccarlo. Il praticantato finisce presto: per lui è già tempo di chiudere con i facili circuitini attorno al campanile dei paesi; ora deve fare sul serio e misurarsi con la categoria dei Dilettanti. Si tessera dunque per lo Sport Club Robur di Piacenza, dove trova un dirigente dalle straordinarie doti umane che avrà un ruolo determinante nella sua carriera: Alfredo Tarantola. Così, con un tubolare legato sotto il sellino e altri due a tracolla, inizia a scorribandare nel Piacentino e nelle province vicine in cerca di gloria.


Attilio Pavesi, al centro con la maglia chiara, viene festeggiato da alcuni suoi compaesani dopo una delle sue prime gare vittoriose.

Nel 1929 si pone definitivamente all’attenzione di tutti, con le prime vittorie in competizioni ufficiali, a Medesano e Monza, e una lunga serie di piazzamenti. La consacrazione definitiva avviene comunque l’anno successivo. L’avvio di stagione non sembra dei migliori, con all’attivo il solo successo di Sarnico e tante occasioni sfumate di pochissimo, ma il finale di stagione è addirittura esaltante. Dal 20 settembre al 4 novembre 1930, infatti, mette in carniere ben sei affermazioni, la prima a Castellanza, battendo l’astro nascente del ciclismo italiano Alfredo Bovet, e l’ultima nel classico Gran Premio della Vittoria di Milano. Tra questi due trionfi decisamente “pesanti” (ottenuti entrambi sotto una pioggia battente), non vanno dimenticati i traguardi conquistati a Travo, Corbetta, Gargnano del Garda e Commessaggio.
Il nome di Attilio Pavesi è ormai sulla bocca di tutti e quindi, all’inizio del 1931, non stupisce il suo passaggio alla società Cesare Battisti di Milano. Tarantola si è reso conto che il suo “pupillo” merita occasioni che il piccolo e provinciale Sport Club Robur non è in grado di offrirgli e lo incoraggia nella scelta. “Tic”, da parte sua, ha capito che per lui il ciclismo può rappresentare un’opportunità unica per evadere dall’avvolgente monotonia della provincia e vivere esperienze nuove. Se a vent’anni non può ancora immaginare quanto lontano lo porterà la sua bicicletta, è comunque fermamente convinto di diventare un vero corridore. Del resto, non ha mai sofferto la vita randagia che finora gli ha imposto lo sport. Come un cavaliere errante, ha affrontato all’alba lunghi e solitari trasferimenti in bicicletta, attraverso le sterminate campagne emiliane e lombarde; ha partecipato a corse di oltre cento chilometri e alla fine è risalito in sella per un viaggio di ritorno concluso solo a notte fonda. Ha passato tante notti precedenti le gare in pensioni da quattro soldi, ma anche in stalle e altri alloggi di fortuna. Ha sempre preso tutto come veniva, con allegra spensieratezza, vivendo alla giornata e con un solo, semplice obiettivo: pedalare più forte degli altri, o comunque arrivare prima di tutti. Adesso però è venuto il momento di fare un nuovo salto di qualità. Dunque, con la benedizione di Tarantola, il caorsano passa alla Cesare Battisti, conscio che si tratta di un’occasione da non perdere. All’inizio degli anni Trenta la società milanese che porta il nome del patriota trentino eroe della Prima Guerra Mondiale è sicuramente tra le polisportive più ricche e attrezzate d’Italia. Presso la sua sede di Porta Romana può mettere a disposizione dei suoi atleti diversi alloggi e una palestra per gli allenamenti. Peraltro, i dirigenti del club neroverde accolgono a braccia aperte l’atleta che pochi mesi prima aveva trionfato nella “loro” corsa, il Gran Premio della Vittoria. Così, all’inizio del 1931, per la prima volta, Pavesi ha la possibilità di iniziare la sua preparazione in Riviera, dove il clima invernale è decisamente più mite, e può ammirare quel mare che non aveva mai visto. La “vacanza” dura poco, perché la stagione agonistica bussa alle porte. Con la consapevolezza di essere preparato come non mai, il caorsano affronta le prime corse con grande fiducia e determinazione. Dopo un paio di piazzamenti, infila un “filotto” di tre vittorie consecutive, tutte ottenute a Milano in competizioni di prestigio: Coppa Caldirola, Gran Premio Aquilano e Coppa Bendoni. Un momento d’oro che alimenta tante speranze, ma viene bruscamente interrotto dalla chiamata alla leva. Quattro mesi senza toccare la bicicletta, finché, alla fine di agosto, arriva l’agognato trasferimento al “Centro di Educazione Fisica” della Farnesina di Roma, la struttura riservata agli atleti di interesse nazionale, dove trova come commilitoni i ciclisti piemontesi Martano, Varetto e Minasso, ma anche Giuseppe Meazza, la “stella” del calcio italiano, del quale diventa grande amico. Pavesi riprende gli allenamenti e, prima della fine della stagione, trova il tempo di conquistare ben tre secondi posti in gare disputate nella capitale.

All’inizio dell’anno successivo Attilio coltiva la speranza di entrare nel lotto dei Dilettanti che i tecnici della nazionale tengono sotto osservazione in vista delle due grandi appuntamenti internazionali del 1932: i Campionati del Mondo, che si svolgeranno a Roma, e le Olimpiadi di Los Angeles. Protagonista fin dalle prime gare, il piacentino non riesce però a trovare la stoccata vincente. Mette insieme ancora tre piazze d’onore, la più amara nel Giro di Sicilia, dietro al corridore di casa Mammina, che lo scavalca in classifica generale proprio nella terza e ultima tappa. Non ha fortuna nemmeno nella prova unica del Campionato Italiano Dilettanti, a Perugia, costretto al ritiro da una disposizione. Viene comunque convocato a San Vito al Tagliamento, per prendere parte alla prova a cronometro di selezione in vista delle Olimpiadi. La malasorte continua a perseguitarlo: all’inizio del quarto e conclusivo giro ha il miglior tempo parziale, ma negli ultimi chilometri viene sbattuto a terra da una spettatrice che, nel tentativo di rinfrescarlo, gli lancia acqua e.. secchio. Poco male, perché il quinto posto finale gli permette di staccare l’ultimo biglietto disponibile per gli Stati Uniti. Insieme a tutta la squadra olimpica azzurra, della quale fanno parte anche i pugili piacentini Gino Rossi e Aldo Longinotti, Pavesi salpa da Napoli con appiccicato addosso lo scomodo ruolo di riserva. Ma non dispera e durante il viaggio perfeziona la sua condizione allenandosi per ore ai rulli sul ponte della nave. In effetti, a Los Angeles, tutto cambia. La “Città degli Angeli” accoglie i suoi ospiti provenienti da ogni parte del mondo nel migliore dei modi. La sua via principale, Broadway, è tutta addobbata con le bandiere delle nazioni partecipanti. Una vera e propria messa in scena che sembra trarre spunto dall’atmosfera cinematografica della vicina Hollywood. Per la prima volta gli atleti sono concentrati in un “villaggio olimpico”. L’aria che si respira a Los Angeles è di euforia e straordinaria efficienza organizzativa. Il problema è il clima, caldo e umidissimo, del quale fa le spese proprio il trionfatore della Preolimpica di San Vito al Tagliamento, Giuseppe Zamarella, che vede il suo stato di forma evaporare rapidamente al sole della California. Il veneto non sembra in grado di correre la cronometro di 100 chilometri che attribuirà il titolo olimpico e, quando arriva il momento delle scelte, il tecnico italiano Bertolino non può fare a meno di indicarlo come riserva, promuovendo Pavesi titolare, al fianco di Olmo, Cazzulani e Segato. Tocca dunque ad Attilio, che viceversa si presenta estremamente pimpante e convintissimo di fare bene.




l’arrivo vittorioso di Attilio Pavesi alle Olimpiadi di Los Angeles.

Alle 9 e 8 del 4 agosto 1932 Pavesi scatta all’ordine dello starter, chiudendo la fila dei partenti della prova olimpica su strada. Lo fa quasi alla chetichella, perché i giornalisti presenti hanno già tutti raggiunto quelli che, stando ai pronostici, saranno i veri protagonisti della gara; come il campione in carica Henri Hansen, che ha preso il via per terz’ultimo, quattro minuti prima del piacentino. Ma la giornata riserverà una grande sorpresa. Le avvisaglie dell’imprevedibile maturano già nei primi chilometri di gara. Infatti, una freccia azzurra solca veloce la bruna e assolata striscia d’asfalto che da Balcom Canyon scende giù sospesa tra viadotti e scarpate da brivido, planando verso l’Oceano Pacifico. Attilio prende presto coscienza della bontà della sua prestazione, lasciandosi alle spalle due concorrenti partiti prima di lui. Pedala in scioltezza, senza sentire il peso la catena. Buone sensazioni che trovano conferma poco dopo il giro di boa di metà percorso, quando davanti a sé vede il piccolo corteo di macchine al seguito del danese Henri Hansen: ora tutto è ancora più chiaro, in poco più di 50 chilometri Pavesi ha guadagnato quattro minuti sul grande favorito della prova. Le forze gli si moltiplicano, le gambe stantuffano ancora più forte. Piomba sul campione olimpico in carica e subito, approfittando di una breve salitella, lo lascia sui pedali. Ormai zavorrato dal peso della sconfitta, il danese resta incollato alla sella e vede la maglia azzurra dell’italiano allontanarsi inesorabilmente. Attilio non ha neppure bisogno di voltarsi tanto è sicuro di sé. Intanto, la strada che costeggia l’oceano e le spiagge più mondane della California si fa sempre più affollata man mano che ci si avvicina all’arrivo di Santa Monica, dove sono radunati ben cinquemila spettatori. Annunciato dall’urlo della sirena della motocicletta guidata dal poliziotto che lo ha scortato per tutta la corsa, Pavesi taglia il traguardo, posto viale Castellamar, attorno alle 11 e 36, chiudendo la sua straordinaria prova in 2h 28’ 05” e 6/10, ad una media di 40,514 chilometri orari. E’ il tempo migliore, indiscutibilmente. L’affermazione del caorsano è tanto sorprendente quanto netta e, grazie anche ai piazzamenti di Segato (secondo) e Olmo (quarto), vale all’Italia la conquista di una seconda medaglia d’oro, quella della classifica a squadre. Il trionfo dei ciclisti azzurri è uno dei momenti più felici di un’Olimpiade che comunque regala ai nostri atleti tante soddisfazioni e un risultato davvero storico: il secondo posto assoluto nel medagliere, alle spalle degli statunitensi. Infatti, i “padroni di casa” collezionano 41 ori, 32 argenti e 30 bronzi, mentre la piccola Italia conquista 12 ori, 12 argenti e 12 bronzi, collocandosi nettamente davanti alla Francia (10 ori, 5 argenti e 4 bronzi) e alla Svezia (9 ori, 5 argenti e 9 bronzi). Siamo in pieno Ventennio fascista e il regime non perde l’occasione per strumentalizzare a fini politici questa autentica impresa, che consolida il consenso interno e, nello stesso tempo, a rilancia l’immagine internazionale del Paese. Si parla così, un po’ pomposamente ma non senza ragione, di “Olimpiade degli italiani”. Ma i Giochi di Los Angeles possono tranquillamente passare alla storia anche come l’“Olimpiade dei piacentini”, visto che, ai due ori di Pavesi, si aggiunge l’argento del pugile Gino Rossi: peraltro, il secondo gradino del podio ha un sapore decisamente amaro per il ventiquattrenne portacolori della Salus et Virtus, il vero “vincitore morale” del torneo olimpico dei “mediomassimi”, letteralmente defraudato dell’oro da un verdetto assolutamente vergognoso. Anche senza considerare il bronzo nella Velocità del pistard Bruno Pellizzari (figlio di genitori piacentini, ma milanese di nascita e adozione), il bottino di medaglie dei piacentini non sarà mai più eguagliato nelle successive edizioni dei Giochi.


Attilio Pavesi, secondo da destra, con altri corridori piacentini, nel 1937 durante la preparazione in Riviera.

A Los Angeles la carriera sportiva di Pavesi raggiunge il suo apogeo, ma purtroppo, da lì in avanti, declina rapidamente. La fortuna gli volge decisamente le spalle, quasi volesse punirlo per quel trionfo insperato. Problemi di salute lo condizionano già nel 1933, al debutto tra i Professionisti, costringendolo a un lungo periodo di inattività dopo la partecipazione alla classica Milano-Sanremo, dove è anche l’artefice di una lunga fuga. L’anno successivo lo vede ancora alle prese con malanni di varia natura. Conclude comunque, all’ultimo posto, un tormentatissimo Giro d’Italia, al culmine di un calvario lungo diciassette tappe. Poche settimane dopo conquista la sua unica vittoria nella massima categoria, nella tappa Prato-Grosseto del Giro di Toscana per Professionisti indipendenti. Il 1935 rappresenta il punto più basso di una parabola agonistica che sembra ormai al capolinea. Invece, nel 1936, il caorsano torna a gareggiare tra i Dilettanti e, pur senza tornare ai livelli migliori, riesce a togliersi qualche soddisfazione. In maggio, insieme ai compagni della Cesare Battisti, conquista la prestigiosa Coppa Italia di cronometro a squadre. Deve però attendere fino all’inizio di settembre per riassaporare il gusto di un successo individuale. Lo ottiene a Livraga, bissandolo la settimana successiva proprio nel suo paese, Caorso. La terza affermazione nel giro di un mese arriva a Carpaneto, nel Circuito della Valchero, e lo convince a ritentare l’avventura tra i Professionisti. Disputa, ritirandosi in entrambe le occasioni, al Giro di Lombardia del ‘36 e alla Milano-Sanremo del ’37, quindi comincia a dedicarsi soprattutto all’attività su pista. Proprio durante una riunione conosce un certo “Pedro” Fiore, un organizzatore torinese che recluta corridori per le manifestazioni in programma al velodromo “Luna Park” di Buenos Aires. Pavesi, senza pensarci troppo, sottoscrive un contratto di due mesi che prevede anche la partecipazione a una Sei Giorni. Nel settembre del 1937 s’imbarca per il Sud America: lì, oltre a una Sei Giorni da correre, l’attende una nuova vita. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, che in breve incendia tutta l’Europa, lo convince infatti a stabilirsi definitivamente nella capitale argentina, dove apre un negozio di biciclette e si sposa, formandosi una famiglia. Ma non può dimenticare l’Italia e Caorso: in seguito, anche se saltuariamente, torna nei luoghi della sua infanzia, per memorabili rimpatriate con parenti e amici. Gli ultimi anni della vita li trascorre in una casa di riposo di Josè C. Paz, paese a una quarantina di chilometri da Buenos Aires, assistito con affetto dai figli Patricia e Claudio e dalle nipoti Regina e Victoria. Nel 2008, pur essendo ancora in vita, gli viene intitolato quel velodromo di Fiorenzuola che nel lontano 1929, quasi imberbe, aveva praticamente inaugurato, partecipando alla riunione d’apertura del nuovo impianto insieme a Girardengo, Binda e Belloni.
Il 2 agosto 2011 il vecchio campione termina la sua “corsa”, a quasi 101 anni, due giorni prima dell’anniversario dell’impresa che, nell’ormai lontano 4 agosto 1932, gli aveva regalato quell’incancellabile alloro olimpico, in una giornata americana piena di sole, felicità e promesse troppo difficili da mantenere. (Graziano Zilli, Piacenza).


una delle ultime immagini di Attilio Pavesi, insieme alle nipoti Regina e Vittoria