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la Refezione di Faggi


A proposito di politici onesti, razza ormai in fase di estinzione.
Pochi credo ricordano oggi Angelo Virgilio Faggi. Tutto quel che ci resta di lui è una strada in città nel quartiere Besurica intitolata alla sua memoria. Lui appartiene alla storia politica di ieri, forse sarebbe più esatto dire dell’altro ieri, tanto pare la sua una figura sfuocata e atipica in quest’epoca di politicanti avidi di poltrone e di prebende. Angelo Faggi fu un combattente che lottò tutta la vita per le sue idee pagando un prezzo elevatissimo. Gli toccò vivere in un’epoca di lotte sociali accanite, in cui il proletariato viveva ancora sotto il tallone di ferro di un’oligarchia terriera e industriale che non permetteva nulla e nulla concedeva alla povera gente sfruttata ed oppressa. Il sindacalismo fu la vera difesa dei ceti umili emarginati dal benessere, solo appannaggio della borghesia avida e dispotica.

Faggi era toscano, nativo di Brozzi -una piccola località che oggi è un sobborgo della periferia occidentale di Firenze. Qui era nato nel 1885 nel seno di una famiglia povera di tradizioni socialiste. I suoi studi erano stati modesti: terminò unicamente il corso elementare inferiore. Ad appena quindici anni si iscrisse al partito socialista, entrando nelle file del sindacalismo più combattivo, vale a dire nell'Unione Sindacale Italiana (USI), vicina alle posizioni anarchiche del Sindacalismo rivoluzionario dove fece carriera grazie al suo attivismo. Godeva di larga popolarità fra i lavoratori di Sestri Ponente ove si era trasferito nel 1905 lavorando come operaio marmista. Presto fu nominato segretario della locale Camera del Lavoro, una delle poche in cui prevalevano le posizioni del sindacalismo rivoluzionario e tale carica mantenne con ottimi risultati fino agli inizi del 1908, grazie al suo ininterrotto prodigarsi come organizzatore sindacale e propagandista. Contemporaneamente si distinse nell’attività giornalistica come corrispondente del periodico milanese Avanguardia socialista. Fu pressappoco in quel periodo che fece la sua prima apparizione a Piacenza presso la locale Camera del Lavoro.

In seguito a condanne per reati politici emigrò in Svizzera dove fu espulso per l'attività di organizzatore sindacale dei minatori italiani. Si spostò a Parigi e poi negli USA. Qui collaborò alla realizzazione del giornale "Il Proletario" e nel maggio del 1917 ne divenne il direttore. In seguito all'entrata in guerra degli Stati uniti nel 1917 la repressione anticomunista divenne più dura. Faggi venne arrestato per sedizione e complotto una prima volta nel 1917 assieme ad altri della redazione del giornale, poi nel 1919 quando molti collaboratori furono nuovamente arrestati a Faggi toccò la deportazione in Italia.

Tornato a Piacenza fu nominato segretario della Camera del Lavoro, insistendo, nonostante la sorveglianza della polizia, in un'opera di capillare propaganda a favore dello sciopero agrario. Subito denunciato si diede alla latitanza ma venne arrestato a Sestri Ponente nell'ottobre 1919. Prosciolto per insufficienza di prove, iniziò a tenere discorsi su i nuovi orizzonti del proletariato dopo la vittoria bolscevica. In quest'ottica guidò gli operai nel febbraio 1920 all'occupazione delle fabbriche a Sestri Ponente, tradizionale cittadella rossa, non riuscendo però a organizzare compiutamente i consigli operai. Rinunciò temporaneamente nell’estate del 1920 alla carica di segretario della Camera del Lavoro di Piacenza per continuare in Liguria la sua instancabile opera di propagandista, facendo parte del Comitato centrale dell'USI. Partecipò accanto agli anarchici alla campagna per la scarcerazione di Enrico Malatesta, scatenando un grande dibattito interno all'area anarchica e rivoluzionaria sull'opportunità di andare in parlamento. Sempre nel 1921 da segretario della Camera del Lavoro di Sestri Ponente firmò un disperato ed infruttuoso tentativo di pace con il fascismo. Più volte vittima di aggressioni armate squadriste, a Piacenza organizzò la sezione locale degli Arditi del Popolo e dopo il consolidamento del fascismo come regime dovette fuggire in Francia.


Tornò in Italia dopo la Liberazione e venne di nuovo a Piacenza ove riprese l'attività politica e sindacale seguendo il destino di molti altri compagni invischiati nelle lotte fratricide che dilaniarono il socialismo del secondo dopoguerra. Ma continuò anche quella che era la sua vocazione d’origine, cioè l’attività sindacale e quella giornalistica. Divenne vicepresidente della Camera del Lavoro, e, poi, prima condirettore e più tardi direttore del quotidiano Piacenza nuova. Aderì al PSIUP (Partito socialista italiano di unità proletaria) e partecipò come delegato di Piacenza al XXV congresso del partito nel gennaio del 1947. Ne divenne segretario della federazione piacentina per poi staccarsi e fondare il Partito socialista unitario. In quest’ultima formazione politica gli fu accanto anche mio padre che aveva abbandonato Nenni per Saragat.

Nelle elezioni comunali del 1951 fu eletto consigliere comunale. Fu in questi stessi anni che io lo vidi per la prima volta. Stava nella cosiddetta sala B del vecchio Roma (la sala dei pëssgatt) che era allora occasionalmente la sede di quella formazione politica e, a dispetto dell’età, arringava i compagni con voce stentorea e al tempo stesso vibrante di passione. Era un ometto dal viso rugoso, i pochi capelli bianchi tagliati a spazzola, vestiva un abito scuro dalla giacchetta lisa e un po’ gualcita, in testa portava un basco blu che aveva conosciuto tempi migliori ma i suoi occhi erano vivaci, inquieti seppur lo sguardo fosse umile e buono. Lo ricordo così e so che mi ispirava una certa soggezione. Spesso mi si rivolgeva in modo educato senza alcun tono paternalistico come invece spesso mi accadeva con altri che, saputomi figlio del titolare, solevano mostrarmi una finta cordialità. No, Faggi era diverso, lui mi parlava da pari a pari, ero io che stentavo a rispondergli dopo che il babbo mi aveva tanto parlato di lui, della sua vita disgraziata, delle sofferenze patite. Io bambino di fronte a quell’uomo ero convinto di parlare ad una sorta di eroe puro e cavalleresco e mi confondevo, balbettavo e lui sorrideva come un fanciullo di fronte al mio imbarazzo. Una volta ricordo che lo vidi in cortile che sbucciava con un piccolo temperino una pera che forse gli avevano regalato. Appena mi vide mi fece cenno di avvicinarmi e mi porse gentilmente una porzione del frutto dicendo “Assaggia, è bbona”. Ho ben viva la sua immagine dimessa che all’ora di pranzo faceva immancabilmente la sua apparizione in albergo. Non entrava mai dall’ingresso principale, passava dal cortile e sgusciava in cucina se non c’era troppa agitazione. Con la sua parlata toscana arguta e colorita salutava mio zio cuoco e scambiava con lui poche parole sul tempo o su altre questioni banali poi, quasi vergognandosene, gli porgeva una piccola gavetta di alluminio in cui lo zio versava una fumante zuppa di verdura. Era il semplice pranzo che lui portava a casa alla figlia handicappata e alla moglie gravemente malata che non poteva più occuparsi della cucina.

Mio padre lo venerava come il simbolo di quel socialismo di onesti galantuomini che l’Italia di allora poteva ben vantarsi di avere. Socialisti forse un po’ pasticcioni e sempre in eterna polemica tra loro, ma gente onesta, tenacemente attaccata alle proprie convinzioni, che aveva subito le bastonature dei fascisti senza mai rinnegare il proprio credo. E fu proprio mio padre tra quelli che nel PSDI, (Partito socialista democratico italiano), che si costituì più tardi, lo vollero nel luglio 1956 sindaco della nostra città per onorarne la figura di integerrimo combattente antifascista. Purtroppo il vecchio sindacalista aveva alle spalle una vita avventurosa e disordinata che lo aveva logorato nel fisico lasciando in lui ferite insanabili. Il 6 gennaio 1957, all'età di 72 anni venne stroncato da disturbi cardiaci. A poche ore di distanza si spegneva anche la moglie. La città gli tributò solenni funerali celebrati dal vescovo Malchiodi, forse gli unici veri onori che ebbe mai in quella sua vita errante di clandestino e di fuoriuscito.(di giorgio vecchi).


antico stemma araldico