penna

Inverni e Febbroni “d’Antan”

di Giorgio Vecchi

Nebbia ovunque. Una nebbia fitta e grassa che si poteva quasi tagliare come una torta e che avvolgeva strade e piazze della città seppellendo e cancellando vetrine di negozi e facciate di case. Una nebbia grigiastra e madida che spesso accompagnava i miei mattinieri spostamenti di scolaro lungo la via Cittadella fino al cosiddetto Rione Mazzini situato dietro Piazza Cittadella. E’ questo per me il ricordo più intenso di quei primi anni cinquanta. Anni di fame, di miseria, di giacche rivoltate, di cappottoni pesanti che non scaldavano. Perché il freddo era dentro, era il freddo della guerra ancora presente, di ferite non ancora rimarginate, di odi che tardavano ad estinguersi. Ma io di queste cose poco comprendevo, poco realizzavo, vivendo nel guscio dorato di una grande famiglia composta non soltanto dai miei genitori e dagli zii ma anche dalla schiera compatta dei numerosi clienti ed amici che quotidianamente popolavano le sale del Roma. Eppure qualcosa di quegli anni, di quell’atmosfera mi è rimasta dentro e se devo rievocare un luogo, un evento, un ricordo sento ancora l’umido di quella nebbia gelida, di quell’aria pesante e oppressiva che non poteva sciogliere il gracile sole di quelle lontane primavere ancora esitanti dopo il lungo inverno. Gli inverni di quel tempo erano interminabili o così a me parevano, con nevicate abbondanti che mi facevano fremere di gioia quando alzandomi alla mattina scorgevo la bianca coltre adagiata su tetti e terrazze. Talora però il breve tragitto fino alla scuola diveniva difficile quando le nevicate erano abbondanti: i mucchi di neve spalata impedivano il passo regolare, le gambe affondavano fino ai ginocchi, gli scivoloni, specialmente se la neve era ghiacciata, erano frequenti. In questi casi mia madre insisteva per accompagnarmi fino a scuola con mio grande disappunto sia perché la sua presenza mi avrebbe impedito di fare a pallate con altri coetanei sia perché temevo i dileggi dei compagni che potevano tacciarmi di femminuccia. Ero, come ho ripetuto più volte, un bambinetto magro e gracile, più alto della maggioranza dei compagni, alquanto cagionevole di salute a causa delle tonsille perennemente infiammate. Ero sensibile ai colpi d’aria, all’umidità e al gelo di quei mesi invernali che per me spesso significavano settimane di letto con febbri altissime.


con mia cugina Marisa (a destra) e un'amica

I miei genitori avevano sondato la possibilità di armi estirpare le perniciose tonsille ma si erano sempre scontrati con la ferma e intransigente opposizione del dottor Pettenati, il popolare pediatra cittadino che da sempre si occupava della mia cagionevole salute. Egli era convinto che sarebbe stato un grave errore operarmi; le tonsille, diceva, erano uno scudo contro i germi di altre infermità più gravi e non conveniva assolutamente toglierle, con il tempo tutto si sarebbe sistemato.Io intanto continuavo regolarmente ad ammalarmi appena si passava dall’estate all’autunno e il clima si raffreddava; con il tempo mi ero abituato a quelle lunghe settimane di letto, anzi se devo dirla tutta presi quasi a desiderare i prima tanto temuti febbroni che mi permettevano di passare comodamente a casa, nel mio caldo lettino, tanti giorni invece di affrontare le mattutine levatacce per andare a scuola. Sia ben chiaro che non odiavo la scuola anzi mi piaceva, inoltre ero tra i più bravi e non facevo fatica a recuperare i giorni perduti per malattia. Ma quelle soste forzate mi permettevano di dedicarmi con tranquilla comodità alla mia grande passione, la lettura. Già allora leggevo di tutto con grande avidità. I miei genitori non avevano avuto una grande istruzione né erano grandi lettori (mio padre lo sarebbe divenuto con gli anni), eppure fecero del loro meglio per assecondare la mia incipiente passione, comprandomi alcuni libri adatti alla mia età. Del resto la maestra Campominosi diceva a mia madre che ero portato per il componimento d’italiano e per la storia. Lessi moltissimo in quei forzati ma non disprezzabili ozi. Nei primi anni, per la verità, leggevo storielle molto semplici come le grandi fiabe della Disney che poi vedevo al cinema, Cenerentola, Biancaneve, Pinocchio, Bambi e naturalmente gli Albi d’oro di Topolino che narravano le divertenti avventure della banda Disney. In seguito divorai molte opere della letteratura infantile in particolare i libri della Scala d’oro che rendevano agevole ai più piccini la lettura dei capolavori dell’antichità da Omero a Virgilio.Mi piaceva enormemente starmene tra le coltri con un bel libro tra le mani specialmente se la febbre era bassa e potevo leggere con mio comodo.


in bicicletta per il cortile del vecchio Roma

Non ho mai scordato una notte di Natale, verso il ’51 o il ’52, perché c’era un’atmosfera particolare: io anche quell’anno giacevo malato nel nostro grande camerone; ero solo poiché i miei erano impegnati dabbasso con un gran pranzo e solo di tanto in tanto mia madre faceva una capatina per vedere come stavo. Verso la mezzanotte udii il suono delle campane della vicina chiesa dii S. Francesco proprio mentre leggevo una bella fiaba natalizia. Non accadde nulla di eccezionale ma provai in quel momento una dolcezza e una serenità nel mio cuore di bambino che non mi è mai più capitato di provare. Riesco ancora a percepire dopo tanti anni quel momento unico e speciale e quasi a riviverlo: era una sensazione di benessere e di gratitudine verso il Creatore che provai, ringraziandolo mentalmente per avermi fatto nascere nel seno di quella grande famiglia e in quel luogo privilegiato che era il Roma .Un’altra sera ero a letto, convalescente dalla solita tonsillite, e capitò che per il gran numero di pëssgatt ogni spazio in albergo fosse occupato. Allora mio padre per venire incontro ai desideri di alcuni amici che erano rimasti senza tavolo li dirottò in camera nostra. Lì c’era un gran tavolone rotondo ove presero posto. Mi ricordo che tra essi c’erano pure mio zio Gino Bassi e Cecco Metti per cui non ero per nulla imbarazzato e assistetti dal mio letto ridendo alla loro partita a carte. Appena più grandicello, ricevetti in dono alcuni libri di una nuova popolare collana dell’editore Salani, la Biblioteca dei miei ragazzi, che lessi con grande interesse. Vi si narravano storie di fanciulli intrepidi e intraprendenti che affrontavano improbabili misteri e li risolvevano come consumati detective. Finii per acquistarli spesso e ancora li conservo poiché mi preoccupai sempre nei vari traslochi che non andassero perduti.Più tardi mi appassionai alle opere di Giulio Verne -così lo si chiamava a quel tempo italianizzando sia nome che cognome- in adattamenti per giovinetti proposti dalla casa Principato. Mi piaceva lo stile di Verne che mescolava avventura e divulgazione scientifica in quei racconti celebri anche per le trasposizioni cinematografiche che se ne fecero. Tra esse apprezzai particolarmente, dopo aver letto i romanzi, Ventimila leghe sotto i mari e I figli dal Capitano Grant, ma il mio preferito fu sempre L’isola misteriosa, sebbene mi spiacesse allora che i fuggiaschi sull’aerostato fossero i detestati nordisti.Ma vi fu un libro che lessi e rilessi in quegli anni senza mai stancarmene ed era Cuore di De Amicis, sul quale versai molte lacrime, commosso dai celebri e toccanti racconti mensili: Dagli Appennini alle Ande, La piccola vedetta lombarda, Il tamburino sardo. Ma fu sempre Sangue Romagnolo, il racconto che mi suscitava maggior emozione: la morte di Ferruccio che impedisce quella della nonna mi faceva pensare alla mia cara nonna Linda. Avessi potuto, mi dicevo, avrei compiuto anch’io quel nobile gesto che per il protagonista riscattava un errore giovanile. Crescendo mi allontanai da quel condensato di nobili struggimenti e fu un nuovo libro a catturarmi, Il Giornalino di Gian Burrasca di Luigi Bertelli, detto Vamba. Me lo regalò Egidio, lo zio cuoco, su indicazione di un nostro affezionato cliente che già da un po’ di tempo viveva in albergo.


veduta del vecchio Roma a piacenza

Era il dottor Benvenuto Bertoli, direttore del Credito Italiano, che aveva sede in Largo Battisti. Di lui conservo un grato ricordo, era una pasta d’uomo, originario, credo, di Sassuolo o di Carpi e dei veri emiliani (categoria un pò diversa dai piacentini che disgraziatamente sono mezzo lombardi) possedeva la simpatia e l’arguzia. Assegnato a Piacenza, vi rimase parecchi anni e fu ancora nostro cliente nel Grande Albergo Roma. Essendo un accanito fumatore –lo si notava dagli accessi di tosse che spesso lo assalivano- mi incaricava talora di acquistargli le sigarette nella vicina tabaccheria di Guido: sempre pacchetti da dieci e di una strana marca, le Gelbe Sorte, che solo lui fumava. Quando mi si rivolgeva mi chiamava sempre Gianni, certo in onore dell’eroe vambiano che con le sue birichinate mi aveva fatto ridere a crepapelle. A me faceva un piacere enorme poiché così mi sentivo un protagonista al pari di Gianburrasca. Non potevo certo paragonarmi al terribile Giannino Stoppani poiché la mia innata timidezza mi frenava; è certo però che ammiravo quel monello e avrei voluto talora emulare le sue imprese. Ci andai vicino un giorno che in un crocchio di clienti seduti nella sala dei pëssgatt udii uno di loro dire qualcosa su mio padre che non mi garbò, non ricordo cosa fosse esattamente ma l’autore della frase era un certo Nicelli, che a me era cordialmente antipatico. Senza dir nulla a nessuno andai in cantina presi una scopa e usando il manico a mò di clava assestai sulla zucca pelata del povero Nicelli un colpo magistrale. Immaginatevi le ire dei miei che mi diedero una solenne lavata di capo, nonostante che il Nicelli, che era amico di vecchia data di papà, si interponesse per calmarli. Devo dire che grazie ai suoi buoni uffici evitai un castigo peggiore per cui da quel giorno mi fu un po’ meno antipatico.


a tirrenia nel 1952

I miei ricorrenti febbroni mi riportano alla memoria un altro curioso personaggio che fu nostro ospite nei primissimi anni cinquanta e che allora mi incuteva un certo timore. Si trattava di un commissario di pubblica sicurezza partenopeo, il dottor De Luca, che nel nostro albergo viveva stabilmente avendovi trovato come molti altri clienti un’accoglienza casalinga e amichevole. Anche il De Luca come il Bertoli era molto interessato a me e alla mia salute. Pur apprezzando il suo interesse per me dovevo nascondere un certo fastidio che la sua persona mi provocava. Spesso insisteva che pranzassi con lui, cosa di cui avrei fatto volentieri a meno. Ricordo, infatti, con un certo disgusto, che i suoi modi a tavola non erano molto ortodossi: da buon napoletano prediligeva la pasta asciutta al pomodoro che divorava di gusto con rumorose aspirazioni inondandosi il mento di salsa e senza prendersi la briga di usare il tovagliolo. Inoltre era anch’egli un accanito fumatore che scatarrava quasi ad ogni momento cavando di tasca un fazzolettone su cui depositava il frutto delle sue espettorazioni. Fu tuttavia in occasione di un evento che avrebbe potuto avere per me tragiche conseguenze che conobbi la sua umanità. Durante una delle consuete irritazioni alle tonsille i miei genitori fecero a meno per una volta di rivolgersi al dott. Pettenati.


albergo Roma - foto laura badiini

Uno dei nostri clienti abituali disse a mio padre che suo genero, medico di fresca nomina, avrebbe potuto darmi un’occhiata. Il giovane venne, mi visitò e prescrisse una medicina che fu subito acquistata in farmacia. Una serie di fatali sviste commesse sia dal farmacista, che consegnò il prodotto sbagliato, sia dal medico, che non controllò il nome del farmaco, fecero sì che mi venisse iniettata una antitetanica in luogo di una antidifterica. Il pericolo di una paralisi o l’insorgere di una difterite non erano da scartare per cui mi toccò rimanere a letto per precauzione più di un mese quasi senza muovermi. Il De Luca venne più volte a visitarmi e a rincuorarmi. Pretendeva che venissero denunciati sia il farmacista sia l’inesperto medico, poi si intromise mio padre e la cosa non ebbe seguito, anche per il favorevole decorso della malattia. Ricordo comunque il buon De Luca al mio capezzale che non si stancava di ripetere col suo forte accento partenopeo “Non è diffetterite, è una semplice tonsillite,”.