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Ferdinando - Piccole Storie Dimenticate

“FERDINANDO”
“Racconto di Piero Zucconi”

Le piccole storie qui raccontate sono basate su fatti realmente accaduti
che riguardano alcuni miei antenati: Luigi e Ferdinando Zucconi, Giustina Borselli
e sua figlia Teresa Pecorini, mia nonna.
Le storie sono tutte ambientate nel paese di Campremoldo Sotto che ha fatto
da fondo storico e sociale alla mia ricerca.
Alcuni personaggi sono realmente esistiti, altri sono inventati, ma tutte queste
persone hanno preso corpo nella narrazione degli avvenimenti che ho cercato
di ricostruire ed ora vivono nel mio cuore.
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Ferdinando Zucconi era un ragazzino di 9 anni, piuttosto minuto di corporatura, sveglio e curioso, che viveva a Campremoldo di Sotto o Sottano, nel territorio che oggi fa parte del comune di Gragnano Trebbiense, assieme ai genitori ed alle sorelle. Suo padre Luigi era carrettiere ed il suo mestiere consentiva alla famiglia di vivere discretamente in relazione alla situazione economica del tempo. Abitavano alla Cà Russa, a trecento metri dal centro del paese sulla strada per Borgonovo. La casa era di proprietà ed aveva una stalla per il cavallo, un pollaio di galline ed una biolca di terra coltivata ad orto. Ferdinando aveva una carnagione chiara costellata da efelidi, capelli rossicci e occhi grigi, vivaci e sospettosi.In casa, suo padre e sua madre lo chiamavano Nandéi, Nandino, ma per tutti in paese era Nanù 'd Padù perché il padre di Ferdinando era soprannominato Padù, cioè "che cammina scalzo". A quell'epoca, eravamo alla fine del Settecento, anche i bambini di quell'età erano ritenuti abili per certi lavori e lui, oltre ad aiutare sua madre nell'orto, a dar da mangiare al cavallo ed alle galline, accompagnava spesso suo padre nei suoi viaggi, ma era ancora troppo bambino per farlo con assiduità e buona voglia. Gli piaceva guidare il carro, gli piaceva correre nell'erba a piedi scalzi oppure buttarsi nell'acqua della Luretta e dare la caccia alle rane, ma quello del carrettiere era un lavoro duro e non si poteva pretendere che usasse il badile per caricare ghiaia. Il mondo di Ferdinando era piccolo e meraviglioso. Per lui, tutto era bello e confortevole e non avrebbe voluto vivere in nessun altro posto, anche perché non ne conosceva altri. Si riteneva fortunato: aveva un buon padre, una madre bonaria che lo trattava con spirito allegro, due sorelline che lo adoravano ed anche qualche amico. La sua famiglia non era ricca, però la sua vita era tranquilla e non sempre i bambini della sua età se la passavano allo stesso modo. Quando Ferdinando in autunno o in inverno vedeva passare qualche gregge accompagnato da un famèi, un famiglio, ossia un bambino che aveva all'incirca la sua stessa età o che era di poco più vecchio che aiutava il pastore, lo compiangeva e provava pena per lui, ma nemmeno invidiava i ricchi o i benestanti: i padroni con i loro castelli, le loro fattorie, le loro carrozze e le loro servitù. Erano talmente lontani dalla sua realtà che non avrebbe voluto vivere che in quella sua casa, con i suoi genitori, i suoi gatti e le sue due sorelline che lo chiamavano Nanù. Ferdinando non sapeva né leggere, né scrivere, però qualcosa sapeva. Infatti, il parroco di Campremoldo, Don Andrea Baccini, quando chiamava a sé i bambini del paese per il catechismo, insegnava loro anche l'alfabeto e perfino i primi rudimenti per far di conto. Erano lezioni alla buona, senza obbligo né metodo e gli alunni, per così dire, che le presenziavano facevano fatica a stare attenti. Ripetevano solo a voce alta gli enunciati del prete, ma se qualcuno di loro era curioso di imparare, poteva avere un aiuto e perfino sperare di poter capire quello che vi era scritto in quegli oggetti misteriosi che si chiamavano libri. Ferdinando aveva frequentato quelle lezioni da quando aveva cinque anni. Aveva buona memoria e sapeva recitare il Padre Nostro, ma sapeva anche scrivere il proprio nome, seppure a fatica. Il suo apprendimento era stato lento, ma costante perché la risposta ad una sua domanda provocava un'altra domanda. Per esempio, aveva chiesto al suo insegnante, perché
erano state scritte le parole sui libri, perché quelle parole erano diverse da quelle che sentiva dire da suo padre e da sua madre e perché lui doveva avere un nome ed un cognome. Allora il parroco, soddisfatto di quelle curiosità, gli mostrava i registri che teneva in sacrestia e gli faceva vedere la pagina sulla quale era stato registrato il suo battesimo, spiegandogli che, essendo stato scritto il suo nome su quel libro, poteva sapere quando era nato e quanti anni aveva. Con il dito gli indicava ciò che era stato scritto: "Die vigesima tertia Februarj Millesimi Septagentesimi: Zucconi Ferdinandus ex jugati Aloyisius et Peveri Angela, natus heri ora nona.." Sul libro dei battesimi erano state registrate anche le date di nascita delle sue sorelle: all'anno 1793 "Cattarina" ed al 1794 "Joannina Maria". Ma perché Don Baccini aveva scritto in latino? perché lui, che tutti chiamavano Nandèi o Nanù, figurava come Ferdinandus? E perché suo padre che si chiamava Luigi, Aloyisius? Perché, gli spiegava il parroco, se qualcuno per esempio parlava il Francese e non l'Italiano, capiva egualmente, in quanto il latino era una lingua universale! Ma qui le cose si complicavano e Ferdinando perdeva l'orientamento logico del suo pensiero. Quando tornava a casa, raccontava tutto questo a suo quello che gli aveva detto il parroco, ma suo padre non faceva tante considerazioni. Diceva che ai preti quel modo di scrivere serviva solo per non farsi capire e per poter stupire la gente, ma sua madre Angela zittiva il marito dicendogli di avere più rispetto per la chiesa e per Dio. padre e gli chiedeva se ne sapeva qualcosa anche lui di Ferdinando pensava che un giorno anche lui avrebbe saputo tante cose come Don Andrea e si formava nel carattere con una sicurezza che a volte si tramutava in irriverenza. Così quando la sera si tenevano i filoss, si vantava di sapere cose che gli altri bambini ignoravano e, se questi gli facevano domande a cui non sapeva rispondere, inventava. I filoss erano la consuetudine di ritrovarsi d'inverno nelle stalle per passare la serata riscaldati dal calore che emanavano gli animali, ma d'estate le famiglie uscivano tutte in strada, accanto ai vecchi che raccontavano storie, agli uomini seduti fuori dall'osteria, alle donne che rimanevano a chiacchierare fra di loro mentre rammendavano ed ai bambini che giocavano a nascondersi ed a rincorrersi. Don Andrea Baccini era il parroco di Campremoldo e la chiesa era sostenuta da una possessione agricola sulle quali viveva una famiglia di fittabili. La chiesa non era grandissima ed era stata costruita da almeno due secoli. I lasciti fondiari erano attestati da documenti in pergamena che erano stati gelosamente conservati nel corso degli anni ed erano risalenti al 1200. Alla sua destra, guardando la facciata, vi era il camposanto, un luogo all'aperto dove si dava sepoltura ai morti. Del resto, lo stesso nome di Campremoldo evocava questa consuetudine perché si diceva che il nome del paese fosse stato Campus Mortuorum, essendo cresciuto attorno ad una vasta zona di sepoltura di epoca romana, facendo riferimento alla battaglia della Trebbia tra Annibale ed i Romani avvenuta nel 218 a.C., e ritenendo che quello fosse, assieme naturalmente a Campremoldo di Sopra, uno dei luoghi di sepoltura dei soldati uccisi. Del resto, nella dizione dialettale suona come Camparmort. La chiesa aveva alle dipendenze come sacrestano un certo Maretti, un pover'uomo con gli occhi storti e che, per un difetto dovuto ad un riflesso nervoso, teneva la bocca aperta da cui spesso penzolava la lingua. Il suo aspetto generale non lo favoriva, ma era di natura semplice e di carattere mite. Aveva un solo vestito e portava sempre quello, inverno o estate che fosse, ma si sentiva privilegiato nel poter effettuare l'incarico di sacrestano che espletava con estrema serietà. Teneva pulita la chiesa, lucidava il pavimento, accendeva le candele, preparava l'altare per le funzioni, suonava la campana e sgridava i ragazzini che giocavano sul sagrato urlando senza rispetto. Loro non se ne curavano e lo canzonavano per i suoi difetti, perché era facile prendere per il naso una persona così. Gli facevano le facce, ne imitando l'espressione storcendo gli occhi e tirando fuori la lingua gridandogli in coro: “Sumèr, sumèr, sumèr, Maréti!” Lui soffriva nel sentirsi dare del somaro e cercava senza esito di acciuffarli per dar loro una lezione. Eravamo a metà Giugno dell'anno 1799, quando a Campremoldo accadde un fatto straordinario: un intero battaglione di soldati venne ad accamparsi nei pressi del paese! Prima del loro arrivo si erano sentite voci di certi avvenimenti di guerre e rivoluzioni, ma nessuno sospettava di potersi trovare, un giorno, al centro di fatti così grandiosi. Il giorno 15, un sabato mattina, si era vista arrivare dallo stradone una carrozza, sulla quale stavano due ufficiali in divisa, seguita da alcuni cavalleggeri che si erano soffermati a guardare la zona di campi liberi che si trovavano oltre il camposanto della chiesa e, dopo pochi minuti, andarsene, ma non si era capito il motivo di quella visita. Ed ecco che verso sera dallo stesso stradone apparve la lunga fila di uomini a piedi ed a cavallo che invase quei campi senza chiedere il permesso a nessuno. Per la gente del paese, era un evento ed anche Ferdinando accorse a vedere da vicino i movimenti di quei soldati che sistemavano il loro accampamento. Dopo aver staccato i cavalli dai carriaggi e piantato le tende, avevano acceso dei fuochi, intendendo così passare la notte nel modo a loro più comodo. Gli ufficiali ed i loro aiutanti si erano insediati in una cascina detta “La Civarda”, cacciando gli occupanti e requisendo mucche e galline. Se qualcuno tentava di protestare, gli veniva promesso che il danno sarebbe stato rimborsato rivolgendosi al Console di Gragnano che avrebbe confermato l'impegno. Ferdinando era incuriosito da quei militari che vedeva per la prima volta, ammirava le loro divise bianche e verdi, gli stivali lunghi fino al ginocchio e il cappello alto piumato con la visiera. Naturalmente, ciò che più attirava la sua attenzione erano le armi, i fucili con la baionetta e le sciabole dei cavalleggeri, lucide e splendenti, ma si stupiva anche nel vedere le loro facce tanto diverse da quelle degli uomini del paese, facce slavate di persone sconosciute. Sentiva il loro odore, quello delle loro uniformi e quello aspro del cuoio degli stivali e delle selle. Tutto per lui era nuovo e affascinante come il riflesso di un mondo lontano. I soldati tolleravano l'intrusione di quei coraggiosi che si aggiravano nel loro accampamento, sorridendo soddisfatti dello stupore che provocavano e lanciavano fischi e grida verso le donne del paese che timidamente li osservavano da lontano. Quelli erano i 3500 Polacchi del reggimento del Generale Dombrowski, alleati dei Francesi, che stavano avanzando contro le truppe della coalizione Austro-Russa, ma per tutti gli abitanti di Campremoldo erano soltanto gente venuta da lontano per chissà quale motivo. Le vicende politiche dell'epoca erano pressoché sconosciute ai paesani e non provocavano interesse sino a quando non andavano ad influire direttamente sulla loro vita. Questa guerra opponeva Francia ad Austria ed era iniziata nel 1792: sarebbe durata, salvo brevi intervalli 23 anni. I Francesi erano entrati in Italia nel 1796 agli ordini del “giovane generale della repubblica” Buonaparte, che aveva varcato i confini del Ducato di Piacenza occupando Castel San Giovanni. Il duca, l'Infante don Ferdinando, al cui nome probabilmente si era ispirato il padre di Nanù per battezzare il figlio, era del ramo dei Borboni di Spagna e non era nemico dei Francesi, ma Napoleone con spregiudicatezza lo metterà da parte. Al posto del Ducato sorsero le Repubbliche alle quali in quell'anno 1799 si stava opponendo una coalizione antifrancese. Il 28 aprile, l'esercito Austro-Russo aveva occupato Milano ed aveva puntato verso il Po proseguendo verso Torino, fino ad occuparla il 26 maggio. Le armate francesi provenienti dalla Liguria e da Napoli si stavano facendo incontro al nemico guidato dal generale russo Suvaroff che, passando per Alessandria e superando la Bormida con dei pontoni, si era accampato a Marengo e stava marciando su Tortona. I due eserciti si sarebbero fronteggiati su di un fronte che andava dal Po agli Appennini e presto sarebbero venuti a contatto. Don Baccini era rimasto stupefatto nel vedere quella gran massa di uomini sistemarsi nei campi a poca distanza dal paese. Dopo essersi fermato davanti all'altare per invocare l'aiuto di Dio, si fece timidamente loro incontro. Il buon prevosto aveva avuto l'anno precedente un sommario riferimento alle vicende che in quei tempi scuotevano l'Italia Settentrionale durante un incontro che vi era stato a Gragnano fra il vicario del Vescovo e tutti i parroci del circondario. In quella sede erano stati esposti gli avvenimenti che avevano causato tanto scompiglio e che avevano portato alla guerra che ora era in corso ed il povero Don Andrea era preoccupato di evitare i danni che sempre portano le guerre: terrore, morte e distruzione. Cercò di parlare al comandante di quelle truppe per sapere le loro intenzioni, ma fu fermato da un ufficiale che portava la feluca. L'ufficiale parlava in francese, lui in latino: non si capirono molto, ma il prete fu condotto al posto di comando situato nella vicina cascina dove vide che nel bel mezzo del cortile si trovava, in attesa di ordini, il deputato di Gragnano, Angelo Pozzoli. Questi riconobbe il parroco e gli si fece incontro. Don Baccini gli chiese se sapeva a chi appartenesse quell'esercito e quali erano le loro intenzioni, ovvero se prevedevano di fermarsi a lungo o se avrebbero proseguito nella loro spedizione. Quello rispose che si trattava di Polacchi, ma che intenzioni avessero, non lo sapeva nemmeno lui. Disse che c'era una guerra in corso e che era impossibile fare previsioni: sperava solo che il loro arrivo non creasse grossi disagi. Intanto Ferdinando, assieme agli altri ragazzi del luogo, prendeva confidenza e si aggirava nell'accampamento polacco osservando i soldati che si sistemavano, si toglievano le divise di panno verde, accendevano fuochi di bivacco e si apprestavano a passare la notte in quel loro accampamento. Mentre stava assistendo a tutto questo sentì il cuore balzargli in petto al suono di una tromba, ma sentì anche un grande scapaccione in testa. Sua madre era venuta a prenderlo per riportarlo a casa strattonandolo e rimproverandogli di essersi intrufolato in un posto pericoloso; di essere uno sconsiderato, di fare sempre tutto di testa sua senza chiedere il permesso a nessuno. Per adesso doveva prendere quelle botte, ma quando lo avrebbe riferito a suo padre, questi avrebbe certamente rincarato la dose. Ci furono risate al suo indirizzo da parte dei soldati e lui si sentì umiliato perché lo stavano trattando come un bambino piccolo, ma intanto pregustava la gioia di poter raccontare a chiunque la sua avventura. A sera, in chiesa, ci fu la funzione della benedizione, con la recita del rosario ed il canto delle litanie. La chiesa era affollata, perché in quel momento, tutti cercavano di stare assieme per poter fronteggiare giorni incerti. Don Baccini sapeva di non poter tralasciare di informare la popolazione del poco che sapeva. Lui sentiva il peso della propria responsabilità davanti a quelle persone: era la guida spirituale, ma anche l'unica autorità di Campremoldo. Al momento dell'omelia, cercò di riassumere la situazione senza provocare allarmismi, ma anche cercando di mettere i propri parrocchiani in condizione di distinguere ciò che stava dalla parte della religione e ciò che era per essa pericoloso. “Carissimi parrocchiani”, incominciò col dire. “Gli avvenimenti della vita ci riservano momenti di preoccupazione, ma noi dobbiamo sempre contare sull'aiuto del Signore che sempre protegge i propri figli. Tutti noi abbiamo oggi assistito all'arrivo nelle nostre terre, nel nostro paese, di truppe forestiere che sono coinvolte nella brutale esperienza della guerra. Sono accompagnate dal vento della distruzione e della morte e questo accade quando si smarrisce il timor di Dio ed il Demonio allunga le sue mani tentatrici per ottenere la dannazione delle anime. Tutto questo accade ed è la conseguenza dello smarrimento dei giorni nostri e dell'abbandono della via indicataci da Nostro Signore Gesù Cristo. Già negli scorsi anni, le soldatesche hanno invaso la nostra bella Italia occupando le nostre terre e cancellando i simboli della nostra religione, chiudendo chiese e conventi e sostituendo i simboli sacri con immagini profane. Adesso vengono a scontrarsi con gli eserciti imperiali,
ma io spero che la mano di Dio li tenga entrambi lontani dalle nostre case e dalle nostre famiglie e ci eviti lutti e distruzioni, dolori e miserie. Ed ora invochiamo la misericordia del Signore e la sua santa benedizione.” Mentre il silenzio era sceso nella chiesa, si sentì uno sbattere d'ali che fece prorompere qualcuno in una mal contenuta risata. Un barbagianni era entrato chissà come in chiesa ed or svolazzava di qua e di là distraendo i fedeli dalla sacra funzione. I paesani di Campremoldo erano per lo più contadini e senza istruzione, non sapevano niente di rivoluzioni o di eserciti imperiali, né tanto meno glielo poteva spiegare. Don Baccini, ma che era in corso una guerra, lo avevano capito. Non sapevano distinguere i due avversari e per loro uno valeva l'altro perché sarebbero stati loro a rimetterci, chiunque avesse vinto. Fuori dalla chiesa si formarono capannelli di persone che discutevano e si scambiavano impressioni, poi gli uomini si spostarono verso l'osteria, mentre le donne ed i bambini si avviarono verso casa. Angela, la madre di Ferdinando, mise a letto lui e le bambine, ma restò alzata ad aspettare il rientro del marito facendo alcuni lavori di cucito al lume della lucerna. Ferdinando dormiva nella camera accanto a quella dei genitori assieme alle sue sorelline che avevano un letto tutto per loro. Le bambine si addormentarono, ma lui non riusciva a dormire. Riviveva le emozioni della giornata e pensava che anche a lui sarebbe piaciuto fare il soldato. Immaginava di essere a cavallo con la sciabola in mano e di correre a passo di carica verso il nemico. Sentiva di tanto in tanto arrivare dalla stalla il rumore degli zoccoli della Bigia, la loro cavalla, che pareva anch'essa più agitata del solito. Udì il grido di una civetta, ma finalmente sentì il passo di suo padre, lo sbattere della porta e si tranquillizzò un poco. I suoi genitori si misero a parlare sottovoce. Probabilmente suo padre raccontava il contenuto dei discorsi che c'erano stati all'osteria, ma il tono da lui tenuto non presagiva niente di buono. Il giorno successivo Ferdinando, contrariamente al solito, si svegliò abbastanza presto. Era domenica 16 giugno. Sua madre era già alzata ed aveva acceso il fuoco del camino, sul quale aveva messo a bollire il latte. Ferdinando si alzò e corse fuori casa coll'intenzione di andare a vedere il nido di una merla, dove il giorno prima aveva visto che vi si trovavano tre uova da covare, ma quando fu in strada, vide avvicinarsi di corsa Gepù e sbracciarsi. Gepù era un suo amico, figlio di agricoltori, che abitava in una cascina poco lontana chiamata “Contadina”. Aveva un anno più di Ferdinando, ma bastava quell'anno per farlo sentire superiore ed a considerare l'amico come un bambino da poter comandare ed assoggettare alla sua volontà. Questo non piaceva affatto a Ferdinando che continuamente si ribellava a questa situazione provocandolo e sfidandolo a fare la lotta con lui con la speranza di poterlo battere. “ Nanù” lo chiamò Gepù, “andiamo a vedere i soldati?” I due ragazzi si parlavano in dialetto. “Nanù, anduma a ved i suldè?” “Me mèr la vò mia ch'ag vaga a taca.” “ E bei? staruma distant! As sidum in sal pradell d'la ciesa.” Con quella precisazione Ferdinando lo seguì e i due corsero sullo stradone fino al centro del paese. “ Sèt che a ghé di suldè anca a la Muflona? I a vist al Tanu d'la Lina. Ghné da par tutt!” Gepù era eccitato da quella situazione. I due ragazzini si sedettero a discreta distanza del campo dei Polacchi da cui si sentivano provenire rumori e grida, suoni di tromba e perfino il botto di una schioppettata. - Cun sciopp ad chi lé at pò massè una leura a duseint pass ad distansa! - disse Gepù. - Dabon?” si meravigliò Nanù. “E adess cus i farann chemò?” Gepù voleva far credere di saperla lunga e disse che se c'erano dei soldati, voleva dire che ci sarebbe stata una guerra. Lo diceva anche suo padre che aveva una vasta esperienza e conosceva cose che gli altri non sapevano. Suo padre una volta è stato in una città che sta al di là dei monti che si chiamava Genua ed aveva visto il mare!
Ferdinando lo ascoltava con l'animo proiettato verso qualcosa di grande e di misterioso.
Pensava alla guerra, a gente che veniva da lontano per qualche motivo indefinito marciando su di una strada che passava sopra le montagne fino ad arrivare al mare.
“ Tu non lo sai neanche che cos'è il mare!”, disse Gepù. Ferdinando rimase in silenzio.
Raccolse da terra un sasso e lo gettò lontano Alla messa domenicale fece grande sensazione l'ingresso in chiesa di alcuni militari. Questi presero a guardarsi intorno sostando davanti a due quadri che raffiguravano uno l'Annunciazione e l'altro una Sacra Famiglia e che gettavano lo splendore dei loro colori all'interno della chiesa. I militari dovevano essere di alto grado, perché avevano divise ornate di fregi dorati e la feluca che ora tenevano rispettosamente in mano. Fossero stati Francesi, di cui erano pur alleati, non sarebbero entrati in chiesa se non per disprezzare i riti che vi si tenevano, figli com'erano della rivoluzione anticlericale, invece i Polacchi erano cattolici e forse erano entrati in chiesa per chiedere a Dio un aiuto in quei momenti difficili. I due ufficiali sostarono davanti all'effigie della Madonna ed accesero due candele votive, uscendo subito dopo seguiti dallo sguardo di tutti. Don Andrea, continuò la sua celebrazione senza interrompersi.
Il suo cuore si era riempito di gioia vedendo quei soldati entrare in chiesa, perché era un omaggio alla Fede che sovrasta ogni autorità. Da tutti, questi stranieri venivano guardati con grande curiosità, e già sul loro conto si alzavano risate di scherno per certi loro comportamenti assurdi. Alla cascina Civarda, dove alloggiava il comando militare, era stato visto un soldato cavare acqua dal pozzo con un paiolo sporco di fuliggine! Un altro pretendeva di poter spaccare legna su di un tavolo della cucina. Non ci furono contatti amichevoli con i paesani, né ci potevano essere, perché i Polacchi parlavano una lingua sconosciuta e non si rivolgevano che all'oste. Furono visti entrare con grande familiarità all'osteria ed ordinare da bere. Fu loro servito del vino che dovette piacere in quanto ne consumarono ben 12 boccali. La giornata proseguì in modo pacioso seguendo i ritmi del giorno di festa: il pranzo in famiglia e l'ozio vissuto come una benedizione. Gli uomini si misero a giocare a bocce, le donne si trovarono a chiacchierare all'ombra del portichetto dietro casa, mentre le bambine, vestite a festa, saltellavano al gioco del “mondo” con un biscotto da sgranocchiare in mano. Ma la presenza di tutti quei soldati a poca distanza dal paese incombeva e le donne non cantavano, come erano solite fare nei giorni di festa e nell'osteria gli uomini non litigavano né cercavano di ubriacarsi. Ferdinando si era dato al suo passatempo preferito: levare il cavallo dalla stalla e montarlo. Quel cavallo grigio chiaro e solido si chiamava Bigia ed era in realtà una cavalla. Abituata ai lavori pesanti, ben sopportava il leggero peso del suo padroncino e passeggiava composta nel campetto dietro casa per la gioia di Ferdinando che per lei aveva una vera passione. Le dava il fieno, carote e bietole da mangiare, la strigliava, l' accarezzava, le parlava con voce allegra mentre la cavalcava con le sole redini. La Bigia pareva che di questo si compiacesse, mentre trotterellava in tondo con Ferdinando sulla groppa. Di corsa spuntò dall'angolo della murella di recinzione il suo amico Gepù che si mise a pregarlo di far montare anche lui. Ferdinando lo snobbò perché era in condizione di poterlo fare. “ Tu non sei capace, sei un buono a nulla il cavallo è il mio, tu non puoi salirci!” Diceva queste parole per farlo irritare e Gepù lo minacciò di tirargli delle sassate se non l'avesse fatto salire con lui. Alla fine, Ferdinando si accostò all'amico e gli porse una mano. Quello svelto balzò in groppa dietro di lui e lo abbracciò alla vita. Presero così a cavalcare assieme, ridendo pazzi di gioia. La giornata era calda, ma ventilata, il cielo era azzurro ed il mondo e la sua guerra erano lontani. Venne la sera e poi la notte, ma all'alba tutto cambiò. Si vide del movimento nel campo dei Polacchi e si avvertì che il battaglione si stava mettendo in movimento. I cavalli vennero raggruppati, le tende smontate ed i carriaggi caricati. Quando i soldati si misero in moto erano ormai le nove del mattino e tutto il paese accorse a veder sfilare quegli uomini venuti da lontano, chissà da dove e chissà perché. In testa alla colonna, un drappello d'avanguardia partì al galoppo e poi venne il resto del gruppo che marciava a piedi su due file. I soldati parevano di buon umore, alcuni cantavano, altri facevano smorfie di scherno a coloro che li vedevano passare, ma non c'era aria di festa attorno a loro, solo sguardi curiosi ed occhiate da lontano. Quando l'ultimo carro passò, restò soltanto una nuvola di polvere e sul luogo dove avevano passato la notte erano visibili i segni della loro presenza. Questi campi vennero subito occupati dai paesani che potevano finalmente rendersi conto da vicino dei danni subiti. I campi di erba medica e di loglio erano stati calpestati e distrutti, ma vi erano anche resti di bivacchi, di escrementi, di pali piantati, di pezzi di stoffa e divise stracciate, pentole arrugginite e sfondate, mucchi di fieno sporchi di terra e perfino l'impugnatura di una sciabola senza lama che un ragazzo arrivato fra i primi sul posto e che tutti chiamavano Zanetu, impugnò e prese ad agitare nell'aria. Quelli che arrivavano dove c'era stato l'accampamento guardavano da ogni parte in cerca di qualche oggetto abbandonato che potesse loro servire, ma non si potevano liberare dell'odore che quegli uomini vi avevano lasciato. Un odore indefinibile di stantio, di cuoio sudato, di panni bagnati, di avanzi di cibo marciti che aleggiava su tutto e provocava disgusto. In quella confusione si fece strada una donna che era uscita dalla cascina vicina e la sua voce risuonò acuta: “Le mie galline! Tutte portate via! Maledetti, tre volte maledetti! Morirete prima o poi!” Era una donna anziana e senza denti, curva e rinsecchita che, con in mano un lungo bastone, cercava invano i colpevoli di quel vero e proprio furto. Subito la rincorse un'altra donna cercando di calmarla e di consolarla: “E guarda là, le mie zucche! Tutte pestate! Cosa vuoi farci? Bisogna chinare la testa e ringraziare Dio che se ne sono andati!”
I Polacchi da Campremoldo Sotto si stavano dirigendo verso Mottaziana e più tardi nella loro avanzata avrebbero occupato Agazzino. Quel lunedì 17 giugno 1799, Zucconi Luigi, il padre di Ferdinando, attaccò la Bigia al carro ed andò al lavoro per effettuare un carico di covoni da portare al fattore di Castelbosco, che era un vecchio fortilizio appartenente al Marchese don Carlo Filippo Scotti Chiapponi, (grande di Spagna di prima classe) e che era diventato una grossa masseria, ricca e produttiva. Era tempo di mietitura e già i campi erano pieni di contadini che tagliavano il grano. Luigi però non volle che quel giorno Ferdinando lo seguisse e questo suo atteggiamento era dettato dalla prudenza. C'erano movimenti di truppe, forse le strade non erano più sicure e si poteva incappare in situazioni pericolose. Tutti a Campremoldo erano consci della situazione anche se i timori non erano specifici né individuabili. La moglie di Luigi, Angela, era presa da un'ansia indicibile e cercò di fermare il marito consigliandolo di restare a casa quel giorno, perché avventurarsi per strada poteva essere pericoloso. Luigi si rivolse a lei dicendole che “la paura fa paura” e che se si seguisse questo pensiero, nessuno al mondo farebbe più niente. E poi aveva promesso di effettuare quel carico e se non avesse mantenuto la promessa, poteva perdere il lavoro di Castelbosco che per lui era importante. “Metti che io resto a casa” disse Luigi alla moglie, “Cosa capiterà se poi non succede niente durante tutto il giorno e a sera mi trovo qui come adesso?” Cosa doveva fare? Passare la giornata in osteria? Se poi il fattore non lo avesse più chiamato e avesse chiamato un altro? E poi lui non faceva danno a nessuno. Che cosa doveva temere? Alla fine Angela, a malincuore, si convinse. “Sarà, disse, ma io non sono tranquilla. Andate pure, ma se vedete che c'è qualcosa che non va bene, tornate subito a casa. Io pregherò per voi e per i nostri figli, perché in certi momenti solo la preghiera mi consola.” A quei tempi, spesso il marito dava del “tu” alla moglie e lei rispondeva col “voi”. Luigi finì di mangiare la polenta con il latte che era la sua colazione, mise la mano sul collo della moglie in una carezza un po' sgraziata dicendole di non fare la stupida e che lui a mezzogiorno sarebbe tornato a casa. Ferdinando era andato lungo la Luretta per vedere se gli riuscisse di acchiappare qualche gamberetto di fiume che d'ogni tanto si intravvedeva nell'acqua limpida. Erano circa le undici e mentre era a testa in giù a
controllare fra l'erba della riva, sentì un rumore lontano. Era un rimbombo forte e pauroso, a lui sconosciuto, come un tuono che si sprigionasse dalla terra e che si ripeteva facendo tremare l'aria. Anche i passeri si impaurirono e volarono via. Lui non poteva sapere che erano colpi di cannone che rombavano al cospetto di un cielo innocente. Quei colpi sordi e ripetuti lo lasciarono interdetto perché non capiva da cosa fossero procurati. Si alzò e rimase immobile ad ascoltare, ma pareva che quel brontolio non volesse finire mai. Quando finalmente tornò il silenzio e si sentiva soltanto il frusciare dell'acqua, Ferdinando capì che c'era qualcosa di minaccioso laggiù e gli corse in testa il pensiero della guerra e del pericolo che poteva correre suo padre che quella mattina era andato proprio in quella direzione. L'esercito della coalizione, sotto il comando del generale russo Suvaroff, era schierato di fronte a quello francese guidato da Macdonald che aveva due divisioni a Mezzanino ed a case di Rocco. La riserva, dietro la prima linea andava da Sant'Antonio al Po. L'ala sinistra, agli ordini di Victor che teneva il comando a Gossolengo, era ammassata a Vallera (Cascina Lodigiani). La battaglia era iniziata con l'avanzata delle truppe Francesi che erano partite da San Nicolò. La loro marcia era stata lenta, perché giunsero al Tidone alle 9. Qui li fronteggiarono gli Austriaci che vennero attaccati con impeto a Ponte Tidone e a Veratto e ricacciati lungo la strada per Castel San Giovanni. Gli si opposero anche i Cacciatori d'Aspre che però vennero respinti ed i Francesi, passate le dieci, avanzarono su tutta la linea. Ferdinando tornò a casa che la campana del mezzogiorno era già suonata e nel retino aveva due granchietti. Tutti dicevano che erano buoni da mangiare, ma a lui piaceva di più osservarli mentre si muovevano con quei loro movimenti sgraziati. Suo padre era già tornato ed era a tavola che mangiava una minestra di cavoli. Subito Ferdinando si sentì in colpa per il ritardo, ma nessuno gli disse niente, tranne le sue sorelle che protestarono perché dovevano essere sgridate solo loro per un eventuale ritardo. Ferdinando disse che loro non sapevano niente e che dovevano tacere. Poi mostrò loro i due granchi nel retino per spaventarle. Si sentì un grido. Giovannina si mise le mani sugli occhi e Caterina disse a sua madre che doveva dare una pacca sulla testa al fratello per quel gesto. Suo padre Luigi continuava a mangiare con indifferenza: probabilmente problemi più importanti si affollavano nella sua mente. Il suo lavoro era andato bene, aveva fatto due viaggi fino a Castelbosco senza aver trovato difficoltà, ma una minaccia a volte pesa più di una condanna. La madre disse a Ferdinando di lavarsi le mani prima di mettersi a tavola e lui ne approfittò per mettere i due granchietti in una bacinella sotto al portico. Poi corse a tavola e disse che aveva sentito dei botti mentre pescava nella Luretta. “Li abbiamo sentiti tutti” disse sua madre. “Sono stati i colpi del cannone, lo ha detto tuo padre.” “Davvero, padre? Colpi del cannone?” Luigi annuì senza alzare gli occhi dal piatto. “Dicono che c'è una battaglia dalle parti di Ponte Tidone.” “Chi è che spara il cannone?” “I soldati. Con un solo colpo possono uccidere anche cento persone” osservò. “I soldati che erano qui stamattina?” chiese Ferdinando. “Può darsi. Sono andati proprio dalla parte da dove si sentivano le cannonate..” “Ma loro di cannoni non ne avevano!” “Allora saranno stati degli altri a sparargli addosso.” “I Francesi?” “No, i Francesi sono quelli che si sono fermati qui da noi che il parroco ha detto che erano Polacchi. Invece i loro nemici sono gli Austriaci. Quelli che comandavano qui da noi prima che arrivassero i Francesi.” “Francesi, Polacchi, Austriaci e chissà chi altri!” disse Angela. “Ma perché non si fanno la guerra a casa loro, invece di farsela qui? Come il loro padre aveva pronunciato la parola polacchi, Caterina e Giovannina si erano messe a ridere ed a ripetere “Pulac, Pulac, Pulac!” perché evidentemente quello era per loro un termine buffo. Subito nel primo pomeriggio, Luigi riattaccò la Bigia al carro per portare il carico di covoni a Castelbosco. Questa volta, però, non potè evitare che Ferdinando andasse con lui. Il ragazzino lo aveva pregato di portarlo con sé, attirato da quella che ai suoi occhi sembrava una avventura.Castelbosco apparteneva al Marchese Scotti Chiapponi ed alle sue dipendenze aveva terre, masserie, stalle ed era attrezzato alla trebbiatura del grano che veniva poi macinato nel mulino. Era un centro fiorente che produceva formaggio grana, farine e vino e che dava lavoro a parecchie famiglie, per cui la vivace attività che vi si trovava, incuriosiva sempre Ferdinando. Nei pressi vi era la tenuta detta “Castellazzo” il cui massaro era Giuseppe Lavelli e la “Bergamina” di cui era fittabile l'alfiere Cagnani. “Perché ti piace tanto andare a Castelbosco?” chiese Luigi al figlio mentre erano in viaggio. “Ti piace tanto stare sotto questo sole del dopo mezzogiorno?” La strada era polverosa, la Bigia sudava e mosche e tafani le ronzavano attorno. “Mi piace vedere le stalle dei cavalli e il mulino” rispose Ferdinando. “Eppure..” insinuò Luigi, “ci deve essere qualcosa d'altro da vedere, per essere così bramoso di venire anche tu..” “Che cosa?” “Non sarà per caso.. che vuoi vedere qualcuno? Qualcuno con le treccine bionde?” Ferdinando diventò rosso e subito negò. “No, no. Io non so neanche chi è!” “Va là, che ti conosco bene. Te ti piace la figlia della Lina, quella ragazzina che l'ultima volta che siamo venuti aveva la vestina azzurra col colletto bianco. Ti ho visto che sei stato a guardarla per tutto il tempo e non sapevi nemmeno più dov'eri. Sembravi che stavi davanti all'altare della Madonna! Come si chiama?” “Non lo so, non lo so..” L'imbarazzo di Ferdinando era forte e quasi si mise a piangere perché farsi scoprire i propri segreti è come mettersi a nudo davanti agli altri. E poi non sopportava che quell'argomento fosse stato affrontato da suo padre. Forse, se avesse dovuto parlarne con gli amici, con Pippo della Maria o con Gepù, non sarebbe stato così imbarazzante, ma non ne avrebbe parlato mai nemmeno con loro. “Allora? Non sai come si chiama?” insisteva Luigi. “perché oggi non glielo chiedi?” A quel punto, Ferdinando sperò di non incontrare quel giorno la bambina di cui parlava suo padre. Quando arrivarono a Castelbosco, si fece loro incontro il massaro del castello, Giovanni Barbieri. Era di cattivo umore e disse malamente a Luigi di scaricare che i garzoni erano già pronti e di andarsene in fretta. Luigi capì subito il motivo di quel comportamento. Al centro del cortile c'era ferma una carrozza ed un gruppo di persone era radunato sotto il porticato. Un gruppo di cavalleggeri francesi dalla divisa blu sostava a lato dell'entrata del castello tenendo i cavalli per le briglie, mentre due dei loro ufficiali stavano parlando con il Marchese Scotti Chiapponi e con due signori vestiti di scuro. Uno di questi era il Console di Gragnano Francesco Spelta e l'altro era il segretario Giovanni Rimondi. Il massaro, dopo aver dato gli ordini a Luigi, era ritornato verso il porticato, tenendosi a debita distanza da quelle persone certamente importanti, cercando peròdi ascoltare i loro discorsi per capire che cosa fossero venuti a fare quei militari al castello. Mentre Luigi stava portando il carro verso i granai, Ferdinando saltò giù e restò nel cortile a guardare i cavalleggeri, i loro stivali e le loro sciabole luccicanti. Da dietro le colonne dal porticato o alle finestre si vedevano molte facce attente a quelle persone che presenza del Marchese rendeva importanti. Erano gli abitanti ed i lavoratori del luogo che incuriositi ed un po' preoccupati cercavano di capire da qualche gesto o dalle loro espressioni il motivo della riunione, perché non lo potevano capire dalle parole, in quanto stavano parlando una lingua a loro sconosciuta. L'ufficiale francese più alto in grado, un uomo dai capelli rasati e dall'espressione quasi annoiata, scandiva frasi secche e precise che contrastavano il balbettio del Marchese, colto alla sprovvista dalla perentorietà del suo interlocutore. L'ufficiale si rivolse al Console che consegnò al Marchese Scotti un foglio che elencava le richieste pretese dall'esercito francese in merito alle forniture che gli erano necessarie, forniture a cui Castelbosco doveva provvedere. Ferdinando sentì l'ufficiale ordinare a voce alta che tutto quello contenuto nell'elenco doveva essere consegnato “a Graniana avant midi de domain! D'acord?” Poi con un gesto di cortesia si tolse il cappello a tre punte, salutò il Marchese e tornò con noncuranza verso il gruppo dei cavalleggeri. Gli ufficiali francesi montarono in sella e si allontanarono assieme al loro seguito, accompagnati dallo sguardo stupefatto di tutti i presenti. Al Marchese non restò altro che balbettare: “Ma.. ma..” e poi lo si vide buttare a terra con un gesto di stizza il foglio che teneva per le mani. Finalmente si alzò in piedi e proruppe in uno sfogo rabbioso. “E' un sopruso, un vero sopruso!” urlò. Poi rivolto al Console che era rimasto mogio e senza possibilità di reagire disse: “E voi, signor Spelta, che siete il rappresentante dell'intera popolazione del nostro Comune, non siete stato nemmeno capace di far valere le nostre ragioni!” “Come avrei potuto, eccellenza? Loro hanno la forza dalla loro. Ed hanno promesso di pagare le somministrazioni! Ecco, vedete? Ho qui la lista delle richieste firmata di suo pugno dall'Ufficiale Comandante che attesta il vostro diritto.” Porse al Marchese il buono per il pagamento di rimborso, ma questi lo buttò per terra e si mise di nuovo ad urlare. “Lo so, lo so come verrò pagato: con dei buoni dell'Esercito Francese che valgono quanto carta straccia! Guardate quell'elenco: sono richieste inaudite, sia per quantità che per qualità. Io verrò depredato, ecco quello che sta succedendo! Oh! Ma mi sentiranno, e come se mi sentiranno! Io sono Grande di Spagna di Prima Classe, sapete?” Il massaro raccolse da terra il foglio delle richieste e lo esaminò mormorando: “Come faremo? Come faremo? E c'è da organizzare anche il trasporto, ci serviranno carri, cavalli e i buoi!” Il Marchese, rosso in viso, gli disse di fare come meglio poteva. Poi di scatto lasciò il cortile ed entrò nel Castello. Il foglio della richiesta di somministrazioni elencava i prodotti che dovevano essere portati al Comando francese di Gragnano per provvedere alle necessità delle truppe: farina di frumento e di mistura, melica, fagioli e ceci, biada, orzo e due carri di fieno. Il totale accreditato era di 500 scudi di Francia, pari a circa 10.000 lire! Giovanni si mise a bestemmiare ed ad inveire perché il frutto di tanto lavoro e di tante fatiche veniva di colpo a mancare. Una donna con il fazzoletto in testa si fece il segno della croce. Il Console Spelta che non aveva detto blà fino a quel momento si avvicinò e disse: “Non serve scomodare Dio o il Demonio, questi sono i danni della guerra.” “Ma voi, replicò Giovanni, potevate evitare di portarli qui, quei prepotenti!” “Dove potevo menarli? Alla Cariana? Alle Case Bruciate? Alla Colombara? dove c'è chi a stento tira avanti con quel poco che ha? Ieri hanno fatto le loro richieste a Campremoldo Soprano e domani magari saranno a Campremoldo Sottano. C'è un grande esercito di gente che tutti i giorni ha bisogno di mangiare e loro se lo fanno servire da chi gli capita sotto tiro!” “Dovevate dirgli di no e basta!” “Cosa potevo fare? Quelli ci mettono poco a dare quattro sciabolate di piatto o di taglio e portarsi via tutto. Via! Speriamo che tutto vada per il meglio e che voi possiate essere ripagati al più presto!” Il Segretario annuì a quelle parole con aria divertita. Per lui l’incarico al seguito del console di tener conto delle somministrazioni all'esercito Francese e di rilasciare i buoni per i pagamenti doveva essere un piacevole passatempo. “Mi raccomando, proseguì il Console, fate in modo che tutto vada per il meglio. Domani mattina sarò a Gragnano ad attendere l'arrivo dei carri e di tutto quanto.” Salì sul calesse, diede un colpo di frusta e si allontanò in fretta. Non appena il cortile rimase vuoto da estranei, tutti i contadini ed i lavoranti che erano restati in disparte ad osservare i visitatori e l'andamento del colloquio con il Marchese, si avvicinarono al massaro per sapere quale era la disgrazia che stava per abbattersi sulle loro teste. Nel frattempo Luigi, che stava arrivando col il carro vuoto del suo carico, chiamò Ferdinando ed assieme si avvicinarono ad ascoltare la descrizione di Giovanni e le esclamazioni di disappunto di quelli che gli stavano intorno. Questi fece un rapido conto e stabilì che in tutto sarebbero occorsi 12 carri che sarebbero stati trainati da buoi e da cavalli. Durante il viaggio di ritorno, Luigi rimase muto e pensieroso suscitando preoccupazione al figlio. Nella sua ingenuità, Ferdinando aveva sperato che anche suo padre dovesse andare a Gragnano assieme alla carovana di Castelbosco, perché in tutto ciò non vedeva che il prolungarsi di un'avventura. Era dalla fiera di San Giuseppe che Ferdinando non andava a Gragnano. Allora c'era stata festa nel paese e lui ricordava la musica di una pianola ambulante, i banchi dove erano esposte stoffe, vestiti colorati e dei begli scarponcini di capretto che avrebbero potuto servire ai suoi piedi sempre nudi e martoriati dai sassi delle strade e dall'erba dei campi. C'era stato perfino uno strabiliante mangiatore di fuoco che si infilava una torcia in bocca e sputava fiamme! Però in quel momento vedeva suo padre di così cattivo umore che non osava chiedergli se non poteva partecipare anche lui a quel viaggio. Quel giorno l'Esercito Francese era avanzato sulla direttrice del Po e, dopo aver superato Veratto, aveva occupato Colombarone e le cascine circostanti. Al comando di Victor, cercava di sfondare le linee nemiche per raggiungere Castel San Giovanni, ma Suvaroff era riuscito in poche ore a portare l'Armata Austro-Russa sul campo di combattimento. Il generale Ott contrattaccava ed il battaglione di granatieri comandato da Wuwermann inviato verso Sarmato, caricava i Francesi rompendone le linee. I Polacchi erano in ritirata, oltre il Tidone. Anche al centro dello schieramento i Francesi retrocedevano e il generale Victor, schiacciato dalla superiorità numerica, aveva chiamato in soccorso 5 compagnie della riserva comandate da Gautrin che, sotto un fuoco terribile, passò il fiume a Ponte Tidone per far far fronte al nemico avanzante e per dar modo alle compagnie isolate di raggrupparsi. Coperte dalla riserva, le truppe Francesi si ritirano oltre la sponda destra del Tidone ed al calar della sera le tre divisioni di Victor, Rusca e Dombrowski presero la seguente posizione: la destra a Santimento, il centro dietro, a Rottofreno e la sinistra tra Gragnano e Casaliggio. La mattina del giorno seguente, il 18 di Giugno, Campremoldo si svegliò al suono della campana della chiesa. I rintocchi battevano lenti, come in occasione dei funerali. Angela saltò dal letto, si vestì alla meglio e corse in strada. Luigi si alzò a sua volta e si affacciò alla finestra. Vide che sua moglie stava parlando con il loro vicino di casa. Ernesto Prati, che abitava a Castel Mantova. Angela aveva una mano sulla bocca e lo sguardo impaurito. “Cos'è successo?” le chiese Luigi. “Ci sono i Tedeschi sulla strada di Centora e qualcuno li ha visti anche su quella del Longore!” gridò Prati. “Chi è che li ha visti?” “E' arrivato di corsa col cavallo il Gino della Casarola che è andato a dirlo al parroco.” “Poveri noi!” disse Angela. “Cosa succederà?” “Ebbene?” disse Luigi. “Non ci sono stati anche i Polacchi che poi se ne sono andati?” Scese in strada e si avviò con il vicino verso l' osteria del paese. Poco dopo si vide Ferdinando seguirli di corsa. L'Oste di Campremoldo si chiamava Giacinto Garioni, ed era chiamato da tutti Gariòn. Il locale era frequentato per lo più dagli uomini del paese, contadini ed artigiani che vi passavano la serata giocando a carte, ma nella congrega della abituale clientela vi erano anche perdigiorno o vecchi bevitori che vi sostavano a tutte le ore. Gariòn si vantava di servire il miglior vino del Fornello, ma tutti pensavano che fosse più o meno annacquato e che le migliori bottiglie le tenesse in cantina per le occasioni speciali. Presenza fissa del locale era la Marietta, la madre di Gariòn che aiutava il figlio nel servizio e che era temuta
per la una sua schiettezza che spesso sfiorava l'insulto, quando doveva trattare con clienti che non stimava. Cacciava gli ubriachi dicendo loro di andare a casa che le loro mogli li aspettavano e che si comportavano da stupidi spendendo soldi che sarebbero serviti meglio, se fossero stati spesi in altri modi. Nel mezzo del locale c'era un lungo tavolo di noce illuminato la sera da lucerne ad olio e candelieri con fumose candele di sego che spandevano insieme alla loro flebile luce un odore acre. Quando Luigi arrivò da Gariòn, trovò già il locale pieno di gente che stava ascoltando il racconto del Gino della Casarola che aveva visto arrivare i Tedeschi dalla strada di Centora marciando in doppia fila. Davanti a loro un drappello di cavalleggeri esplorava la via, percorrendo strade laterali e tornando sui suoi passi per segnalare l'eventuale presenza di truppe nemiche. Un ufficiale a cavallo aveva scrutato con un cannocchiale il terreno, poi, non avendo avvertito pericoli, aveva imposto al battaglione una sosta. All'osteria, tutti facevano a Gino mille domande, chiedevano spiegazioni, quasi aspettandosi di sapere da lui come sarebbero andate a finire le cose. Questi, conscio dell'importanza della sua testimonianza, arricchiva il discorso descrivendo cose mai viste ed inventando particolari mai notati. Tra i presenti c'era anche Moretti, il campanaro, che disse che aveva suonato la campana perché glielo aveva detto Don Baccini, ma che quando era salito sul tetto della chiesa e aveva guardato dappertutto, non aveva visto nessun tedesco. “Chissà dove avete guardato!” lo canzonò qualcuno. “ Ciorbo come siete..” Si sentirono delle risate e Moretti si sentì offeso e borbottò che andassero loro a guardare. “Erano in tanti” ribadì Gino. “Per lo meno.. per lo meno quanti erano quelli che si sono fermati qui domenica. E avevano dietro anche due cannoni e una decina di carri.” Tonio Carini, un coltivatore della zona gli chiese come faceva a sapere che erano Tedeschi. “Perché me l'ha detto uno di quelli che mietevano un campo vicino alla strada. Ha detto che li ha sentiti gridare e che non erano né Francesi né altro.” Luigi disse che il giorno prima era stato a Castelbosco ed i Francesi erano ancora là, quel pomeriggio. Allora si alzò la voce autorevole dell'alfiere Cagnani, fittabile della Bergamina, che era in un certo senso il notabile del paese perché aveva esperienza di eserciti e di guerre avendo partecipato alla Campagna del 1792 contro la prima coalizione. Sapeva leggere e scrivere e conosceva un po' di francese. Disse che se davvero i soldati che aveva visto il Gino avevano le divise bianche ed i pantaloni azzurri, erano certamente Austriaci, non Francesi perché questi portavano la giubba blu ed i pantaloni bianchi. “Io lo so” disse la Marietta. “I Francesi sono quelli di Napoleone!” “E' vero” rispose l'alfiere Cagnani. “Ma state pur sicuri che adesso Napoleone sarà da qualche altra parte, altrimenti gli Austriaci non sarebbero arrivati fin qua da noi!” Infatti, l'anno prima, il 1798, Napoleone era partito per l'Egitto con 300.000 uomini. Ferdinando che aveva seguito il padre, se ne stava nascosto dietro la tenda che copriva la porta d'entrata ed ascoltava tutti questi discorsi con attenzione, chiedendosi se era meglio che vincessero i Francesi o gli Austriaci. Lui però aveva simpatia per i Polacchi che aveva visto da vicino ed era stato impressionato dall'aspetto terribile dei loro fucili e delle loro sciabole. Suo padre non sapeva che lui era lì ad ascoltare, altrimenti lo avrebbe cacciato a casa ma, essendo impegnato nella discussione che avveniva, non si era accorto della sua presenza. Luigi chiese all'alfiere Cagnani se, secondo lui, avrebbe potuto andare come al solito a caricare covoni. Lui voleva fare il suo lavoro in pace, ma adesso era indeciso. Non avrebbe voluto causare danni né a sé, né alla sua famiglia. “A questo punto” rispose l'alfiere, “non so darvi consiglio. Se gli Austriaci stanno cacciando via l'esercito Francese, che è al governo di queste terre, non si sa come andrà a finire.” “Io se fossi in voi non ci andrei” saltò su a dire Gariòn. “Se arrivano i Tedeschi, potrebbero scambiarvi per uno che sta con i Francesi ed ammazzarvi!” “Madonna mia!” Gridò la Marietta. “Non vorranno ammazzarci tutti!” Il silenzio scese nell'osteria. Ferdinando fu sul punto di uscire da dietro la tenda, andare da suo padre, prenderlo per mano e dirgli di tornare a casa, quando si sentì il rumore di un galoppare di cavalli che arrivarono davanti all'osteria e si fermarono. I loro cavalieri erano soldati austriaci che parlavano ad alta voce e si guardavano attorno con aria minacciosa. Dalle finestre dell'osteria, tutti quelli che li videro arrivare restarono in silenzio, senza fiatare. Qualcuno uscì in fretta precipitandosi verso casa senza girarsi. Gariòn uscì dalla porta e si fermò a guardarli. Il loro ufficiale senza scendere di sella gridò. “Franzosisch?” Poi in stentato italiano chiese quale località fosse quella. Gariòn rispose: “Campremoldo” e l'ufficiale si voltò verso il suo seguito annuendo con il capo. Era un uomo alto e ossuto, con una divisa bianca e che portava in testa un cappello con la piuma. Aveva le basette alla favorita e con un gesto involontario accarezzava il collo sudato del suo cavallo. Accanto a lui vi erano cinque altri cavalleggeri dai visi impenetrabili che, all'ordine del loro capo, scesero da cavallo e legarono gli animali alla stanga. L'ufficiale ripetè: “Franzosisch?” Il silenzio di tutti venne interrotto dalla voce dell'alfiere Cagnani che disse in dialetto che il crucco voleva sapere se c'erano dei Francesi in paese. “Nich, nich” rispose. “Niente Francesi.” e fece un gesto per indicare che se ne erano andati da tempo. L'ufficiale scese di sella, entrò nell'osteria e incominciò a dare ordini come se quella fosse casa sua. “Noi manciare, e poi volere bere. Anche cavalli volere bere e manciare.” ed a queste parole i suoi soldati si misero a ridere soddisfatti. Ferdinando venne a trovarsi di fronte ad uno di loro che gli lanciò una rapida occhiata. Lui lo guardò di sotto in su e gli parve di vedere un bel giovanotto di buone intenzioni. Pensò che la sua divisa fosse anche più bella di quella dei Polacchi. Pian piano, alla chetichella, tutti uscirono dall'osteria
lasciando i militari padroni del campo. Questi si sedettero sulle panche attorno al tavolo tenendo con sé le sciabole infilate nella cintura ed incominciarono a parlare tra di loro ad alta voce, contenti di trovare un posto accogliente per i loro appetiti. Quando Luigi uscì, vide Ferdinando che se ne stava impalato dietro la tenda e gli chiese che cosa facesse lì. Lo prese per un braccio e lo strattonò per strada. “Chi ti ha detto di venire? Vai subito a casa!” Ferdinando protestò che voleva vedere i soldati e che non c'era niente di male se si fosse fermato un po' a curiosare. Cosa poteva capitare? Niente! Ma Luigi non volle sentire ragioni e gli diede un calcio nel sedere per farlo allontanare. “Voi non venite a casa?” chiese Ferdinando. “Devo andare a parlare con il prete e poi vengo. Tu vai a casa. E di corsa, hai capito?” Ferdinando si avviò verso casa mentre Luigi, assieme ad Andrea Cornelli, anch’egli carrettiere ed a Maretti il campanaro, andavano verso la chiesa. Là, già attorniato da alcune donne, stava Don Baccini, vestito con una tonaca nera, un po' lustra e consumata. Maretti disse al parroco che all'osteria erano arrivati dei soldati a cavallo e questi sorrise candidamente, come se la cosa fosse già a sua conoscenza. Spiegò a tutti che la guerra stava infestando le loro terre e che per invocare l'aiuto di Dio, quella stessa sera si sarebbe tenuta davanti al Santissimo una funzione con il canto del “Veni Creator” per invocare la protezione dello Spirito Santo. Spiegò che gli eserciti dell'Imperatore Austriaco e di quello Russo si erano alleati per cacciare i Francesi che erano venuti in Italia per imporre la loro rivoluzione. “Voi la vedete in questo modo” disse Luigi. “Ma per me Austriaci o Francesi sono tutti uguali. Non credo che se vincerà l'uno o l'altro, per noi cambierà qualcosa. Loro, tutti, vogliono solo portarci via la terra e la roba e farci morire di fame.” Il Cornelli aveva avuto notizia che i Russi stavano avanzando verso Campremoldo Soprano, e che il loro esercito era superiore di numero a quello nemico. Si diceva che i Russi fossero peggio degli Austriaci e lui aveva paura che gli portassero via le sue bestie. “Cosa possiamo fare?” concluse. Con pacatezza, Don Baccini disse che non vedeva altro rimedio che aspettare che la bufera si fosse allontanata e sperare che non ne venissero danni. “Noi, umili servi del Signore, non possiamo far altro che invocare la protezione di Dio e pregare.” Un silenzio rassegnato scese sul gruppo di persone che attorniava il buon parroco ed in quel silenzio pian piano si incominciò ad udire un rumore di voci, di zoccoli di cavalli e del ritmare degli scarponi di truppe in movimento. Ben presto il rumore si fece più forte e tutti si affacciarono alla strada per vedere che cosa stesse succedendo. Poi comparvero cavalieri e soldati con il fucile in spalla che in lunga fila marciavano verso il centro del paese. Dall'osteria uscì il comandante Austriaco che faceva parte dell'avanguardia e fermò un cavalleggero in divisa bianca che pareva il comandante della colonna. I due rimasero a parlare per un po' tra di loro, l'uno ancora con un boccale in mano e l'altro impettito sul suo cavallo mentre scuoteva continuamente il capo per far intendere che aveva perfettamente capito la situazione. Intanto la testa della truppa si era fermata, forse sperando di poter fare una sosta nella propria marcia, ma ben presto il loro comandante girò il cavallo e ad alta voce diede l'ordine di proseguire sullo stradone in direzione di Gragnano. A malincuore i soldati ripresero la loro marcia guardando con invidia i loro ufficiali che rientravano nell'osteria per continuare la loro bevuta. Erano sudati e la polvere copriva le loro divise bianche, ma i loro volti arrossati dimostravano curiosità perché giravano continuamente lo sguardo sulle persone
e dentro le case cercando di capire dove si trovassero. Marciavano in una lunga fila che pareva non finire mai. Erano così numerosi che quando i primi erano già sullo stradone per Gragnano, gli ultimi non avevano ancora lasciato il paese. Il loro incedere provocava una sensazione di potenza che si trasmetteva alla popolazione che seguiva i loro passi. Dietro di loro veniva un drappello di cavalleggeri al passo, seguiti dai carri della sussistenza che trasportavano attrezzature, vettovaglie e viveri, ma anche militari feriti o ammalati. Per ultimi passarono due cannoni trainati ciascuno da due cavalli, seguiti di corsa dai ragazzi del luogo. Tra di loro vi era anche Ferdinando che, disobbedendo al comando del padre, urlava con gli altri e saltellava allegro come se per lui quello fosse un gioco. Finalmente poteva ammirare da vicino quelle armi terribili che con un solo colpo potevano uccidere cento nemici. Il passaggio di quel battaglione sollevò una gran
nuvola di polvere che inondò tutto il paese. Poi tutto svanì in lontananza.
"Piero Zucconi, 2010."