l’Oratorio dell’Immacolata Concezione
"altrimenti detto di Santo Stefano in contrada San Salvatore"
di Danilo Persicani
di Danilo Persicani
Tratto da:“Il Tesoro di Santo Stefano”–Atto I de “I delitti della via Francigena”.
[..]Con i miei dubbi ed il mio personalissimo scetticismo lasciai il luogo del presunto misfatto. Appena uscito dal portone mi mescolai alla poca folla rimasta per osservare la tipologia degli edifici che erano a fianco e di fronte all’ex Oratorio dell’Immacolata Concezione, altrimenti detto di Santo Stefano. Guardavo i palazzi dal lato opposto del marciapiede, sull’angolo tra la Contrada San Salvatore e l’innesto di Via Santo Stefano; erano tutti allineati con un’unica interruzione dovuta all’innesto del Vicolo della Prevostura affacciato direttamente sul piccolo piazzale della chiesa di Santo Stefano. In quel momento mi sentii fortunato di avere partecipato qualche tempo prima al Convegno organizzato per la presentazione del ritrovato Tesoro di Santo Stefano e, in altre sporadiche occasioni, di avere avuto modo di passare lungo questo tratto della Via Francigena in compagnia di alcuni simpatici amici che si rivelarono, poi, essere stati dei fondamentali ciceroni per consentirmi una più degna integrazione nel tessuto urbano e nella conoscenza di alcuni tratti davvero singolari.
[..]Con i miei dubbi ed il mio personalissimo scetticismo lasciai il luogo del presunto misfatto. Appena uscito dal portone mi mescolai alla poca folla rimasta per osservare la tipologia degli edifici che erano a fianco e di fronte all’ex Oratorio dell’Immacolata Concezione, altrimenti detto di Santo Stefano. Guardavo i palazzi dal lato opposto del marciapiede, sull’angolo tra la Contrada San Salvatore e l’innesto di Via Santo Stefano; erano tutti allineati con un’unica interruzione dovuta all’innesto del Vicolo della Prevostura affacciato direttamente sul piccolo piazzale della chiesa di Santo Stefano. In quel momento mi sentii fortunato di avere partecipato qualche tempo prima al Convegno organizzato per la presentazione del ritrovato Tesoro di Santo Stefano e, in altre sporadiche occasioni, di avere avuto modo di passare lungo questo tratto della Via Francigena in compagnia di alcuni simpatici amici che si rivelarono, poi, essere stati dei fondamentali ciceroni per consentirmi una più degna integrazione nel tessuto urbano e nella conoscenza di alcuni tratti davvero singolari.
caserma preservate in via san salvatore ora scalabrini e cantone san Nazzaro
Infatti, diversamente, non sarebbe stato per niente facile districarsi tra un’incredibile sequenza di Santi Stefano, di palazzi dedicati alla carità monacale, di chiese una dietro l’altra quasi attaccate tra loro, di cui una, quella detta appunto di Santa Maria della Pace, dedicata a precedenti contese tra diversi ordini ecclesiastici e soprattutto tra chiese esistenti (Santo Stefano) e luoghi di culto ormai scomparsi (l’Oratorio). Sfruttando mirabili pubblicazioni a firma di famosi esperti di storia locale come Manfredi, Castignoli ed in particolare Fiori, scritti tutti antecedenti alla tematica inerente al Tesoro ed assolutamente indipendenti da ogni sua possibile valutazione, gli studiosi intervenuti al Convegno evidenziarono come l’analisi del suo destino, a partire dal XVI secolo, risultò enormemente facilitata dalla maggiore disponibilità di alcuni fondamentali documenti storici ed urbanistici da loro prodotti. Così appare certificato che nel tratto di Via Francigena corrispondente alla Contrada San Salvatore e più precisamente a ridosso della chiesa di Santo Stefano, già presente almeno a partire dall’anno 877, si susseguirono molteplici e rilevanti edificazioni e successivi rifacimenti. Nel 1589 sotto la guida della badessa Colombina Sicuri fu terminata la costruzione della chiesa di Santa Maria della Pace, così intitolata per suggellare la ritrovata concordia tra i vari ordini monastici prima in conflitto tra loro. Agli inizi del settecento, le monache del monastero della Pace possedevano anche edifici sul lato opposto della via, subito dopo il Vicolo della Prevostura e prima della proprietà confinante con il futuro Oratorio.
chiesa di santo stefano in via scalabrini
Oltrepassati quei terreni, si erigevano costruzioni divenute interamente di proprietà del Conservatorio delle Preservate, congregazione che fu fondata nel 1666 con l’appoggio ducale per assistere gli orfani inizialmente alloggiati in una prima costruzione edificata per loro nel 1679. Questi risultavano i limiti urbanistici in cui fu costruito il cosiddetto Oratorio dell’Immacolata Concezione o di Santo Stefano che aveva una pianta centrale ed una terminale quadrilatera ad uso esclusivo delle monache delle Preservate. L’Oratorio fu costruito a partire dal 1725 dopo avere concluso doverosi accordi con il confinante, il notaio Alessandro Carini. L’edificio di culto fu consacrato il 22 giugno 1729 con l’intitolazione ufficiale all’Immacolata Concezione e, di fatto, annesso alla prospiciente chiesa di Santo Stefano. A partire dalla metà del settecento tutto il fronte dei vari caseggiati presenti a partire dal Vicolo della Prevostura fino al Conservatorio delle Preservate divenne di proprietà di questa congregazione. Tra la fine del settecento e l’inizio dell’ottocento, il dominio napoleonico, con la sua politica anticlericale, spesso esercitata attraverso l’espropriazione dei beni ecclesiastici, consigliò di spostare nuovamente tutti gli oggetti della raccolta custodita dalle Preservate.Varie iniziative, quasi sempre legate a ristrutturazioni edilizie a fini militari, fatti salvi momentanei e locali ripensamenti, modificarono più volte le strutture murarie e le facciate esterne di quel tratto di Via Francigena, unioni, divisioni, abbattimenti, ricostruzioni che si conclusero solo verso la fine del XIX secolo con la scomparsa definitiva dell’ex Oratorio, completamente inglobato nell’esteso palazzo un tempo delle Preservate. In questo contesto storico, il Tesoro oramai chiamato di Santo Stefano, di nuovo sparito per sottrarlo alle truppe francesi, ricomparve quando i primi costituenti dell’omonima Fondazione non decisero di ripresentarlo nelle vesti attuali. Dopo quelle lontane riflessioni storiche, dalla mia postazione frontale misi a fuoco la “scena del crimine”. Spostandomi all’interno della Via Santo Stefano potei notare chiaramente i segni architettonici di quello che, per poco più di un secolo, fu appunto l’Oratorio. Gli elementi distintivi restavano ancora scolpiti nell’odierno grandioso palazzo ottocentesco, bastava guardare la copertura in coppi dell’intera struttura e si poteva cogliere benissimo la diversa altezza del tetto, circa mezzo metro più basso in corrispondenza dell’Oratorio. Sul frontale del palazzo le differenze erano invece limitate alla sola numerazione dei numeri civici: quella dell’ex Oratorio al n. 22, più avanti, a destra, la sede dell’Agenzia del Territorio con il numero 24.
vecchia mappa con le chiese della zona via scalabrini
A sinistra, rispetto alla mia postazione di osservazione frontale, si trovava la casa dei due anziani coniugi al civico 20. Una tipica casa degli antichi lotti gotici medievali, lunghi e stretti, con un grande portone in legno sovrastato da altri due piani con finestre incorniciate da bordi grigi sullo sfondo bianco. Mi spostai di qualche metro e salito sui gradini del portone di accesso della chiesa di Santo Stefano, che era chiusa, guardai leggermente in obliquo la sequenza partendo dall’angolo con il Vicolo della Prevostura: il convento delle monache, alcune case, l’ex Oratorio, il resto del palazzo, altre case..
Dopo quell’analisi sbrigativamente storico-urbanistica, mi avviai tranquillamente a piedi verso il Tribunale, dove ero atteso; oltrepassai la strada verso la Sede della Prevostura e poi i Chiostri del Duomo. Arrivato nella omonima piazza, l’orologio che troneggia sul palazzo della Curia Vescovile, posto accanto alla cattedrale, si fece sentire per dodici volte; per me fu come un richiamo alla spiritualità del luogo ed all’inevitabile misticismo che il Tesoro aveva costruito attorno a sé, con le sue continue apparizioni e sparizioni e con quell’alone di maledizione che sembrava effettivamente accompagnarlo fin dalla sua origine. Mi fermai un attimo e alzai la testa verso la torre campanaria. Ad oltre metà altezza fui attratto dal gabbio che ancora oggi fa macabra mostra di sé a ricordarci che là dentro, un tempo lontano, venivano messi e lasciati a morire i condannati.
Dopo quell’analisi sbrigativamente storico-urbanistica, mi avviai tranquillamente a piedi verso il Tribunale, dove ero atteso; oltrepassai la strada verso la Sede della Prevostura e poi i Chiostri del Duomo. Arrivato nella omonima piazza, l’orologio che troneggia sul palazzo della Curia Vescovile, posto accanto alla cattedrale, si fece sentire per dodici volte; per me fu come un richiamo alla spiritualità del luogo ed all’inevitabile misticismo che il Tesoro aveva costruito attorno a sé, con le sue continue apparizioni e sparizioni e con quell’alone di maledizione che sembrava effettivamente accompagnarlo fin dalla sua origine. Mi fermai un attimo e alzai la testa verso la torre campanaria. Ad oltre metà altezza fui attratto dal gabbio che ancora oggi fa macabra mostra di sé a ricordarci che là dentro, un tempo lontano, venivano messi e lasciati a morire i condannati.
Nell’ultima ora avevo dubitato delle preoccupazioni dell’ingegner Leofrati, della sparizione delle casse contenenti il Tesoro, della loro stessa esistenza, ma ora non potevo dubitare delle differenze emotive e sociali che nelle varie epoche storiche potevano aver determinato le piccole e grandi leggende sul Tesoro. Che senso di indeterminatezza potevo mai dare, io, umile servitore dello Stato del terzo millennio, a storie raccontate e tramandate da povera gente perennemente sottomessa da credenze popolari e religiose di comodo e duramente sfruttata ed affamata da padroni, ladroni e sanguinari di ogni risma, a cui la cristiana fratellanza aveva loro tolto perfino il senso primo dell’amore, concedendo ai potenti, al di sopra di ogni più puro sentimento umano, addirittura il privilegio dello ius primae noctis? Non mi ero rattristato, mi ero più realisticamente interrogato prima di essere io stesso “interrogato” dal Pubblico Ministero che mi aspettava per essere informato sulla situazione investigativa. Non volevo concedermi ulteriori e postumi privilegi di saggezza sulla possibile interpretazione dell’origine e natura del Tesoro e soprattutto non volevo assurgere al ruolo di censore dogmatico di antiche dicerie, forse in gran parte false, ma alcune vere, forse prevalentemente visionarie, ma sinceramente credibili se giustamente collocate in un contesto di genuina ignoranza e di opportunistico oscurantismo sociale dell’epoca. A confermare il distacco emotivo che avrei dovuto sempre tenere rispetto all’origine del cosiddetto tesoro, o collezione, o raccolta, come ebbe a dire un mio caro amico, il conte Leopoldo Azzeni, fu il continuo passare innanzi ad antichissime chiese che avevano certamente costituito polo di aggregazione, speranza e fiducia per quelle popolazioni medievali. Camminavo lentamente passando innanzi alla chiesa di San Rocco, poi a quella di Sant’Eustacchio, poi a quella di San Lorenzo e loro erano lì a ricordarmi il tempo e le vite ormai trascorse e superate da altre forme di vita come la nostra, per troppi aspetti inconciliabili e quindi assolutamente non interpretabili con un unico linguaggio culturale. Pochissimi minuti e mi ritrovai nella piazzetta del Consiglio con il Tribunale a sinistra e la Procura della Repubblica a destra. Entrai e salii le scale fino al primo pianerottolo, incontrando la solita seriosa ed efficientissima segretaria: “Oh, buon giorno Commissario, il Procuratore Corsano la sta aspettando nel suo ufficio!”.[..]