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Accademie, salotti, circoli e bische a Piacenza

di Cesare Zilocchi

È di gran momento nelle capitali europee la riscoperta dei “circoli letterali”, luoghi dove la gente si intrattiene discorrendo di letteratura e poesia o assistendo alla presentazione di libri e altri eventi culturali, magari un po’ trasgressivi. Naturalmente si beve e si mangia. La moda non è nuova, nacque nel XVI secolo quando d’altra parte infuriava la caccia a streghe ed eretici. Ma il ‘500 non fu solo Controriforma e Inquisizione. Machiavelli scriveva la Mandragola e Ruzante La Betìa, non proprio letteratura per monachelle. Fu anche il secolo del preservativo, costruito (si dice) da un tal Falloppio, dapprima in fibra di lino e poi con budelli animali. Del resto imperversava il mal francese e il medico veronese Girolamo Fracastoro compilava un famoso trattato sulla sifilide. Ma la misura della licenza di quel secolo si ricava dal seguente dato: per ogni cento figli legittimi, ne venivano al mondo millecinquecento illegittimi. Per gli increduli, la stima si trova sul libro di Sabino Samele Acquaviva “L’eclisse del sacro nella società industriale”, edito sulla metà degli anni ’60.

Ortolani e Spiritosi

A Piacenza alcuni nobili si unirono nella salace Accademia degli Ortolani (1543), che a dispetto del nome innocente, inalberava qual logo il fallo priapeo accompagnato all’ambiguo motto “se l’umor non viene meno”. Lo scanzonato circolo durò poco. E tanto scanzonato non doveva poi essere dal momento che fra i sodali figuravano numerosi Anguissola e Landi, ostili ai Farnese. In particolare quell’Agostino Landi, letterato di un certo pregio, ma assai più noto per aver contribuito ad ammazzare il duca Pierluigi (congiura del PLAC, 1547). Meno vivace e mordace il ‘600 si pasceva di forme e maniere. Piacenza ebbe una Accademia degli Spiritosi (1655), un gruppo di nobili uniti nel culto della poesia barocca. La loro insegna adottava una fontana dai mille, leggeri zampilli sovrastati dal motto “l’arte che il brio ci dié quella ci unisce”. Che sembra la moderna reclame di un’acqua minerale. Tenevano i loro conversari e le esercitazioni poetiche in Palazzo Scotti da Fombio.

Arcadi Trebbiensi

Del ‘700 si parla comunemente quale secolo dei lumi e della libertà. Non fu proprio così nella nostra Piacenza, isolata dai fermenti del mondo e intristita da una lunga decadenza. All’inizio del secolo (1715), quando ancora signoreggiava la dinastia farnesiana, ebbe vita la Colonia Trebbiense dell’Arcadia. Una accademia di poeti cesarei raccolti e guidati dal conte Ubertino Landi. Cantavano la vita pastorale ma alle rive degli ombrosi ruscelli preferivano gli stucchi di Palazzo Marazzani (piazza Sant’Antonino) dove erano soliti ritrovarsi. L’influenza culturale, filosofica e scientifica dei tempi nuovi non fu invece estranea ai frequentatori del salotto di Isotta Landi Pindemonte, moglie del marchese Gianbattista Landi di Chiavenna (1773) nonché sorella di Ippolito Pindemonte, famoso traduttore dell’Odissea.


duello tra due nobili piacentini

Società di Conversazione e Lettura

Con l’800 tramontava la moda delle accademie e altre ampollose denominazioni. I circoli si chiamavano “sala”, “gabinetto”, “ridotto”, “casino”, “società di lettura” e/o “di conversazione”. Notevole nell’anno 1820 l’atto di nascita della Sala di Lettura, con prolusione di Pietro Giordani, il quale 28 anni dopo sarebbe morto a Parma da presidente del Casino di Conversazione di quella città. La costituzione della piacentina Sala di Lettura era costata ai fondatori 24 lire nuove, più una quota associativa di 3 lire mensili (che non erano certo bruscolini). Dice Anton Domenico Rossi che i soci “si portavano colà a leggere giornali politici e letterari d’Italia e d’Oltremonte, e le opere più stimate della giornata”. Venne chiusa con provvedimento di polizia una prima volta nel 1831 (moti di Parma). Tuttavia in quello stesso anno poté risorgere la Società di Lettura, dopo un lungo silenzio imposto dalla medesima polizia ducale. Un cambio di etichette più formale che sostanziale. La tendenza di questa Società di Lettura a virare nel politico è indubitabile, tanto che la ritroviamo partecipe nel gennaio 1861 (a unità avvenuta) di una riunione con il Circolo Politico per la scelta del candidato da sostenere alle elezioni del Parlamento.

Circolo dei Nobili

Il mese seguente (febbraio 1861), dalle colonne della Gazzetta Piacentina il conte Ludovico Marazzani proponeva di dar vita a un Casino di Società, effettivamente aperto nel giugno dello stesso anno in alcuni locali del teatro municipale. Stando alle cronache più che la lettura questo casino avrebbe poi coltivato il ballo. Di tanto in tanto ci scappava il duello fra giovani ufficiali, a volte per dispute patriottiche, più di sovente per le contese grazie di belle signore. Gradualmente, dunque, il Casino di Società ridusse al minimo i fini culturali (e i rischi delle inevitabili contaminazioni politiche) privilegiando il puro intrattenimento mondano. Ne sappiamo poco perchè mantenne gelosamente il carattere della riservatezza esclusiva. Presso la gente veniva indicato, ancora in questo secolo (1933), come il Circolo dei Nobili. Ma il requisito della nobiltà già da tempo conosceva deroghe.


testatina della rivista tôllèin cuccalla

Il satirico Tôllèin Cuccalla nel gennaio 1915 aveva dato spazio su due numeri al duello (vero) tra Fioruzzin e Buonacconto per l’onore della pulzella Casino di lettura, rappresentata come una stracciona. L’accesso alle grazie della pulzella -vale a dire l’esser socio del Casino- sarebbe stato al tempo effettivamente riservato ai nobili e uno dei due contendenti avrebbe rinfacciato all’altro la mancanza del requisito; da cui la ragione a spade e padrini, secondo le regole. Successivamente, anche per motivi di bilancio, il Casino di lettura avrebbe fuso le forze con il Circolo dell’Unione, sodalizio con prevalenza dei ceti borghesi, nato nel 1928. Curiosamente né nobili né borghesi sfuggirono alla logica iconografica, cara all’ultimo fascismo, della “Grande Proletaria” tutta lavoro e patria. All’ormai storico Casino di lettura e conversazione fu ordinato di cambiare nome per divenire “Opera Nazionale Dopolavoro - Pietro Giordani”. In pieno conflitto mondiale anche il riferimento a Pietro Giordani cadde, sostituito dalla più marziale qualificazione littoria (ONDL). La sede cambiò due volte. Lasciato il teatro municipale, il Circolo si allogò nel “bottegone” di Piazzetta Grida (lato ovest di Piazza Cavalli) e successivamente in Largo Battisti (lato orientale, angolo via Sant’Antonino). I monelli di quei tempi nel giorno di Santa Lucia o in occasione delle sfilate di carnevale sotto le finestre si radunavano, naso all’insù, per acchiappare al volo le caramelle che arrivavano dall’alto a larghe bracciate. Nel 1930 il circolo contava una ottantina di soci effettivi (più 10-20 soci aggregati). Nonostante la quota sociale fosse di lire 500 (300 per gli aggregati), nel 1931 la società del Casino aveva accumulato con la Banca Raguzzi un debito di 40.000 lire. Cifra che nel bilancio del sodalizio corrispondeva quasi esattamente alla spesa per il personale dipendente. Tuttora esistente, il Circolo dell’Unione ha sede nel Palazzo Ina di Piazza Cavalli e conta circa 300 soci. Ovviamente per essere ammessi non sono richiesti certificati di nobiltà.


grida emessa contro il giuoco

Sale da Gioco

Non si farebbe un servizio alla verità se si tacesse uno scopo mai dichiarato ma assai praticato di questi circoli: il gioco delle carte. Intendiamo il gioco lecito come il whist, caro al conte di Cavour, ma ancor più i giochi illeciti, indicati nei bandi di polizia come “giochi di zara o d’arrischiata fortuna”. Sotto i Farnese alcuni di essi erano ammessi in due soli luoghi: la racchetta e il Teatro della Commedia (il primo sulla Cittadella e il secondo in strada delle Saline). Con don Filippo di Borbone anche questa “interinale permissione” cessò e i giochi di rischio vennero “interdetti e proscritti ad ogni persona d’ogni sesso, stato, grado e condizione, nelle osterie, caffetterie, botteghe, taverne, bettole, ridotti, case particolari [private] e da qualunque adunanza” (bando del 15 aprile 1765). Il duca condusse una roboante campagna contro il gioco d’azzardo in quanto “fonte di scandali, mali esempi, bestemmie, spergiuri, odi, furti, miseria e cent’altri deplorevoli inconvenienti”. Ai trasgressori “nobili o assai civili” prometteva sanzioni da 1.000 scudi d’oro e tre anni di domicilio coatto in castello. Agli altri (non nobili e meno civili): tre anni di lavori forzati alla ruota di Salso! A chi giocava o faceva giocare nella propria abitazione veniva confiscata addirittura la casa. Senza scampo, dal
momento che i mariti erano comunque tenuti responsabili per le mogli e i padri per i figli. Poliziotti e militari disposti a chiudere un occhio perdevano il posto. C’è da chiedersi com’è possibile che tanta severità non sia bastata a svellere la pratica del gioco d’azzardo. Fatto è che nessuno -almeno tra i nobili e assai civili- prendeva sul serio le ducali prescrizioni. Un cronista parmigiano riferisce nei suoi diari che mentre di giorno decretava severissimi ordini, S.A.R don Filippo la sera intratteneva trenta e più dame al tavolo del Faraone. Faraone e Biribis, fra tutti i vietati giochi di zara erano i più gettonati dalle classi privilegiate del ‘700 e della prima metà dell’800. Faraone si giocava con due mazzi di carte fra un numero illimitato di scommettitori e può essere considerato il progenitore dello chemin de fer. Biribis si avvaleva invece di tavole incise o dipinte e si giocava puntando su uno o più di settanta numeri. Un po’ tombola e un po’ roulette. L’influenza anglo-piemontese risorgimentale introdusse nei circoli nobiliari -a far dalla metà del secolo XIX- il già citato whist fra i giochi leciti, il poker fra i proibiti.

il Salotto del Centro anno 1935

La cartolina è “viaggiata” (come dicono i collezionisti) porta timbro e data del 28 gennaio 1935. Raffigura il porticato del palazzo municipale con il bar che da decenni vi trova collocazione, nonostante, periodicamente a qualcuno nascano idee strampalate di uccidere un angolo storico di Piacenza facendone sede di uffici. Allora si chiamava Caffé Grand’Italia (il Barino, nome attuale era su Largo Battisti) ed il titolare era il cavalier Veneziani.

portici caffè grand'Italia 1935

La cartolina è indirizzata alla “Spett. Ditta F.lli Carpano, Corso Vittorio Emanuele n. 62 Torino”. Si tratta della storica fabbrica di vermouth, il vino aromatizzato inventato a Torino nel 1786 da Antonio Benedetto Carpano. Il cav. Veneziani comunica: “Vi abbiamo spedito oggi a mezzo ferrovia il fusto vuoti. Distinti saluti”, firmandosi “Veneziani Grande Italia Piacenza”. La cartolina ed il suo contenuto ci consentono due riflessioni, una guardando il dritto e l’altra il rovescio. Il numero di tavolini e il numero degli avventori (l’ombra ci dice che è stata scattata in tarda mattinata, ed è presumibile si trattasse di un giorno non festivo) ci dicono quanto fosse vivo e vivace il centro della città nell’anteguerra. La seconda come funzionassero le Poste Italiane allora: persino una cartolina illustrata poteva venir utilizzata per comunicazioni commerciali evidentemente ben più rapide di quel che accade oggi. (testo dalla rivista l'Urtiga per gentile concessione di LIR edizioni).