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le Sollevazioni popolari anti Napoleoniche

Ricerca storica alla memoria ed in onore dei 21 insorgenti condannati a morte e fatti fucilare dalle commissioni militari napoleoniche di Parma e Piacenza e delle numerose persone messe ai ferri, degli insorgenti morti in prigione e nei rastrellamenti e combattimenti sugli appennini con le truppe regolari francesi.

Le sollevazioni popolari anti-napoleoniche nell’appennino piacentino e parmense ex area municipium romano di Veleia, una resistenza da rivendicare. Se si considera il periodo temporale che corre dal 1792 al 1814, anno del trattato di Fontainebleau che sancì la sconfitta di Napoleone Bonaparte, le insorgenze in Italia in primis anti francesi e poi anti napoleoniche ebbero una dimensione a livello nazionale con la maggior parte delle attuali regioni italiane coinvolte in moti popolari; alcuni studiosi hanno stimato che furono coinvolte oltre 300.000 persone di cui oltre 100.000 morirono (le guerre d’indipendenza dal 1848 al 1870 causarono solo, si fa per dire 6000 morti) tra scontri, incarcerazioni ed esecuzioni oppure semplicemente per fame. Un capitolo di storia d’Italia spesso dimenticato o comunque sottaciuto se non addirittura censurato e a volte anche mistificato in particolare poi a livello storico locale quasi del tutto negato se non fosse per la buona volontà di qualche studioso che coraggiosamente provò a rendere onore ai montanari insorgenti che cercarono di opporre una strenua resistenza contro il giogo napoleonico sui nostri appennini in quella che molti secoli prima era “l’Agers Veleiate” un’area che comprendeva tutte le valli piacentine e le contigue valli parmensi di Ceno e Taro. Nel 1796 con l’arrivo in Italia delle truppe napoleoniche che presero di fatto possesso dell’ex Ducato di Parma e Piacenza in cui la casata borbonica venne sì mantenuta sul trono ma praticamente solo di facciata, a cui poi successivamente subentrò direttamente il governatore francese Moreau de Saint-Mery; mentre nel resto d’Italia scoppiarono rivolte anti napoleoniche, nel Ducato di Parma e Piacenza in questi anni vi fu una sorta di relativa calma che bruscamente venne interrotta con lo scoppio della grande rivolta popolare appenninica del 1805-1806. Oltre a fatti contingenti locali vi furono anche fatti politico militari europei che accesero la miccia della rivolta dei montanari, questi fatti internazionali uniti a concause di ordine politico, religioso ed economico locali avranno un forte impatto drammatico con le prime insorgenze che ebbero inizio a Castel San Giovanni e si estesero poi in tutto l’attuale appennino piacentino ed in altre zone contigue del ducato di Parma e Piacenza; una rivolta che sarà condotta principalmente dai ceti poveri composti da masse di contadine, mulattieri, artigiani, osti, gente per lo più analfabeta che pagarono in prima persona sia a livello economico che sociale le spese dell’occupazione francese. Occupazione che favorì invece la nobiltà e la borghesia locale che ne trassero notevoli benefici sociali ed economici, nel silenzio delle alte gerarchie ecclesiastiche supine al nuovo corso dell’entourage francese; successe forse nella prima volta della storia che questa controrivoluzione contadina e rurale fu vista come clericale ed anti progressista, quando invece fino ad ora le rivolte contadine erano sempre state viste e considerate benevolmente in quanto lottavano contro il giogo feudale, basti rammentare la rivolta delle campagne piacentine del 1462 contro il potere sforzesco che venne soffocata nel sangue da truppe mercenarie.

In generale le diverse sollevazioni popolari sul suolo italico contro il potere napoleonico seppur prive di un coordinamento tra di loro erano comunque accomunate da diversi fattori quali l’appartenenza per la maggiore ad insorgenti che vivevano in aree rurali e zone pervase da uno spiccato senso di appartenenza radicato nelle loro comunità, uniti dalla difesa di secolari tradizioni, dall’avversione ed il malcontento nei confronti delle amministrazioni francesi, dalla riduzione delle autonomie locali, dal passaggio ed alloggiamento di truppe militari con conseguenti requisizioni di beni ed animali, dalla gravosità delle imposte, dalla chiusura di conventi e monasteri e dalla conseguente limitazione delle proprietà ecclesiastiche, dal reclutamento alla leva obbligatorio dei giovani, dall’incertezza del passaggio da un sistema politico all’altro, dal susseguirsi di numerose leggi che incisero pesantemente nei i rapporti tra le persone e le attività quotidiane, il tutto inserito in un tessuto sociale ed economico intriso di assoluta povertà endemica dei ceti meno abbienti; ed in ultima analisi il rifiuto dello spirito giacobino ed illuministico anticristiano portato dalla rivoluzione francese. In particolare poi nell’ex Area Veleiate furono particolarmente odiati le coscrizioni militari dovute ad un decreto imperiale del giugno del 1805 che obbligavano i giovani a passare sotto le armi e stare lontano da casa per 5 anni, (creando anche una mancanza di forza lavoro nelle campagne), combattendo per un vessillo di una potenza straniera a cui sentivano di non appartenere ed il sequestro di muli e cavalli, (le nostre valli da sempre furono zone oggetto di transito di merci ed animali verso la Liguria e l’alta Toscana), derrate alimentari foraggi, nonché la requisizione dei beni custoditi al monte di Pietà di Piacenza, tutto ciò unito a molte delle cause sopra elencate generarono la ribellione sulle montagne piacentine e parmensi tra la fine del 1805 e l’inizio del 1806.


il dolore per tutte queste vittime è ben rappresentato dal grande
pittore spagnolo Goya che nel 1814 mise su tela la fucilazione degli
insorgenti spagnoli fucilati il 3 maggio del 1808

Nel dicembre del 1805 l'insurrezione anti napoleonica aveva già assunto notevole risalto tanto da arrivare all’attenzione dello stesso Napoleone che definì la ribellione dei montanari piacentini “Une aussi grande et seriose rebellion”. Infatti la rivolta era sì nata quasi spontaneamente ed in modo caotico, condotta da gente povera e male armata, ma nelle sue caratteristiche generali non differiva da altre ribellioni rurali passate in quanto erano organizzate all’interno della struttura del villaggio che nel suo interno era coeso e consolidato da legami sia sociali che religiosi; specie sui nostri appennini, alcune bande si erano già distinti per sopravvivere sulle nostre montagne in operazione di contrabbando e resistenza a volte sfociata nel brigantaggio che presupponevano anche la capacità di utilizzare armi e tecniche di guerriglia, spinti dalla forza della disperazione unita ad una perfetta conoscenza del territorio, aiutati anche dalla popolazione locale diedero per qualche tempo del filo da torcere alle truppe regolari e ben armate napoleoniche, fu anche l’occasione, per qualcuno degli insorgenti, di redimersi agli occhi dei loro paesani lottando per una giusta causa di libertà e giustizia e rispetto dei valori tradizionali.

A gennaio 1806 per contrastare questa ribellione Napoleone mandò uno dei suoi collaboratori più fidati, il generale Jean Andoche Junot, con poteri eccezionali per stroncare la rivolta e nella gestione del ducato di Parma e Piacenza in sostituzione del Moreau De Saint- Méry che fu ritenuto troppo debole nel contrastare le insorgenze. Interessante la corrispondenza intercorsa tra lo stesso Junot e Napoleone, il quale pur non scusando le insorgenze contadine scrisse che alla base dei moti popolari vi fosse la pessima amministrazione francese dei territori del ducato; ovviamente Napoleone fu sordo agli appelli ed alla moderazione dello Junot nella gestione dei tumulti che imperversavano sugli appennini da Bardi, alla Val Tolla, a Bettola, Bobbio, Mezzano Scotti, alla Rocca d’Olgisio tanto per citare alcune località, ed anzi ordinò allo Junot di reprimere nel sangue la rivolta scrivendogli in una delle missive: “Nulla è più salutare di un esempio terribile dato per tempo”. Di lì a poco infatti iniziò una feroce repressione delle soldataglie francesi contro i montanari tra Parma e Piacenza con arresti ed uccisioni ed esecuzioni sommarie. Il primo villaggio che fu incendiato fu quello di Mezzano Scotti in Val Trebbia, (a cui ne seguirono altri di villaggi bruciati), il 15 febbraio del 1806; seguirono altre rappresaglie tra cui la fucilazione di due parroci di campagna e di numerosi capi della rivolta. Il potere napoleonico fece istituire due commissioni militari a Parma e Piacenza, le quali emanarono 21 condanne a morte ed una ventina di condannati ai ferri, altri ancora con pene minori, molti morirono in attesa di giudizio in prigione e numerosi altri insorgenti morirono nei rastrellamenti e combattimenti contro le truppe francesi. La rivolta tra i mesi di dicembre 1805 e marzo 1806 fu soffocata nel sangue e nell’indifferenza dell’alto clero e della borghesia che anzi insieme alla nobiltà ducale dell’epoca furono conviventi con le forze di occupazione francese; finì così il primo vero movimento contadino e popolare di resistenza che forse rappresentò veramente il primo vagito della futura Italia risorgimentale. Un movimento in generale che coinvolse da sud a nord l’Italia e che in molte situazioni si ribellò alla tirannia rivoluzionaria francese e fu movimento patriottico a difesa anche di valori storici e religiosi. Per il governo napoleonico i montanari insorgenti dell’appennino piacentino e parmense furono dei briganti fuorilegge, come oltre un secolo dopo i partigiani lo furono per i nazisti che li chiamavano “banditen”! Nessun monumento o cippo ricorda questi coraggiosi contadini rivoluzionari, nessuna dedicazioni di piazze o vie. Altrove invece le insorgenza antifrancesi diventarono un epopea nazionale: in Spagna ad esempio le gesta di coloro che si opposero ai francesi invasori furono immortalate sulla tela “El Tres de Mayo” del grande pittore spagnolo Goya a ricordare la fucilazione avvenuta il 3 maggio 1808 degli insorgenti spagnoli madrileni e realizzato nel 1814. Oppure l’oste commerciante di cavalli e guerrigliero tirolese Andreas Hofer, comandante contro l’invasione del Tirolo da parte delle truppe franco bavaresi; egli fu considerato un eroe nazionale. Sulle insorgenze antinapoleoniche italiane e dell'ex Ducato di Parma e Piacenza scese il silenzio, il silenzio dei vinti, la storia silente degli anni successivi che tanto esaltò l’epoca risorgimentale fece quasi perdere la memoria di uomini e donne, di povera gente montanara che già da millenni erano costretti a lottare contro la povertà per la quotidiana sopravvivenza, a fare i conti anche con le baionette dell’invasore francese. Una ribellione delle montagne di Parma e Piacenza che si estese anche in altre aree dell’Emilia, in particolare nel bolognese quando una seconda insorgenza scoppiò nel biennio 1809-1810.

a Perenne Memoria dei Resistenti

Delle insorgenze ducali appennino piacentino e parmense dicembre 1805 - marzo 1806.
Bavagnoli Antonio, nato a Scavello, 38 anni di Montù Beccaria (PV) accusato di essere stato capo dell’insurrezione nel piacentino. Fucilato il 19 aprile 1806.
Bongiorno Domenico, da Donelasco (PV) 56 anni. Condannato per essere stato un istigatore alla rivolta. Fucilato il 19 aprile 1806.
Bresciani Giovanni, da Guardamiglio, 22 anni, accusato di avere comandato i ribelli che hanno infestato e saccheggiato diverse contrade dello stato piacentino. Fucilato il giorno 11 febbraio 1806 nelle fosse del castello di Parma.
Bussandri Giovanni, detto Mossetta di Scipione di Salsomaggiore, generale degli insorti della Val d’Arda, Tolla e Stirone, 30 anni. Accusato di essere stato il primo e principale capo dell'insurrezione sulle montagne del piacentino. Fucilato il 2 maggio 1806.
Cardinali Giovanni, 22 anni, nativo di Tarsogno (PR) parroco di Pradovera Farini. Accusato di avere marciato con i ribelli nell’insurrezione nelle montagne degli stati di Parma e Piacenza, fucilato il 1 aprile 1806 (di venerdì santo).
Cavazzuti Andrea, anni 34 di Pedina Morfasso, detto il Duca della val Tolla, accusato di essere ladro di strada a mano armata, specialmente sulla strada da Lugagnano a Bardi, fucilato il 28 aprile 1806.
Cordani Giovanni, anni 36 da Groppallo Farini, accusato di essere un capo rivolta, fucilato il 28 aprile 1806.
Covatti Giovanni, 33 anni mulattiere da Macerato Coli, Capitano degli insorti. Accusato di avere marciato alla testa dei ribelli e sottoscritto l’ingiunzione al sindaco di Bobbio a nome degli insorgenti di Mezzano Scotti e Scambiazza. Sottoscrisse il proclama di Bobbio su coccarda verde (il colore degli insorgenti), fucilato il 1 aprile 1806.
Curletti Luigi, anni 28, calzolaio di Piacenza. Accusato di essere capo ed istigatore dei ribelli, fucilato il 31 marzo 1806.
De Torri Agostino, anni 33 nato a Ziano nel 1773, detto “al fiol dla Duchessa” accusato di essere stato a capo dei rivoltosi e sorpreso con le armi in mano, fucilato il 18 febbraio 1806.
Ferrari Luigi, anni 26 da Montecalvo Pavia, accusato di essere capo ed istigatore dell’insurrezione nel piacentino, fucilato il 19 aprile 1806.
Gandolfi Giovanni, anni 37 da Vigoleno, accusato di avere comandato i ribelli che hanno infestato e saccheggiato diverse contrade dello stato piacentino, fucilato il giorno 11 febbraio 1806.
Lamberti Gaspare, da Rocca di Varzi, Capitano. Accusato di essere stato capo degli insorti all’assedio di Bardi. Arrestato ed imprigionato morì prigioniero nella fortezza di Fenestrelle (TO).
Mazzocchi Baldassarre, anni 35, accusato di essere capo ed istigatore dell’insurrezione nel piacentino, fucilato il 19 aprile 1806.
Prati Giacomo, anni 32 da Dughera (VC). Accusato di avere comandato i ribelli che hanno infestato e saccheggiato diverse contrade dello stato piacentino, fucilato il 19 aprile 1806.
Prati Giovanni, anni 40 di Castelnovo Val Tidone (PC) domiciliato a Pianello Val Tidone. Accusato di avere comandato i ribelli che hanno infestato e saccheggiato diverse contrade dello stato piacentino, fucilato il 19 aprile 1806.
Sbarbari Matteo, anni 40 da Carniglia (Bedonia) sacerdote della parrocchia di Macerato (Coli). Accusato di avere marciato con i ribelli nell’insurrezione nelle montagne degli stati di Parma e Piacenza, fucilato il 31 marzo 1806.
Scaccabarozzi Giuseppe, anni 18 da Montalbo (PC) contadino. Accusato di aver fatto parte dei rivoltosi nelle insurrezioni dello stato piacentino, di avere commesso dei furti nelle case dove si erano portati i ribelli in particolare a Montalbo, fucilato il 13 marzo 1806.
Valle Giovanni, anni 38 da Rovescala (PV). Accusato di essere capo ed istigatore dei ribelli del piacentino, fucilato il 19 aprile 1806.
Villa Marco, anni 40 da Sperongia (Morfasso). Accusato di essere ladro di strada a mano armata, specialmente sulla strada da Lugagnano a Bardi, fucilato il 28 aprile 1806.
Vitale Antonio, anni 31 da Montalbo (PC) abitante a Pizzofreddo (PV). Accusato di essere capo ed istigatore dell’insurrezione nel piacentino, fucilato il 19 aprile 1806.
Zambianchi Domenico, anni 46 da Cornetto. Accusato di essere capo ed istigatore dell’insurrezione nel piacentino, fucilato il 19 aprile 1806. (Boiardi Roberto - studioso di storia locale).