mia Madre Capobranco
la gäva un tiragg’ speciäl Mé mädar co i’ animäl
Mia madre aveva un feeling speciale con gli animali. Al Roma in quegli anni avemmo di volta in volta, anche su mia insistenza, un piccolo giardino zoologico: vari gatti, tre cani, due tartarughe, dei pesci rossi, una pecorina, e persino un airone. I pesci rossi erano quelli che vincevo al Luna Park centrando con le palline i vasetti in cui stavano; di solito duravano poco poiché l’acqua era troppo ricca di cloro e letale per loro. Quando arrivava in città il Luna Park era un divertimento che non volevo perdermi. Ho conservato una vecchia foto un pò malconcia in cui mi si vede centrare il flash del tiro a segno. Mi è accanto Attilio Motti, che allora muoveva i primi passi nel campo dell’avvocatura, e che fu in realtà chi seppe cogliere il bersaglio ritraendosi in tempo per far apparire me il provetto tiratore. Attilio era un giovane simpatico che frequentava spesso il Roma, a volte andavo con lui in giro per la città quando magari doveva fare qualche commissione poco impegnativa, mi faceva un pò da fratello maggiore. È morto da qualche anno e mi dispiace che non possa leggere queste righe.

al tiro a segno con accanto Attilio Motti giovane avvocato
L’airone era stato ferito a un’ala da alcuni cacciatori che poi lo portarono al Roma con altra selvaggina. Tentammo in ogni modo di curarlo ma non riuscimmo a farlo mangiare nonostante comprassi dei pesciolini alla Genepesca del signor Arturo Riccò. Sopravvisse qualche settimana, aggirandosi come un’anima in pena per i corridoi del Roma ma la sua sorte era segnata e un brutto giorno lo trovammo morto stecchito. La pecorina era viva e sana e mi fece compagnia per qualche tempo ma era stata comprata per usi mangerecci e fu immolata a Pasqua senza che ne venissi a conoscenza, mi dissero che forse si era perduta per le strade della città ma più tardi scoprii la pelliccia che i miei avevano voluto ricavarne e piansi amaramente la sua sorte.
Per gatti e cani mia madre rappresentò sempre la capobranco. Di solito questo avviene per i cani, dato che i gatti sono notoriamente indipendenti eppure ricordo che prima del ‘50 c’era in albergo un gattone nero che i miei avevano già dai tempi della guerra. Ebbene questo gatto stava sempre a fianco di mamma e la seguiva nei suoi spostamenti con stupore di clienti e personale. Avemmo in seguito due siamesi, uno dei quali regalatoci da Renato Ferrari, che lei portava a spasso al guinzaglio come fossero cagnolini. Io non ero molto amante dei gatti, un poco li temevo, a volte li stuzzicavo e finivo per rimediare qualche graffio.
Desideravo da tempo un cane ma i miei non erano propensi a prendermelo per ragioni evidenti: si sa che i cani sono più impegnativi dei gatti, lasciano escrementi dappertutto e questo non era ammissibile in un albergo anche in quei tempi avventurosi del dopoguerra in cui l’igiene lasciava molto a desiderare e i controlli sanitari erano quasi inesistenti. Quando qualcosa mi stava a cuore io però sapevo essere insistente come pochi e alla fine la spuntai. Ebbi in dono un piccolo fox terrier che chiamammo Bill. Era un cagnolino davvero delizioso, vivace e intelligente come pochi. Purtroppo non ebbi quasi il tempo di affezionarmi alla bestiola. Capitò pochi giorni dopo in albergo un gruppo di ballerine del varietà che facevano compagnia con i fratelli Maggio, attori comici napoletani allora molto noti che si esibivano al Politeama. Una di quelle bellissime ragazze, alte e formose, che io già guardavo con precoce curiosità, vide il cagnetto, se ne innamorò e ci chiese il permesso di portarselo in camera. La cosa si ripeté per tutta la durata della tournée piacentina con mio dispetto. D’altra parte in albergo vigeva la consegna che il cliente ha sempre ragione e perciò non mi opposi. Ma la mattina in cui la compagnia abbandonò l’albergo sparì anche il mio Bill, sicuramente sottratto dalla disinvolta giovane. Per compensare la sua dolorosa perdita poco dopo mi portarono un meticcio femmina che in albergo battezzammo Diana. Gion e Nando lo definirono subito un cane da pagliaio per i folti ed ispidi peli che gli occultavano gli occhi e parte del muso. Ho una foto in cui compare in braccio a me mentre pranziamo con tutto il personale. Purtroppo anche Diana restò poco con me, aveva un brutto vizio, abbaiava continuamente. Un giorno sparì con mia grande costernazione e non se ne seppe più nulla. Ho sempre pensato che alla sua sparizione non siano stati estranei i miei.
Alla fine mi regalarono una cagnetta che doveva restare lunghi anni con noi, che visse tanto da seguirci nel nuovo Grande Albergo Roma e alla cui morte, nell’estate del ‘62, quando lasciato il Roma abitavamo nella casa di corso Vittorio Emanuele, piansi come se avessi perso una parente. Diana (anche a lei demmo il nome della precedente cagnolina) era un pechinese meticcio che mi fu portato da un fratello di Gion. Il padre era di nobile stirpe, un magnifico esemplare di pechinese dal mantello blu che mi dissero regalato al Civardi da una dama di corte o addirittura dalla figlia del Negus, quando questi era in Etiopia. Non so quanto fondamento avesse questa storia, fortunatamente accadde che il bell’esemplare si accoppiasse con una cagnetta d’altra razza e nacque la mia inimitabile Dianina.
Per gatti e cani mia madre rappresentò sempre la capobranco. Di solito questo avviene per i cani, dato che i gatti sono notoriamente indipendenti eppure ricordo che prima del ‘50 c’era in albergo un gattone nero che i miei avevano già dai tempi della guerra. Ebbene questo gatto stava sempre a fianco di mamma e la seguiva nei suoi spostamenti con stupore di clienti e personale. Avemmo in seguito due siamesi, uno dei quali regalatoci da Renato Ferrari, che lei portava a spasso al guinzaglio come fossero cagnolini. Io non ero molto amante dei gatti, un poco li temevo, a volte li stuzzicavo e finivo per rimediare qualche graffio.
Desideravo da tempo un cane ma i miei non erano propensi a prendermelo per ragioni evidenti: si sa che i cani sono più impegnativi dei gatti, lasciano escrementi dappertutto e questo non era ammissibile in un albergo anche in quei tempi avventurosi del dopoguerra in cui l’igiene lasciava molto a desiderare e i controlli sanitari erano quasi inesistenti. Quando qualcosa mi stava a cuore io però sapevo essere insistente come pochi e alla fine la spuntai. Ebbi in dono un piccolo fox terrier che chiamammo Bill. Era un cagnolino davvero delizioso, vivace e intelligente come pochi. Purtroppo non ebbi quasi il tempo di affezionarmi alla bestiola. Capitò pochi giorni dopo in albergo un gruppo di ballerine del varietà che facevano compagnia con i fratelli Maggio, attori comici napoletani allora molto noti che si esibivano al Politeama. Una di quelle bellissime ragazze, alte e formose, che io già guardavo con precoce curiosità, vide il cagnetto, se ne innamorò e ci chiese il permesso di portarselo in camera. La cosa si ripeté per tutta la durata della tournée piacentina con mio dispetto. D’altra parte in albergo vigeva la consegna che il cliente ha sempre ragione e perciò non mi opposi. Ma la mattina in cui la compagnia abbandonò l’albergo sparì anche il mio Bill, sicuramente sottratto dalla disinvolta giovane. Per compensare la sua dolorosa perdita poco dopo mi portarono un meticcio femmina che in albergo battezzammo Diana. Gion e Nando lo definirono subito un cane da pagliaio per i folti ed ispidi peli che gli occultavano gli occhi e parte del muso. Ho una foto in cui compare in braccio a me mentre pranziamo con tutto il personale. Purtroppo anche Diana restò poco con me, aveva un brutto vizio, abbaiava continuamente. Un giorno sparì con mia grande costernazione e non se ne seppe più nulla. Ho sempre pensato che alla sua sparizione non siano stati estranei i miei.
Alla fine mi regalarono una cagnetta che doveva restare lunghi anni con noi, che visse tanto da seguirci nel nuovo Grande Albergo Roma e alla cui morte, nell’estate del ‘62, quando lasciato il Roma abitavamo nella casa di corso Vittorio Emanuele, piansi come se avessi perso una parente. Diana (anche a lei demmo il nome della precedente cagnolina) era un pechinese meticcio che mi fu portato da un fratello di Gion. Il padre era di nobile stirpe, un magnifico esemplare di pechinese dal mantello blu che mi dissero regalato al Civardi da una dama di corte o addirittura dalla figlia del Negus, quando questi era in Etiopia. Non so quanto fondamento avesse questa storia, fortunatamente accadde che il bell’esemplare si accoppiasse con una cagnetta d’altra razza e nacque la mia inimitabile Dianina.

Dianina con i suoi cuccioli
Lei aveva una caratteristica che la fece durare in albergo: non abbaiava molto, è vero, ma se qualcuno allungava la mano per accarezzarla mostrava i denti e teneva a distanza la gente. Con mia madre fu amore a prima vista, la seguiva ovunque come era avvenuto con il gattone nero. Un giorno accadde che restasse ingravidata da un botolo sconosciuto, partorì la sua cucciolata in cantina e subito dopo si mise affannosamente a cercare mia madre per tutto l’hôtel costringendola poi a scendere in cantina per mostrarle i suoi piccoli. Dianina era un pò scorbutica con gli estranei specie con quelli che portavano una divisa forse perché, diceva mia madre, le suggerivano un tizio in tuta a cui dovemmo affidare il triste compito di sottrarle una cucciolata che scodellò proprio nell’abitazione di via Verdi nell’inverno del ’56. Fatto sta che ogni qualvolta, nel Grande Albergo Roma, avevamo un nuovo cameriere che ci serviva a tavola lei gli mordeva le punte delle scarpe ma lo faceva in silenzio senza farsi notare perché temeva i rimproveri di mia madre. Con me era un’ottima compagna, io la tormentavo a volte un pò crudelmente usandola come fosse un bambolotto di stoffa e lei non si ribellava; altre volte, specie quando poltrivo a letto nei giorni festivi, lei saltava su e facevamo la lotta, Dianina si avventava sul mio braccio e fingeva di mordermi ma non lo fece mai. Aveva un’altra buona caratteristica, andava d’accordo con i gatti di casa. Al vecchio Roma, dopo le sfortunate esperienze con i siamesi che dovemmo restituire perché erano selvatici e graffiavano indiscriminatamente tutti, ci regalarono una gatta bianca dolcissima che aveva anch’essa il brutto vizio di figliare un pò troppo spesso.
Ho numerose foto che mostrano Dianina in aspra lotta con la gatta e più tardi con uno dei suoi figli, un gatto rossiccio a cui demmo il nome di Tigrato. Sembrano azzuffarsi seriamente ma in realtà era un gioco incruento che si ripeteva quasi ogni giorno. Tutti si stupivano che le due bestiole fossero così affiatate tra loro ma entrambe attendevano in qualche modo un cenno da mia madre che sapeva gestirle come meglio non si sarebbe potuto. Al solit profesur..
Ho numerose foto che mostrano Dianina in aspra lotta con la gatta e più tardi con uno dei suoi figli, un gatto rossiccio a cui demmo il nome di Tigrato. Sembrano azzuffarsi seriamente ma in realtà era un gioco incruento che si ripeteva quasi ogni giorno. Tutti si stupivano che le due bestiole fossero così affiatate tra loro ma entrambe attendevano in qualche modo un cenno da mia madre che sapeva gestirle come meglio non si sarebbe potuto. Al solit profesur..