25 Aprile – Sessant’anni Dopo
piacenza, veduta del 1945 - fonte combat film
Premessa
Lo scopo di questo libretto non è quello di scrivere la storia, sia pur breve, di quegli anni che noi anziani, pochi sopravissuti ormai, ricordiamo ancora lucidamente perché hanno rappresentato un periodo cruciale, difficile, pericoloso, ma anche esaltante della nostra vita, della nostra gioventù. Vorremmo solo fissare qualcuno dei nostri ricordi e condividerli con i giovani d’oggi, spesso così ignari di quelle che sono le radici della nostra società democratica, delle libertà di cui oggi godiamo. In particolare, vorremmo ricordare ciò che è successo fra il 1943 ed il 1945 in questa parte della nostra Val Trebbia, fra Travo, Rivergaro e Gossolengo, dove noi eravamo in quegli anni. Eravamo ragazzi, fra i quindici ed i sedici anni, maturati anche troppo presto a causa delle vicissitudini, delle difficoltà, dei pericoli che dovevamo affrontare. C'era chi frequentava l’ultimo anno delle scuole medie e chi frequentava già le superiori, chi lavorava già e molti dovevano recarsi ogni giorno a Piacenza. La vecchia corriera delle Autoguidovie cessò di funzionare ben presto, un’altra corriera ancora più scassata ne prese il posto per portarci a Grazzano dove funzionava ancora il tram elettrico. Poi anche quest’ultimo fu soppresso e fu giocoforza andare in bicicletta, sulla strada solo parzialmente asfaltata ed anche la bicicletta spesso ci tradiva perché le gomme erano consunte e bucavamo un giorno si ed un altro no. Mangiavamo poco e male e le nostre madri facevano ogni giorno salti mortali per procurarsi pranzo e cena, a base di verze, pane nero, marmellata di barbabietole. Solo i figli degli agricoltori o chi poteva permettersi l’accesso al mercato nero mangiava decentemente. Fino ad un certo punto arrivarono le scarse dotazioni della tessera annonaria, poi anche queste smisero di arrivare nei nostri paesi. Ecco perché quel periodo della nostra vita ci è rimasto così profondamente nella memoria, dopo sessant’anni. E poi, eravamo giovani, avevamo voglia di vivere, di divertirci con il poco che avevamo allora ed anche le avventure pericolose riuscivamo a viverle serenamente, quasi come un divertimento, un’avventura. Non c’era la TV, pochissimi avevano la radio, era proibito ballare, anche i libri erano rari e costosi. Se ci incontravamo al bar, scaldavamo le sedie e le panche senza mai consumare. Non avevamo mai una lira in tasca, almeno la gran maggioranza di noi e l’alternativa al bar erano le Rive di Sant’Agata a Rivergaro o i sentieri lungo il Trebbia a Travo, dove allora non c’erano case e. molto raramente, l’unico cinema dei dintorni, quello gestito dai frati di San Vincenzo a Rivalta.
Fascismo: che Cosa e Perchè
E’ difficile riassumere in poche pagine i fatti del ventennio fra i primi anni ’20 ed il 1945, fra la nascita del Fascismo e la Liberazione. Cercheremo di farlo attenendoci agli avvenimenti essenziali. Il movimento fascista nacque nel 1919 per iniziativa di un ex esponente socialista massimalista, Benito Mussolini, sull’onda del combattentismo conseguente alla fine della Prima Guerra Mondiale, delle frustrazioni di molti reduci che mal si adattavano alle nuove difficoltà della vita civile e soprattutto come reazione alle agitazioni sociali diffuse in tutta l'Italia, provocate dalla grande disoccupazione, dalla miseria, dalla mancanza d’assistenza sociale, dalle ingiustizie fra chi aveva fatto anni di trincea e chi si era arricchito con la guerra. Nei tre anni successivi le squadre armate fasciste, finanziate dagli ambienti interessati a contrastare gli scioperi e la costante avanzata elettorale dei partiti di sinistra, alcuni dei quali si richiamavano alla Rivoluzione sovietica, riuscirono con continue e capillari azioni violente, non contrastate ed anzi palesemente tollerate dalle autorità civili e militari, ad aver ragione ad una ad una di tutte le istituzioni locali democratiche, Comuni e Province, delle Camere del lavoro, delle cooperative, dei giornali d’opposizione, occupandole con la forza, devastandole, bastonandone gli esponenti ed uccidendone un buon numero, contrastate solo debolmente dalle organizzazioni avversarie per lo più disarmate. Il movimento sfociò poi, nell’ottobre 1922, nella Marcia su Roma che Mussolini, peraltro, fece in vagone letto da Milano a Roma, colà chiamato dal Re Vittorio Emanuele a formare un nuovo governo, nel quale entrarono anche esponenti liberali e conservatori. Poche forze avrebbero potuto stroncare in poche ore il movimento rivoluzionario ma il Re rifiutò di firmare il decreto di stato d’assedio e si assunse perciò la responsabilità della creazione della successiva dittatura. Fu poco più di due anni dopo, a seguito dell’uccisione del capo dell’opposizione di sinistra Giacomo Matteotti da parte della polizia segreta personale di Mussolini, la “Ceka”, che fu istituita la dittatura a tutti gli effetti. Furono soppressi i partiti, ad eccezione di quello fascista, chiusi i giornali d’opposizione, abolite le istituzioni democratiche locali eccetera, istituito un Tribunale speciale e commissioni speciali per colpire gli oppositori, infliggendo anni di carcere o di confino sulle isole ed un certo numero di condanne a morte. E’ vero che la repressione italiana fu meno dura e meno disumana di altre, ma anche l’opposizione interna fu più blanda. La massa non ne fu coinvolta. Solo poche migliaia d’idealisti, tennero viva la resistenza per tutto il ventennio e la maggior parte pagò con il carcere, il confino, la perdita del lavoro, il boicottaggio sociale o con l’esilio. In Italia, nella quale ormai regnavano ordine e disciplina, assicurate da un apparato poliziesco ed informativo capillare ed efficiente, furono anche realizzate iniziative a vantaggio di alcune categorie sociali che procurarono consensi al regime, s’imboccò la strada pericolosa del nazionalismo e dell’imperialismo, senza averne i mezzi e ci si procurò l’inimicizia di gran parte del mondo libero. Conseguenza naturale di un potere personale quasi assoluto, dove i cittadini non avevano alcuna voce e dove gli stessi gerarchi del regime non osavano o non avevano la possibilità di contrastare le scelte del capo. Vennero l’aggressione all’Etiopia, la partecipazione alla guerra di Spagna con decine di migliaia di soldati e grandi mezzi dalla parte dei militari golpisti, l’aggressione all’Albania, alla Francia, alla Grecia, alla Jugoslavia, la dichiarazione di guerra all’America e la disastrosa campagna di Russia.
La Seconda Guerra Mondiale
La Seconda Guerra Mondiale che, secondo le previsioni di Mussolini, doveva durare poche settimane, durò invece quattro anni e le nostre Forze Armate, scarse di mezzi e di motivazioni, passarono da una sconfitta all’altra, da un disastro all’altro. Attaccammo la Francia quando era già stata sconfitta dai tedeschi ed aveva già chiesto l’armistizio, nel giugno 1940, senza ottenere dai tedeschi il riconoscimento delle aspirazioni che la propaganda aveva per anni sbandierato, Nizza, la Savoia, la Corsica, la Tunisia. Attaccammo la Grecia che si difese bene e quasi ci ributtò in mare. Solo l’intervento tedesco all’ultimo momento ci salvò. Perdemmo quasi subito l’Etiopia, conquistata solo quattro anni prima e passammo poi da una sconfitta all’altra. Nella primavera del 1943 gli italiani non desideravano altro che tutto finisse, in un modo o nell’altro, anche il Fascismo, e sperarono che il Re, che aveva sempre appoggiato, volente o nolente, le iniziative del regime, intervenisse com’era ancora nei suoi poteri ma, ancora per alcuni mesi, il Re non osò muoversi. Fu dopo lo sbarco degli anglo-americani in Sicilia e la completa conquista dell’isola, con scarsa resistenza da parte delle truppe italiane, che si mosse lo stesso organo superiore del Regime, il Gran Consiglio del Fascismo, che approvò un ordine del giorno di sfiducia a Mussolini e finalmente il Re lo destituì nominando al suo posto il Maresciallo Pietro Badoglio e lo fece arrestare. A quel punto, tutti si attendevano la fine immediata della guerra ma ci vollero ancora quarantacinque giorni perché si arrivasse all’armistizio con gli alleati, annunciato l’8 settembre 1943. Molti italiani si erano illusi che i tedeschi accettassero l’uscita dell’Italia dalla guerra e si ritirassero dal nostro paese dove avevano accresciuto la loro presenza negli ultimi tempi. Non fu così. Hitler, nonostante le sconfitte in Russia ed in Africa e l’intervento massiccio degli americani nella guerra, aveva deciso di continuare fino alla fine, fino all’ultimo tedesco, fino all’ultimo europeo, fino all’ultima città distrutta, fino all’ultimo ebreo sulla faccia della terra e diede ordine di occupare l’Italia, di disarmare il nostro esercito a qualunque costo. Da parte sua il governo Badoglio, nei quarantacinque giorni, impegnato in una equivoca schermaglia con gli anglo-americani, timoroso di provocare una reazione immediata da parte dei tedeschi, non predispose alcun piano di difesa, non trasmise ordini ai comandi periferici e, all’annuncio dell’armistizio, fuggì da Roma per non essere catturato, insieme al Re,. Alla sua famiglia ed ai capi delle forze armate. Vi furono resistenze sporadiche, anche eroiche, di singole unità militari per iniziativa dei loro comandanti locali, a Roma, in Piemonte, in Jugoslavia, a Cefalonia nelle isole dell’Egeo (dove i tedeschi dopo aver sopraffatto la resistenza della divisione Acqui e dopo la resa, fucilarono sul posto migliaia d’ufficiali e soldati). Oltre seicentomila militari italiani furono deportati nei campi di lavoro e di sterminio in Germania ed in Polonia. Fu un disastro, più di un’altra Caporetto. Eppure, la speranza, anche in quei frangenti, fu dura a morire. Si sperava in un sollecito arrivo delle truppe alleate, si favoleggiava di uno sbarco a Genova, di puntate offensive già nell’alta Val Trebbia. Gli alleati, invece, si erano limitati a sbarcare a Salerno ed in Calabria ed avrebbero impiegato altri venti mesi per raggiungerci.
1943-1944 Avvenimenti in Bassa Val Trebbia
zone di operazione delle brigate partigiane settembre 1944-fonte anpi piacenza
I tedeschi avevano occupato con le loro truppe tutta l’Italia settentrionale e centrale, Roma inclusa, ed avevano liberato Mussolini con un blitz sul Gran Sasso, dove era stato internato, e l’avevano portato in Germania. A Monaco di Baviera si erano già riuniti alcuni fra i fascisti più irriducibili che formarono subito, sotto l’ombrello tedesco, un governo di fatto che pose la sua sede, sempre per decisione tedesca, a Salò sul Lago di Garda. Non ci aspettavamo che il Fascismo, crollato senza colpo ferire e senza alcuna resistenza, il 25 luglio, potesse riemergere e che potesse nuovamente impegnarsi per la prosecuzione di quella guerra insensata ed ormai chiaramente perduta a fianco del Nazismo. I nostri soldati in Russia ed in Africa avevano sperimentato sulla propria pelle come i tedeschi trattassero gli alleati e la maggioranza del popolo italiano aveva capito quali fossero i piani egemonici del Nazismo in Europa in caso di vittoria. La Grande Germania sarebbe stata la nazione eletta, dominante e gli altri, con governi fantoccio, sarebbero diventati sudditi al suo servizio. Gli italiani ne avevano abbastanza di quell’alleanza voluta dal Fascismo e voleva farla finita con quella guerra. Cominciò così la resistenza, per il momento con la lettera minuscola, poi, con il procedere dei mesi, sempre più attiva ed incisiva. A Rivergaro, Travo e Gossolengo la maggior parte dei giovani non rispose alle varie chiamate alle armi da parte degli organi della Repubblica Sociale Italiana o, se si presentò, riuscì poi a darsi alla macchia, sulle montagne, o si nascose nei paesi. Pochi, dalle nostre parti, si arruolarono nelle varie milizie fasciste e da noi non si fecero mai vedere. Anche i vecchi fascisti, anche coloro che avevano primeggiato o spadroneggiato negli anni d’oro del regime, si tennero per lo più in disparte o se n’andarono altrove. Nella tarda primavera del 1944 furono compiute le prime azioni partigiane anche da noi. Ne avevamo sentito molto parlare da persone che arrivavano dall’alta valle, da Bobbio, da Coli, da Ottone, dalla Val Tidone e dalla Val Luretta. Era già noto che li comandava un certo Fausto, ufficiale dei carabinieri ed un certo Paolo, brigadiere della stessa Arma. I carabinieri di Rivergaro, con in testa il Maresciallo, sparirono una notte e furono rimpiazzati da militi della Guardia Repubblicana, di nuova costituzione, i quali subirono quasi subito un attacco partigiano. Una notte il paese fu messo sossopra da spari ed esplosioni e il mattino successivo si videro alcuni dei militi in mutande, senza scarpe e disarmati, davanti alla loro caserma. Assalti ripetuti alla polveriera di Gossolengo consentirono alle prime brigate partigiane di armarsi e numerosi colpi di mano ebbero luogo sulla Via Emilia ed addirittura in città, all’interno dell’Arsenale Militare. Una volta un’auto partigiana, di ritorno da Gossolengo, attraversò la piazza di Rivergaro a grande velocità, sparando contro i repubblicani (all’inizio li chiamavamo così, poi fu coniato il termine più riduttivo di repubblichini). Di tanto in tanto compariva una colonna proveniente da Piacenza con un’autoblinda costruita nell’Arsenale mediante blindatura di un autocarro (la chiamavamo ‘l tulon d’la vardüra) e si spingeva spesso fino a Travo o a Montechiaro per far rifornimento di petrolio. A Montechiaro erano allora operativi alcuni pozzi che, unitamente a quelli di Montechino, dalle parti di Gropparello, fornivano un prodotto già adatto ad essere utilizzato nei motori. Anche i partigiani alimentavano i loro automezzi con quel petrolio. La vita, in paese ed in quei primi mesi del 1944, scorreva abbastanza tranquilla, salvo quando le puntate repubblicane costringevano tutti a rifugiarsi nelle case o nelle cantine e gli uomini a fuggire nei boschi o fra le vigne. Una volta una di queste colonne fu attaccata da un gruppo di partigiani, tutti rivergaresi, che spararono dalla collina sopra a Diara, poi i fucili mitragliatori s’incepparono. Un’altra volta una pattuglia partigiana, appostata sulla riva sinistra del Trebbia all’altezza del “Giastrino”, attaccò alcuni repubblicani sdraiati nel fiume a prendere il sole e ne portò in montagna un paio. Le puntate repubblicane divennero sempre più difficoltose a causa della reazione partigiana e furono anche ritirati i presidi permanenti a Travo ed a Rivergaro. Continuarono per un po’ le puntate finalizzate alla cattura d’ostaggi, d’antifascisti e di parenti dei partigiani e molti furono costretti a rifugiarsi in montagna. Fra luglio ed agosto vi furono alterne vicende. Un paio di pesanti rastrellamenti con la partecipazione di truppe blindate tedesche e successive ritirate verso la città. Pigazzano, Bobbiano ed altre frazioni furono cannoneggiate e s’ingaggiarono battaglie con le brigate partigiane. Molte cascine, fra le quali quella di Diara, furono incendiate ed alcuni civili feriti o catturati. Molti, anche fra noi ragazzi, fuggirono in montagna o si nascosero. Un fatto che forse avrebbe potuto provocare una rappresaglia da parte dei tedeschi, avvenne nella tarda estate a Diara. Una pattuglia partigiana forse proveniente dalla Val Nure attaccò l’ultima autovettura di una colonna tedesca diretta a Piacenza, sparando da un muro di cinta che costeggiava la strada statale. Un ufficiale tedesco fu ferito gravemente e morì in una casa della frazione, assistito da alcune donne. Si temette una grave rappresaglia ma fu lo stesso ufficiale che diede ordine di non compiere vendette sulla popolazione civile, una prova che anche nelle forze armate germaniche esistevano uomini ai quali ripugnavano i soliti metodi terroristici e che le barbare rappresaglie sui civili risultavano in fin dei conti controproducenti per gli stessi tedeschi. Finalmente i partigiani di Paolo, comandante della III Brigata, occuparono stabilmente Travo e Rivergaro come altre brigate, dalle valli del Nure, dell’Arda e del Tidone, liberarono gran parte della provincia di Piacenza, spingendo le loro pattuglie fino alle porte di Piacenza. Gli alleati, nel frattempo, avevano lentamente risalito la penisola, liberando Roma e poi Firenze e, alle soglie dell’autunno, sembrava certo che anche noi saremmo stati liberati presto, senz’altro prima dell’inverno. Con il ritiro dei presidi e la successiva occupazione partigiana, i pochi generi alimentari e di prima necessità che prima erano distribuiti con la tessera annonaria non arrivarono più. Mancavano tante cose, il sale, lo zucchero, il caffè, la carne e tante altre cose. Per fortuna, da un lato, alcuni generi come il pane e la pasta potevano essere prodotti localmente, grazie alla fiorente agricoltura. Dall’altro, tuttavia, questi prodotti dovevano essere pagati a prezzi ben diversi da quelli del razionamento e la maggior parte della popolazione non se li poteva permettere. Supplivano in qualche modo e saltuariamente a queste deficienze alcuni colpi partigiani sulla Via Emilia che fruttarono qualche fornitura di formaggi e di carne. Chi poteva, almeno fino a settembre-ottobre, scendeva a Piacenza in bicicletta per ritirare “la roba della tessera” e ritornava con un po’ d’olio, qualche vasetto di marmellata, pane nero, pasta dal colore indefinibile. Passavano continuamente sulle nostre teste formazioni di centinaia e centinaia di bombardieri anglo-americani che si dirigevano verso nord lasciando lunghe scie bianche che per noi erano ancora inspiegabili. Spesso, dopo un’ora o due, si sentivano gli scoppi delle bombe che provenivano dalle città del nord e, in diverse occasioni, dalle nostre colline potevamo vedere alcune decine d’aerei staccarsi dalle formazioni e lasciar cadere bombe a grappoli su Piacenza, i suoi ponti, la ferrovia e le strade principali. Un giorno, due aerei si buttarono in picchiata sul ponte di Statto e lasciarono cadere alcune bombe che però non lo colpirono. Il ponte, come quello di Travo, fu poi fatto saltare. Noi ragazzi non sentivamo la paura. Eravamo anzi interessati agli avvenimenti che erano per noi quasi un gioco ed era quasi un gioco correre a nasconderci, correre a vedere i mezzi incendiati dopo una battaglia o un agguato. Alcuni di noi arrivavano a mescolarsi con i militi che occupavano i paesi, con i tedeschi, li interrogavano, scherzavano con loro. Altri non se lo potevano permettere perché i loro genitori o i loro fratelli erano ricercati. Chi aveva qualcuno della famiglia in montagna girava al largo.
1944-1945 un Terribile Inverno
Fra ottobre e novembre, alle soglie dell’inverno, quando già il freddo, la pioggia e l’umidità si facevano sentire, gli alleati si fermarono di fronte alla cosiddetta Linea Gotica, una linea difensiva approntata dai tedeschi sull’Appennino tosco-emiliano. Erano sbarcati in Francia all’inizio dell’estate ed avevano costituito là il loro fronte principale, trascurando ed impoverendo di mezzi quello italiano. Noi ci facevamo ancora grandi illusioni. Pensavamo che i tedeschi, ormai da un anno sulla difensiva ovunque, potessero essere sconfitti anche in Italia in quattro e quattr’otto, ma gli alleati decisero di rimandare alla primavera l’assalto finale. Emisero addirittura un comunicato in proposito. Un comunicato che colse le forze partigiane in tutta l’Italia settentrionale pronte alla battaglia finale ma in posizione critica, non in grado di far fronte, da sole, alla grande offensiva che i tedeschi avrebbero di lì a poco scatenato, ritirando truppe e mezzi dal fronte. Verso la fine di novembre anche da noi, come nel resto dell’Emilia- Romagna, in Piemonte, nel Veneto, in Friuli ed altrove, iniziò quello che fu poi chiamato “Il grande rastrellamento”, con l’impiego di un’intera divisione, costituita da ex prigionieri di guerra sovietici (turchestani, mongoli, caucasici, ucraini) comandati da ufficiali e sottufficiali tedeschi, appoggiata da reparti di Salò (Brigate Nere, SS Italiane, Guardia Repubblicana ed altre formazioni). La voce di un prossimo attacco
girava da alcuni giorni perché l’arrivo ed il concentramento di quelle truppe nella zona di Castel San Giovanni erano noti, ma noi c’illudevamo che si sarebbe trattato di uno dei soliti attacchi che poi si fermavano a fondo valle e nei paesi della prima collina. Una notte di fine novembre fummo svegliati da un bombardamento d’artiglieria che proveniva da occidente, dalla parte della Val Tidone. Un bombardamento mai sentito da chi non era stato in guerra. A Rivergaro ed a Travo fummo avvisati che truppe repubblicane con autoblinda erano a Niviano e molti di noi, anche ragazzi, presero la via dei boschi e delle colline. Il rombo dei cannoni continuò per tutta la mattina successiva, mentre nella zona di Rivergaro cominciò una battaglia di armi leggere. Un cannoncino partigiano sparava da Statto, appoggiato da mitragliatrici ed altre armi. Era la Brigata di Paolo che tentava la resistenza e per molte ore riuscì a bloccare il nemico prima del paese, ma il giorno successivo dovette abbandonare le posizioni perché i tedeschi avevano sfondato in Val Tidone ed avanzavano fra le montagne intorno al Penice, minacciando Bobbio e tutta l’alta valle. Cominciò allora il vero e proprio rastrellamento, con numerosi episodi di piccole battaglie, di resistenze saltuarie fra i monti, di fughe, di sbandamenti. Molte unità partigiane erano state sbaragliate dall’enorme superiorità di uomini e mezzi e dalla determinazione di quelle truppe asiatiche semiselvagge alle quali gli ufficiali avevano dato mano libera per rubare, violentare, distruggere. Bettola ed il Passo del Cerro videro le ultime resistenze organizzate e poi cominciò la caccia all’uomo che durò fino a tutto il mese di febbraio. Centinaia furono i morti, altrettanti i prigionieri scovati qua e là, molti dei quali furono fucilati o sparirono per sempre chissà dove. L’inverno fu particolarmente crudele, cominciò a nevicare già a dicembre e la neve, in molte località ed anche da noi raggiunse il metro d’altezza. Non si ricordava, a memoria d’uomo, tanta neve e tanti giovani, a centinaia se non migliaia, vagavano per le montagne, negli alti boschi, cercando ripari sempre meno sicuri, senza cibo ed abiti degni di questo nome, assistiti in modo precario dalle povere popolazioni locali. Da noi, nella bassa valle, dopo qualche giorno si acquartierarono, oltre ad unità repubblicane, qualche centinaia di “mongoli” (così li chiamavamo anche se poi venimmo a sapere che ben pochi provenivano proprio dalla Mongolia). Si sistemarono nelle case private, requisendole, a tre o quattro per casa, o si mescolarono alle famiglie relegandole in alcune camere e facendola da padroni. Singolarmente, presi uno per uno, non parevano cattivi. Erano anche loro vittime di quella guerra. Erano prigionieri di guerra catturati sul fronte orientale. I tedeschi li consideravano sottouomini, di razze inferiori ed a loro fu offerta la via d’uscita dai terribili campi di concentramento a loro riservati se avessero accettato di combattere la guerriglia in Jugoslavia, in Italia ed altrove. Molti di loro, nella successiva primavera, passarono nelle file partigiane ed un certo numero, si dice, degli uni e degli altri, al ritorno in patria dopo la guerra fu processato per tradimento e fucilato. In quel periodo le ristrettezze alimentari aumentarono ancora. Le truppe occupanti requisivano e s’impossessavano di quasi tutto ciò che restava, in beni di sopravvivenza, alla popolazione che peraltro riusciva ad occultare qualcosa o, addirittura, a sottrarre con destrezza agli stessi mongoli qualche provvista, come le famose pagnotte di segale che, per la loro durezza, sembravano blocchi di pietra o, in qualche caso fortunato, a ritagliare qualche pezzo di carne, di notte e di nascosto, nelle stanze adibite a magazzino. Nei mesi da dicembre a febbraio la guerra grossa sul fronte della linea gotica si era completamente fermata, mentre proseguiva intensamente sul fronte orientale ed in Francia. Ormai la Germania era alle corde, soggetta a bombardamenti aerei a tappeto sulle sue città, i russi premevano ai confini stessi del paese e stavano dilagando ed anche sul fronte occidentale gli alleati, dopo un effimero colpo di coda tedesco in Belgio prima di Natale, avevano ripreso l’offensiva ed erano ormai sul confine tedesco. Il mese di marzo segnò anche da noi la ripresa su larga scala delle forze partigiane. Rifornite da alcuni lanci di armi e materiale da parte degli alleati, si erano ricostituite le brigate ed i presidi repubblicani nei nostri paesi cominciarono a sentirsi di nuovo assediati. La divisione
mongola fu ritirata in febbraio ed i repubblicani erano rimasti soli, attaccati all’unica speranza propagandistica di nuove armi terribili che Hitler avrebbe sfoderato di lì a poco, armi che per fortuna non comparvero. A metà aprile vi fu un fatto d’armi che a Rivergaro ed a Travo fu vissuto da vicino. Le varie milizie repubblicane, alcune centinaia di uomini con armi automatiche e mortai, assaltarono il castello di Ponticello, a cavallo fra la Val Trebbia e la Val Luretta, dove era asserragliato un piccolo gruppo di partigiani. Questi ultimi resistettero finchè altri due piccoli gruppi appartenenti ad altre formazioni corsero in loro aiuto e riuscirono a mettere in fuga gli assalitori. I partigiani persero sei uomini fra i quali due fra i più noti comandanti, mentre i morti repubblicani furono molte decine (il numero preciso non è stato mai accertato). I rivergaresi li videro arrivare su carri trainati da buoi e molti furono deposti nella piazzetta contigua alla chiesetta di San Rocco. Era stato l’ultimo sussulto, anche inspiegabile se si vuole, dato che gli alleati avevano ormai già sfondato la linea gotica e stavano per attraversare il Po dopo la liberazione di Bologna.
girava da alcuni giorni perché l’arrivo ed il concentramento di quelle truppe nella zona di Castel San Giovanni erano noti, ma noi c’illudevamo che si sarebbe trattato di uno dei soliti attacchi che poi si fermavano a fondo valle e nei paesi della prima collina. Una notte di fine novembre fummo svegliati da un bombardamento d’artiglieria che proveniva da occidente, dalla parte della Val Tidone. Un bombardamento mai sentito da chi non era stato in guerra. A Rivergaro ed a Travo fummo avvisati che truppe repubblicane con autoblinda erano a Niviano e molti di noi, anche ragazzi, presero la via dei boschi e delle colline. Il rombo dei cannoni continuò per tutta la mattina successiva, mentre nella zona di Rivergaro cominciò una battaglia di armi leggere. Un cannoncino partigiano sparava da Statto, appoggiato da mitragliatrici ed altre armi. Era la Brigata di Paolo che tentava la resistenza e per molte ore riuscì a bloccare il nemico prima del paese, ma il giorno successivo dovette abbandonare le posizioni perché i tedeschi avevano sfondato in Val Tidone ed avanzavano fra le montagne intorno al Penice, minacciando Bobbio e tutta l’alta valle. Cominciò allora il vero e proprio rastrellamento, con numerosi episodi di piccole battaglie, di resistenze saltuarie fra i monti, di fughe, di sbandamenti. Molte unità partigiane erano state sbaragliate dall’enorme superiorità di uomini e mezzi e dalla determinazione di quelle truppe asiatiche semiselvagge alle quali gli ufficiali avevano dato mano libera per rubare, violentare, distruggere. Bettola ed il Passo del Cerro videro le ultime resistenze organizzate e poi cominciò la caccia all’uomo che durò fino a tutto il mese di febbraio. Centinaia furono i morti, altrettanti i prigionieri scovati qua e là, molti dei quali furono fucilati o sparirono per sempre chissà dove. L’inverno fu particolarmente crudele, cominciò a nevicare già a dicembre e la neve, in molte località ed anche da noi raggiunse il metro d’altezza. Non si ricordava, a memoria d’uomo, tanta neve e tanti giovani, a centinaia se non migliaia, vagavano per le montagne, negli alti boschi, cercando ripari sempre meno sicuri, senza cibo ed abiti degni di questo nome, assistiti in modo precario dalle povere popolazioni locali. Da noi, nella bassa valle, dopo qualche giorno si acquartierarono, oltre ad unità repubblicane, qualche centinaia di “mongoli” (così li chiamavamo anche se poi venimmo a sapere che ben pochi provenivano proprio dalla Mongolia). Si sistemarono nelle case private, requisendole, a tre o quattro per casa, o si mescolarono alle famiglie relegandole in alcune camere e facendola da padroni. Singolarmente, presi uno per uno, non parevano cattivi. Erano anche loro vittime di quella guerra. Erano prigionieri di guerra catturati sul fronte orientale. I tedeschi li consideravano sottouomini, di razze inferiori ed a loro fu offerta la via d’uscita dai terribili campi di concentramento a loro riservati se avessero accettato di combattere la guerriglia in Jugoslavia, in Italia ed altrove. Molti di loro, nella successiva primavera, passarono nelle file partigiane ed un certo numero, si dice, degli uni e degli altri, al ritorno in patria dopo la guerra fu processato per tradimento e fucilato. In quel periodo le ristrettezze alimentari aumentarono ancora. Le truppe occupanti requisivano e s’impossessavano di quasi tutto ciò che restava, in beni di sopravvivenza, alla popolazione che peraltro riusciva ad occultare qualcosa o, addirittura, a sottrarre con destrezza agli stessi mongoli qualche provvista, come le famose pagnotte di segale che, per la loro durezza, sembravano blocchi di pietra o, in qualche caso fortunato, a ritagliare qualche pezzo di carne, di notte e di nascosto, nelle stanze adibite a magazzino. Nei mesi da dicembre a febbraio la guerra grossa sul fronte della linea gotica si era completamente fermata, mentre proseguiva intensamente sul fronte orientale ed in Francia. Ormai la Germania era alle corde, soggetta a bombardamenti aerei a tappeto sulle sue città, i russi premevano ai confini stessi del paese e stavano dilagando ed anche sul fronte occidentale gli alleati, dopo un effimero colpo di coda tedesco in Belgio prima di Natale, avevano ripreso l’offensiva ed erano ormai sul confine tedesco. Il mese di marzo segnò anche da noi la ripresa su larga scala delle forze partigiane. Rifornite da alcuni lanci di armi e materiale da parte degli alleati, si erano ricostituite le brigate ed i presidi repubblicani nei nostri paesi cominciarono a sentirsi di nuovo assediati. La divisione
mongola fu ritirata in febbraio ed i repubblicani erano rimasti soli, attaccati all’unica speranza propagandistica di nuove armi terribili che Hitler avrebbe sfoderato di lì a poco, armi che per fortuna non comparvero. A metà aprile vi fu un fatto d’armi che a Rivergaro ed a Travo fu vissuto da vicino. Le varie milizie repubblicane, alcune centinaia di uomini con armi automatiche e mortai, assaltarono il castello di Ponticello, a cavallo fra la Val Trebbia e la Val Luretta, dove era asserragliato un piccolo gruppo di partigiani. Questi ultimi resistettero finchè altri due piccoli gruppi appartenenti ad altre formazioni corsero in loro aiuto e riuscirono a mettere in fuga gli assalitori. I partigiani persero sei uomini fra i quali due fra i più noti comandanti, mentre i morti repubblicani furono molte decine (il numero preciso non è stato mai accertato). I rivergaresi li videro arrivare su carri trainati da buoi e molti furono deposti nella piazzetta contigua alla chiesetta di San Rocco. Era stato l’ultimo sussulto, anche inspiegabile se si vuole, dato che gli alleati avevano ormai già sfondato la linea gotica e stavano per attraversare il Po dopo la liberazione di Bologna.
La Liberazione
Le bombe colpiscono i ponti del Po
Una settimana dopo anche le milizie repubblicane lasciarono la Val Trebbia, mentre gli aerei alleati scorrazzavano nei nostri cieli, bombardando e mitragliando le truppe in fuga. Anche a Rivergaro i cacciabombardieri seminarono i loro confetti micidiali e più d’uno di noi, fuori casa per incosciente curiosità, rischiò di essere colpito e non valsero le numerose bandiere bianche e tricolori esposte sui tetti delle case e sui balconi. Gli stessi repubblicani, quando lasciarono Rivergaro, furono bersagliati dagli aerei che riuscirono a colpirli di fronte ad Ancarano, dove sulla strada lasciarono autocarri bruciati e cavalli morti. I partigiani scesero subito nei paesi fra il tripudio della gente, anche perché molti di loro erano del posto, e proseguirono per Piacenza, dove tuttavia i combattimenti con gli ultimi tedeschi in fuga ed i resti delle ormai sbandate forze repubblicane durarono ancora un paio di giorni, con altri morti partigiani e dell’altra parte. Gli alleati arrivarono subito dopo, ma Piacenza, come quasi tutte le città dell’Italia settentrionale, era già libera ed in mano alle nuove autorità italiane dei Comitati di Liberazione Nazionale. Dalle nostre parti non vi furono vendette ed uccisioni. Alcuni militi avevano disertato e si erano fermati nei paesi, ma non furono toccati. Qualche esecuzione avvenne a Piacenza nei primissimi giorni e si seppe che episodi più consistenti erano avvenuti nelle province centrali dell’Emilia, in Piemonte ed in Veneto, dove la repressione della resistenza era stata più feroce. Furono fucilati alcuni fra i più noti capi fascisti fra i quali il Capo della Provincia Graziani ed il Capo dell’Ufficio Politico Zanoni, catturati oltre il Po. Altri furono processati nei dodici mesi successivi e furono erogate alcune condanne a morte, ma poche furono eseguite. Poi, per iniziativa di Togliatti Segretario del Partito Comunista e Ministro della Giustizia nel primo governo presieduto da Ferruccio Parri, fu concessa un’amnistia generale e ne beneficiarono anche criminali, responsabili di torture e di eccidi. L’incubo di quella guerra a fianco dei nazisti, voluta dal Dittatore Mussolini, era finito. Solo pochi giorni dopo, infatti, la Germania si arrese, Hitler si si tolse la vita e Mussolini, catturato a Dongo sulla via della Svizzera con altri gerarchi, fu fucilato ed il cadavere esposto al ludibrio della gente in Piazzale Loreto a Milano, insieme a quello della sua amante Claretta, atto barbaro, stigmatizzato dagli stessi capi del Comitato di Liberazione di Milano. In Val Trebbia, tutto sommato, non avevamo subito gravi disastri o gravi rappresaglie, se si eccettuano gli incendi di case e cascine, i caduti partigiani (fra i quali il mitico comandante Paolo, catturato a Piacenza e poi fucilato) ed alcune deportazioni. Ora tutti volevano ricominciare a vivere, riprendere a lavorare, andare a scuola (ben pochi, da noi, avevano potuto frequentare la scuola ed ora dovevano recuperare). Molti ci riuscirono frequentando i corsi a Piacenza in maggio e giugno. Al contrario, in città, alcuni riuscirono ad approfittare di quei corsi per passare all’anno successivo. Avevamo anche voglia di divertirci, di ballare, di uscire con le ragazze (che allora subivano la stretta sorveglianza delle madri), di parlare di politica, di appassionarci ai grandi temi che vennero ben presto in discussione, russi o americani, patto atlantico si o patto atlantico no, capitalismo o socialismo, religione o filosofia. Vi furono insieme esplosioni d’ideologia e di religiosità e si cominciò anche a litigare. Non capimmo subito che questa era democrazia e dovemmo abituarci.
Conclusione
Celebriamo in questi giorni i sessant’anni da quella che fu subito chiamata “La Liberazione”. Oggi viviamo in una società democratica, forse di democrazia non del tutto compiuta perché sopravvivono disuguaglianze forti, ingiustizie, privilegi, tentativi più o meno palesi di ritorno autoritario, ma possiamo parlare, leggere, ascoltare e pensare con la nostra testa senza essere perseguitati per le nostre idee. La nostra società si è evoluta ed ha avuto un forte sviluppo economico, c’è ancora povertà ma non miseria e le radici riposano in quei giorni esaltanti che abbiamo chiamato Liberazione, in quel movimento spontaneo chiamato Resistenza, una pagina della nostra storia di cui dobbiamo essere orgogliosi anche se, è ovvio ricordarlo, come in tutte le pagine della storia ed in tutti i rivolgimenti, in tutte le grandi transizioni, vi sono state anche ombre. E’ una delle poche pagine gloriose della storia d’Italia ed i giovani non devono dimenticarla. E’ la base sulla quale è stata costruita la nostra Repubblica, la nostra Costituzione democratica, una delle più moderne e complete del mondo, ancora vivissima dopo quasi sessant’anni. Le nuove generazioni non devono permettere che sia stravolta, che siano attenuate le garanzie di libertà e di opportunità per tutti. Resistenza non fu soltanto quella armata delle montagne e delle città. Fu anche quella dei seicentomila soldati italiani internati in Germania che rifiutarono di arruolarsi nelle milizie di Salò ed accettarono piuttosto la vita dura dei campi di lavoro. Molti non sono tornati. Resistenza fu anche quella dei reparti che nel settembre 1943 resistettero ai tedeschi in Jugoslavia, nelle isole dell’Egeo ed in molte parti d’Italia. Resistenza fu quella degli operai delle fabbriche che boicottarono la produzione ed in molte occasioni, a Torino, a Milano, a Genova scesero in sciopero e pagarono con il carcere e la deportazione. Resistenza, infine, fu anche quella di larga parte della popolazione che non collaborò con gli occupanti ed anzi aiutò i partigiani, nascose gli ebrei ed i ricercati. In questa attività anche molti preti fecero la loro parte ed alcuni, anche a Piacenza, pagarono con la vita. E’ amaro il pensiero che vi furono invece altri italiani che ritennero, per vari motivi, di collaborare con i nazisti. Molti lo fecero in buona fede, cresciuti nel Fascismo e nella sua retorica, e non capirono che non erano dalla parte giusta. Purtroppo aiutarono i nazisti a perseguitare i loro connazionali, ad inviare gli ebrei nei campi di sterminio, a catturare gli oppositori, a bruciare i paesi e, in definitiva, a ritardare la fine dell’incubo chiamato II Guerra Mondiale.
Appendice
Riportiamo di seguito una preghiera che circolava nel 1944 fra i partigiani credenti, alcune parti della quale furono scritte su un muro interno del Castello di Monteventano, in Comune di Piozzano. Signore, facci liberi. Signore che fra gli uomini drizzasti la tua croce, segno di contraddizione, che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dei dominanti, la sordità inerte della massa, a noi, oppressi da un giogo numeroso e crudele, che in noi e prima di noi ha calpestato Te, fonte di libere vite, dà la forza della ribellione. Dio che sei Libertà e Verità, facci liberi e intensi, alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà, moltiplica le nostre forze, vestici della tua armatura. Noi ti preghiamo, Signore. Tu che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocefisso, nell’ora delle tenebre ci sostenti la tua vittoria: sii nell’indulgenza viatico, nel pericolo sostegno, conforto nell’amarezza. Quando più s’addensa ed incupisce l’avversario, facci limpidi e diritti. Nella tortura serra le nostre labbra. Spezzaci, non lasciarci piegare. Se cadremo, fa che il nostro sangue si unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri morti, a crescere al mondo giustizia e solidarietà. Tu che dicesti: Io sono la Resurrezione e la Vita rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e serena. Liberaci dalla tentazione degli affetti: veglia tu sulle nostre famiglie.
Sui monti ventosi e nelle catacombe delle città, dal fondo delle prigioni, noi ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai dare. Dio della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore. “Questa preghiera fu composta, lo si apprese dopo la guerra, da un partigiano morto in un campo di concentramento tedesco, Teresio Olivelli, già ufficiale dell’esercito italiano, ora Servo di Dio ed in corso di beatificazione”.
Concludiamo questo libretto riportando alcuni brani tratti da un “Libro della V classe” del 1940, testo ufficiale per tutte le scuole d’Italia imposto dal Ministero per l’Educazione Nazionale, per esemplificare il tipo di educazione politica che era propinata a noi ragazzi di allora.
Sui monti ventosi e nelle catacombe delle città, dal fondo delle prigioni, noi ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai dare. Dio della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore. “Questa preghiera fu composta, lo si apprese dopo la guerra, da un partigiano morto in un campo di concentramento tedesco, Teresio Olivelli, già ufficiale dell’esercito italiano, ora Servo di Dio ed in corso di beatificazione”.
Concludiamo questo libretto riportando alcuni brani tratti da un “Libro della V classe” del 1940, testo ufficiale per tutte le scuole d’Italia imposto dal Ministero per l’Educazione Nazionale, per esemplificare il tipo di educazione politica che era propinata a noi ragazzi di allora.
La Marcia su Roma – Vigilia
Napoli, 24 Ottobre 1922.
Dopo lo storico discorso di Benito Mussolini al Teatro San Carlo, migliaia e migliaia di fascisti, deliranti d’entusiasmo, sfociano in Piazza Plebiscito, per salutare ancora il Capo e giurargli la loro fedeltà e la loro passione. Italo Balbo, mescolatosi fra la folla, ritrova i camerati dell’Emilia e li invita a scandire con lui: “Roma! Roma!. Subito dopo tutto il popolo ripete la grande parola con una voce immensa, vibrante, oceanica. Alla sera, all’Albergo Vesuvio, presenti Balbo, Teruzzi, Bastianini, Michele Bianchi e Storace, viene comunicato da Mussolini il piano della Marcia su Roma. Il Duce ha guardato negli occhi i fedeli che lo circondano e con mossa rapida del capo pronuncia poche parole, secche, irrevocabili, storiche: “Scatteremo il 28 ottobre”. Balbo, De Vecchi, De Bono, Michele Bianchi formeranno il quadrunvirato che da Perugina, situata in un punto strategico ideale, dirigerà la marcia insurrezionale. Colonne e colonne di Camicie Nere, in pieno assetto di guerra, avanzeranno su Roma dalle Marche, dall’Umbria, dall’Abruzzo, dalla campagna laziale, stringeranno la Città Eterna in un cerchio di ferro, otterranno la resa a discrezione del vecchio, inetto governo e la proclamazione del nuovo. Le Camicie Nere romane dovranno, ad un segnale, impadronirsi rapidamente e simultaneamente delle stazioni, delle poste, degli uffici statali e comunali, dislocando manipoli veloci ed ardite pattuglie sui punti di più delicata e vitale importanza. Ordine preciso: evitare anche il minimo scontro con l’esercito. L’esercito è sacro, è il simbolo della Patria vittoriosa e quasi tutti i Fascisti provengono dalle sue file; molti vi appartengono ancora.
Dopo lo storico discorso di Benito Mussolini al Teatro San Carlo, migliaia e migliaia di fascisti, deliranti d’entusiasmo, sfociano in Piazza Plebiscito, per salutare ancora il Capo e giurargli la loro fedeltà e la loro passione. Italo Balbo, mescolatosi fra la folla, ritrova i camerati dell’Emilia e li invita a scandire con lui: “Roma! Roma!. Subito dopo tutto il popolo ripete la grande parola con una voce immensa, vibrante, oceanica. Alla sera, all’Albergo Vesuvio, presenti Balbo, Teruzzi, Bastianini, Michele Bianchi e Storace, viene comunicato da Mussolini il piano della Marcia su Roma. Il Duce ha guardato negli occhi i fedeli che lo circondano e con mossa rapida del capo pronuncia poche parole, secche, irrevocabili, storiche: “Scatteremo il 28 ottobre”. Balbo, De Vecchi, De Bono, Michele Bianchi formeranno il quadrunvirato che da Perugina, situata in un punto strategico ideale, dirigerà la marcia insurrezionale. Colonne e colonne di Camicie Nere, in pieno assetto di guerra, avanzeranno su Roma dalle Marche, dall’Umbria, dall’Abruzzo, dalla campagna laziale, stringeranno la Città Eterna in un cerchio di ferro, otterranno la resa a discrezione del vecchio, inetto governo e la proclamazione del nuovo. Le Camicie Nere romane dovranno, ad un segnale, impadronirsi rapidamente e simultaneamente delle stazioni, delle poste, degli uffici statali e comunali, dislocando manipoli veloci ed ardite pattuglie sui punti di più delicata e vitale importanza. Ordine preciso: evitare anche il minimo scontro con l’esercito. L’esercito è sacro, è il simbolo della Patria vittoriosa e quasi tutti i Fascisti provengono dalle sue file; molti vi appartengono ancora.
28 Ottobre 1922 – Le Camicie Nere marciano su Roma inizia l’Era Fascista
E’ trascorso meno di un ventennio, l’Italia rispettata e temuta, un vasto Impero conquistato, il volto della Patria rinnovata.
A Roma.
Atmosfera di rivoluzione. Canti, grida, parole chiare dirette dai giovani rivoluzionari, i quali volevano finalmente un’Italia degna dei suoi morti, ai rappresentanti di un governo vecchio, umiliato, inutile e pur tuttavia attaccato al potere come l’ostrica allo scoglio. La situazione s’aggrava, le armi stanno per entrare in gioco.. Il Ministero prepara il decreto di stato d’assedio in tutta Italia.. Mussolini stringe le mascelle e non recede di un pollice.. Che cosa accadrà? E’ possibile che tanti giovani accomunati nel santo amore per la Patria versino il loro sangue in una lotta fratricida? Il Re vittorioso sente che i fascisti hanno ragione. Essi provengono in gran parte dalla trincea e non vogliono più saperne dell’Italietta di un tempo. Ben vengano dunque le Camicie Nere condotte dal quel bersagliere romagnolo dagli occhi fiammeggianti, che ha vissuto la vita della guerra e ne è tornato con la carne lacerata. Continuano intanto ad affluire alla Capitale migliaia e migliaia di fascisti. Roma vive ore di ansia. Tutti i cuori sono sospesi. Ma ad un tratto la notizia che già correva di bocca in bocca prende consistenza, diventa certezza, si propala fulmineamente: Sua Maestà il Re ha fatto pervenire a Mussolini, a Milano, l’invito a recarsi nella capitale per accettare l’incarico a formare il nuovo governo. Un grido immenso corre per l’Italia: Viva il Re! Viva il Duce! Il Duce aveva ormai in pugno le sorti della Patria. Cominciava la sua immane fatica. La benedizione di Dio scendeva sull’Urbe e sull’Italia, incamminata ormai verso il suo destino di gloria.
Le navi dei ventimila.
Visione magnifica! Solcavano il mare le belle navi dell’Italia Mussoliniana, pavesate a festa, flottanti grando volute di fumo che sembravano ornarle come immensi piumetti bersagliereschi. Erano sedici piroscafi superbi, carichi di coloni i quali partivano come Pinotto alla volta della Libia per lavorarvi la buona terra e far più prospera la Patria italiana. Sapeva, il ragazzo, che ben ventimila persone contenevano tutte quelle navi! Ventimila persone che non emigravano in terra straniera al servizio di stranieri, ma che si recavano in un lembo lontano di Patria, situata in quella che aveva sentito chiamare “la quarta sponda”. Nel porto di Gaeta il suo cuore sussultò. Sulla plancia di comando del Vulcania aveva finalmente potuto scorgere la figura possente del Duce che rispondeva, salutando romanamente, alle invocazioni della folla accalcata sui ponti. I cannoni rombavano festosamnente. Tutte le navi a bandiere spiegate sfilarono davanti al Capo. Anche il forte ragazzo piemontese gridò insieme con gli altri: Duce! Duce! E mentre le musiche e le voci intonavano “Giovinezza!”. Mentre i marinai mandavano il saluto alla voce, mentre nel sole era un continuo agitarsi di braccia, di cappelli, di bandiere tricolori, egli vide molte mamme sollevare in alto i propri bambini come una promessa di vita e di forza, e il Duce sorridere luminosamente. Sentì’, allora, più che mai, la fierezza di essere un Balilla d’Italia. E il giorno dopo vide Italo Balbo, il governatore della Libia. Era alto, giovine e bello. Con lo sguardo che aveva sfidato in voli memorabili l’immensità dell’Atlantico, sorrideva ai coloni, alle madri, e per tutti aveva una lieta parola d’augurio. La sua mano gagliarda accarezzava paternamente i bambini. Anche Pinotto aveva avuto il suo sorriso e ne era rimasto come incantato.
La preghiera del Balilla.
Padre nostro che sei nei cieli..
Signore, benedici e proteggi sempre la mia Italia, nella SUA Romana Chiesa, nei suoi uomini di comando, nelle sue madri, nei suoi guerrieri, nei suoi lavoratori, nell’oro delle sue messi. Benedici i Sovrani, i Principi, il Duce nostro nella grande fatica che Egli compie; e poiché l’hai donato all’Italia, fallo vivere a lungo per l’Italia e fa che tutti siano degni di Lui che non conosce riposo vero se non quando è in mezzo a noi fanciulli e ci sorride con il suo luminoso sorriso. Benedici la mia famiglia, la mia scuola, i miei maestri, la mia divisa d’onore e di promessa. Concedimi una grazia: dare il braccio alla Patria, l’anima e, ove occorra, la vita. Sia benedetto il tuo Santo Nome.
La preghiera della “Piccola Italiana”.
Ave Maria, piena di grazia..
Dolce Madonna, Sposa e Madre Santissima, prega il Signore perché benedica le mie aspirazioni di fanciulla cristiana ed italiana. Che io possa crescere buona, forte e operosa. Fa che in un lieto domani la casa sia il mio regno, la chiesa il mio conforto, la scuola il mio sorridente ricordo. Benedici i miei genitori e tutti coloro che mi educano. Benedici la mia divisa. Prega per la famiglia dei Sovrani e dei Principi d’Italia: Famiglie dove gli uomini sono soldati e le donne madri. Proteggi il Duce, che in me, mamma di domani, vede la fonte e la certezza della Patria.
Il Duce.
Pallido del pallore delle cime, la fronte presa al testo dell’elmetto, gli occhi d’ombra armoniosi come rime quadrato il mento e più quadrato il petto, il passo di colonna che cammini, la voce morde come l’acqua al getto. Vien dal tugurio, nido di Destini, Roma gli aperse la casa sublime e le stelle gli schiudono i confini. La fronte che si adatta mirabilmente alla forma dell’elmetto.
La corona d’Albania a Vittorio Emanuele.
L’Assemblea Costituente albanese, interprete della volontà della nazione, nella seduta del 12 aprile 1939, dichiarò la sua fede nell’Italia fascista, la quale garantiva all’antico e valoroso popolo amico l’ordine, il rispetto di ogni fede religiosa, il progresso civile, la giustizia sociale e, con la difesa delle comuni frontiere, la pace. L’Assemblea offrì a Vittorio Emanuele III, Re d’Italia e Imperatore d’Etiopia, la Corona d’Albania. I nemici d’Italia masticarono amaro.. ma dovettero rassegnarsi ancora una volta alla volontà del Duce, il quale ebbe a dichiarare: “Il mondo è pregato di lasciarci tranquilli, intenti alla nostra grande e quotidiana fatica. Il mondo deve in ogni caso sapere che noi, domani come ieri come sempre, tireremo diritto”. A buon intenditor.. “Fa, o gioventù italiana di tutte le scuole e di tutti i cantieri, che la Patria non manchi al suo radioso avvenire; fa che il Ventesimo secolo veda Roma, centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce a tutte le genti”, (Mussolini).
A Roma.
Atmosfera di rivoluzione. Canti, grida, parole chiare dirette dai giovani rivoluzionari, i quali volevano finalmente un’Italia degna dei suoi morti, ai rappresentanti di un governo vecchio, umiliato, inutile e pur tuttavia attaccato al potere come l’ostrica allo scoglio. La situazione s’aggrava, le armi stanno per entrare in gioco.. Il Ministero prepara il decreto di stato d’assedio in tutta Italia.. Mussolini stringe le mascelle e non recede di un pollice.. Che cosa accadrà? E’ possibile che tanti giovani accomunati nel santo amore per la Patria versino il loro sangue in una lotta fratricida? Il Re vittorioso sente che i fascisti hanno ragione. Essi provengono in gran parte dalla trincea e non vogliono più saperne dell’Italietta di un tempo. Ben vengano dunque le Camicie Nere condotte dal quel bersagliere romagnolo dagli occhi fiammeggianti, che ha vissuto la vita della guerra e ne è tornato con la carne lacerata. Continuano intanto ad affluire alla Capitale migliaia e migliaia di fascisti. Roma vive ore di ansia. Tutti i cuori sono sospesi. Ma ad un tratto la notizia che già correva di bocca in bocca prende consistenza, diventa certezza, si propala fulmineamente: Sua Maestà il Re ha fatto pervenire a Mussolini, a Milano, l’invito a recarsi nella capitale per accettare l’incarico a formare il nuovo governo. Un grido immenso corre per l’Italia: Viva il Re! Viva il Duce! Il Duce aveva ormai in pugno le sorti della Patria. Cominciava la sua immane fatica. La benedizione di Dio scendeva sull’Urbe e sull’Italia, incamminata ormai verso il suo destino di gloria.
Le navi dei ventimila.
Visione magnifica! Solcavano il mare le belle navi dell’Italia Mussoliniana, pavesate a festa, flottanti grando volute di fumo che sembravano ornarle come immensi piumetti bersagliereschi. Erano sedici piroscafi superbi, carichi di coloni i quali partivano come Pinotto alla volta della Libia per lavorarvi la buona terra e far più prospera la Patria italiana. Sapeva, il ragazzo, che ben ventimila persone contenevano tutte quelle navi! Ventimila persone che non emigravano in terra straniera al servizio di stranieri, ma che si recavano in un lembo lontano di Patria, situata in quella che aveva sentito chiamare “la quarta sponda”. Nel porto di Gaeta il suo cuore sussultò. Sulla plancia di comando del Vulcania aveva finalmente potuto scorgere la figura possente del Duce che rispondeva, salutando romanamente, alle invocazioni della folla accalcata sui ponti. I cannoni rombavano festosamnente. Tutte le navi a bandiere spiegate sfilarono davanti al Capo. Anche il forte ragazzo piemontese gridò insieme con gli altri: Duce! Duce! E mentre le musiche e le voci intonavano “Giovinezza!”. Mentre i marinai mandavano il saluto alla voce, mentre nel sole era un continuo agitarsi di braccia, di cappelli, di bandiere tricolori, egli vide molte mamme sollevare in alto i propri bambini come una promessa di vita e di forza, e il Duce sorridere luminosamente. Sentì’, allora, più che mai, la fierezza di essere un Balilla d’Italia. E il giorno dopo vide Italo Balbo, il governatore della Libia. Era alto, giovine e bello. Con lo sguardo che aveva sfidato in voli memorabili l’immensità dell’Atlantico, sorrideva ai coloni, alle madri, e per tutti aveva una lieta parola d’augurio. La sua mano gagliarda accarezzava paternamente i bambini. Anche Pinotto aveva avuto il suo sorriso e ne era rimasto come incantato.
La preghiera del Balilla.
Padre nostro che sei nei cieli..
Signore, benedici e proteggi sempre la mia Italia, nella SUA Romana Chiesa, nei suoi uomini di comando, nelle sue madri, nei suoi guerrieri, nei suoi lavoratori, nell’oro delle sue messi. Benedici i Sovrani, i Principi, il Duce nostro nella grande fatica che Egli compie; e poiché l’hai donato all’Italia, fallo vivere a lungo per l’Italia e fa che tutti siano degni di Lui che non conosce riposo vero se non quando è in mezzo a noi fanciulli e ci sorride con il suo luminoso sorriso. Benedici la mia famiglia, la mia scuola, i miei maestri, la mia divisa d’onore e di promessa. Concedimi una grazia: dare il braccio alla Patria, l’anima e, ove occorra, la vita. Sia benedetto il tuo Santo Nome.
La preghiera della “Piccola Italiana”.
Ave Maria, piena di grazia..
Dolce Madonna, Sposa e Madre Santissima, prega il Signore perché benedica le mie aspirazioni di fanciulla cristiana ed italiana. Che io possa crescere buona, forte e operosa. Fa che in un lieto domani la casa sia il mio regno, la chiesa il mio conforto, la scuola il mio sorridente ricordo. Benedici i miei genitori e tutti coloro che mi educano. Benedici la mia divisa. Prega per la famiglia dei Sovrani e dei Principi d’Italia: Famiglie dove gli uomini sono soldati e le donne madri. Proteggi il Duce, che in me, mamma di domani, vede la fonte e la certezza della Patria.
Il Duce.
Pallido del pallore delle cime, la fronte presa al testo dell’elmetto, gli occhi d’ombra armoniosi come rime quadrato il mento e più quadrato il petto, il passo di colonna che cammini, la voce morde come l’acqua al getto. Vien dal tugurio, nido di Destini, Roma gli aperse la casa sublime e le stelle gli schiudono i confini. La fronte che si adatta mirabilmente alla forma dell’elmetto.
La corona d’Albania a Vittorio Emanuele.
L’Assemblea Costituente albanese, interprete della volontà della nazione, nella seduta del 12 aprile 1939, dichiarò la sua fede nell’Italia fascista, la quale garantiva all’antico e valoroso popolo amico l’ordine, il rispetto di ogni fede religiosa, il progresso civile, la giustizia sociale e, con la difesa delle comuni frontiere, la pace. L’Assemblea offrì a Vittorio Emanuele III, Re d’Italia e Imperatore d’Etiopia, la Corona d’Albania. I nemici d’Italia masticarono amaro.. ma dovettero rassegnarsi ancora una volta alla volontà del Duce, il quale ebbe a dichiarare: “Il mondo è pregato di lasciarci tranquilli, intenti alla nostra grande e quotidiana fatica. Il mondo deve in ogni caso sapere che noi, domani come ieri come sempre, tireremo diritto”. A buon intenditor.. “Fa, o gioventù italiana di tutte le scuole e di tutti i cantieri, che la Patria non manchi al suo radioso avvenire; fa che il Ventesimo secolo veda Roma, centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce a tutte le genti”, (Mussolini).
Le razze
Razza latina.
Una sola di queste civiltà potè resistere ai secoli: quella mediterranea o latina; formata e modellata da Roma, si può considerare come la più gloriosa della terra, perché ebbe dominio sulle altre razze. Dal Mediterraneo partirono i primi grandi navigatori: gli italiani Caboto, Colombo, Vespucci, Pigafetta e Pancaldo; i portoghesi Magellano, Bartolomeo Diaz, Vasco De Gama; gli spagnoli Cortes, Pizarro, Mendoza ed altri. E soprattutto italiani furono i grandi esploratori terrestri come Niccolò, Maffeo, Marco Polo. Solamente più tardi, ammaestrati dall’esperienza latina, si mossero gli inglesi, i francesi, gli olandesi, armando le loro flotte e conquistando immensi imperi coloniali.
Gli ebrei.
Ma fra i nuovi conquistatori si era mescolata la razza giudaica, disseminata lungo le rive del Golfo Persico e sulle coste dell’Arabia, dispersa poi lontano dalla Patria d’origine, quasi per maledizione di Dio, e astutamente infiltratasi nelle patrie degli Ariani. Essa aveva inoculato nei popoli nordici uno spirito nuovo fatto di mercantilismo e di sete di
guadagno, uno spirito che mirava unicamente ad accaparrarsi le maggiori ricchezze della terra.
L’Italia di Mussolini, erede della gloriosa civiltà romana, non poteva rimanere inerte di fronte a questa associazione di interessi affaristici, seminatrice di discordie, nemica di ogni idealità. Roma reagì con prontezza e provvide a preservare la nobile stirpe italiana da ogni pericolo di contaminazione ebraica e di altre razze inferiori. Dopo la conquista dell’Impero venne bandita, ad esempio, una severa crociata contro il pericolo della mescolanza fra la nostra razza e quella africana (meticciato). I popoli superiori non devono avere vincoli di sangue con i popoli assoggettati, per non venir meno ad un’alta missione di civiltà, per non subire menomazioni di prestigio e per non porre in pericolo la purezza della propria razza.
Nota.
“Di storie ne accaddero di ogni genere: drammatiche, di persecuzioni, uccisioni di massa, avventure al limite dell’incredibile, ecc. con questo non avrei finito ma al momento intendo fermarmi quì. Solo per lasciare la parola a loro, i ragazzi degli anni ‘43 e ‘45 che attraverso una piccola pubblicazione hanno deciso di ricordare qualcuno dei loro momenti per condividerli con i lettori che sperano siano essi i giovani d’oggi. Questo per chiarire gli inizi della nostra società democratica. Allego il libretto così come è stato trovato. Non credo di violare alcun copyright, qualora accadesse provvederò immediatamente a rimuoverlo”.
Una sola di queste civiltà potè resistere ai secoli: quella mediterranea o latina; formata e modellata da Roma, si può considerare come la più gloriosa della terra, perché ebbe dominio sulle altre razze. Dal Mediterraneo partirono i primi grandi navigatori: gli italiani Caboto, Colombo, Vespucci, Pigafetta e Pancaldo; i portoghesi Magellano, Bartolomeo Diaz, Vasco De Gama; gli spagnoli Cortes, Pizarro, Mendoza ed altri. E soprattutto italiani furono i grandi esploratori terrestri come Niccolò, Maffeo, Marco Polo. Solamente più tardi, ammaestrati dall’esperienza latina, si mossero gli inglesi, i francesi, gli olandesi, armando le loro flotte e conquistando immensi imperi coloniali.
Gli ebrei.
Ma fra i nuovi conquistatori si era mescolata la razza giudaica, disseminata lungo le rive del Golfo Persico e sulle coste dell’Arabia, dispersa poi lontano dalla Patria d’origine, quasi per maledizione di Dio, e astutamente infiltratasi nelle patrie degli Ariani. Essa aveva inoculato nei popoli nordici uno spirito nuovo fatto di mercantilismo e di sete di
guadagno, uno spirito che mirava unicamente ad accaparrarsi le maggiori ricchezze della terra.
L’Italia di Mussolini, erede della gloriosa civiltà romana, non poteva rimanere inerte di fronte a questa associazione di interessi affaristici, seminatrice di discordie, nemica di ogni idealità. Roma reagì con prontezza e provvide a preservare la nobile stirpe italiana da ogni pericolo di contaminazione ebraica e di altre razze inferiori. Dopo la conquista dell’Impero venne bandita, ad esempio, una severa crociata contro il pericolo della mescolanza fra la nostra razza e quella africana (meticciato). I popoli superiori non devono avere vincoli di sangue con i popoli assoggettati, per non venir meno ad un’alta missione di civiltà, per non subire menomazioni di prestigio e per non porre in pericolo la purezza della propria razza.
Nota.
“Di storie ne accaddero di ogni genere: drammatiche, di persecuzioni, uccisioni di massa, avventure al limite dell’incredibile, ecc. con questo non avrei finito ma al momento intendo fermarmi quì. Solo per lasciare la parola a loro, i ragazzi degli anni ‘43 e ‘45 che attraverso una piccola pubblicazione hanno deciso di ricordare qualcuno dei loro momenti per condividerli con i lettori che sperano siano essi i giovani d’oggi. Questo per chiarire gli inizi della nostra società democratica. Allego il libretto così come è stato trovato. Non credo di violare alcun copyright, qualora accadesse provvederò immediatamente a rimuoverlo”.