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Piacenza nel Risorgimento dai Prodromi all'Unità

“di Attilio Finetti”
La storia del Risorgimento a Piacenza può utilmente essere suddivisa in tre fasi secondo una periodizzazione che tiene conto dei fondamentali avvenimenti dell’epoca:
1) il periodo della occupazione napoleonica: 1796-1814;
2) il periodo della Restaurazione del potere degli Austriaci: 1814-1848;
3) il periodo del Risorgimento propriamente inteso: 1848-1861.
E’ evidente quindi che anche per la nostra città il Risorgimento affonda le sue radici storiche e culturali in avvenimenti, protagonisti e idee che si inquadrano nel contesto storico compreso tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, corrispondenti innanzi tutto a quella che gli storici chiamano l’ “Età napoleonica”. E’ opportuno iniziare da quegli anni il nostro percorso. Si avvisa che il presente testo è stato redatto in forma di appunti e che è stata consultata la bibliografia in calce.

Piacenza nella età Napoleonica

Il contesto storico generale: la prima campagna d’Italia e l’inizio dell’occupazione francese. Nell’ambito della prima campagna d’Italia, Napoleone Buonaparte sferra un’offensiva per conquistare la Lombardia. Proveniente da Nizza e passando per Tortona e Voghera, il generale francese per ingannare gli Austriaci finge di voler passare il Po presso Valenza, ma in realtà con abile deviazione prende Castel San Giovanni, quindi entra in Piacenza (7 Maggio 1796), ove passa il Po, per dirigersi poi a Fombio, sconfiggere gli austriaci, quindi entrare vittorioso in Milano. Il duca che governa i Ducati di Parma, Piacenza e Guastalla è Ferdinando II, appartenente al ramo dei Borboni di Spagna. Questi, basandosi su alcune clausole del Trattato di Basilea (1795) e fidando sul fatto che la Spagna è già uscita dalla coalizione antifrancese, spera in un atteggiamento benevolo di Napoleone nei suoi confronti. Tuttavia, timoroso della imprevedibilità del generale francese, tenta dapprima un’azione diplomatica, offrendogli collaborazione e buona accoglienza nei Ducati Il duca in realtà ha buoni motivi per temere l’ostilità francese: ha accolto alcuni nobili fuggiti dai pericoli della Rivoluzione Francese; ha stretto un patto, mantenuto segreto, con l’Austria, in base al quale questa può approvvigionarsi nei territori dei Ducati; obbliga i giovani parmensi e piacentini ad arruolarsi in Spagna; infine non si è mai fatto scrupolo di adottare una politica repressiva. Pertanto Ferdinando per ingraziarsi Napoleone invia a suo nome ad accoglierlo Pietro Cavagnari, che incontra il generale francese presso Voghera (5 Maggio 1796). Cavagnari è un piacentino, industriale della seta e banchiere, del quale il duca Ferdinando si è servito in precedenza per incarichi di tipo finanziario ed è il primo della nostra città a entrare in contatto con Napoleone. Di fronte alle parole concilianti di Cavagnari, come egli racconta nella sua Autobiografia, Napoleone, pur con il sorriso sulle labbra, non dà garanzie al duca, anzi minaccia di occupare Parma. Ordina inoltre l’arresto del Governatore di Piacenza, Dionigi Crescini, che egli ha chiamato a Castel San Giovanni. Ferdinando allora si rassegna a stipulare un armistizio (9 Maggio 1796), ratificato poi nella Pace di Parigi (5 Novembre).

Piacenza occupata dai Francesi.
A seguito dell’armistizio con Ferdinando, Napoleone impone il pagamento di un’alta indennità in denaro, la consegna di derrate alimentari e di 16 dipinti. A Piacenza, dove l’armata francese entra il 7 Maggio 1796, il Commissario di guerra francese Saliceti opera consistenti spoliazioni finanziarie ai danni della Cassa Civica e del Monte di Pietà. Napoleone pone la sua sede in Palazzo Scotti da Sarmato, dove rimane fino al 9 Maggio, scrivendo al Direttorio di trovarsi nella città più piacevole (agréable) d’Italia. In compenso trasforma Piacenza praticamente in una piazza d’armi, nella retrovia del fronte di guerra che egli spinge sempre più verso Milano. Sono sistemati due ospedali militari in S. Agostino e S. Sepolcro e vengono occupati il Castello e Piazza Cavalli. La città è percorsa da soldati francesi diretti al fronte e da soldati che tornano feriti per essere ricoverati dopo le battaglie in Lombardia e in Veneto: lo sconvolgimento deve essere stato notevole per i piacentini. Qualche anno dopo la seconda Coalizione antifrancese delle potenze europee impegna Napoleone in una serie di campagne militari tra il 1799 e il 1802. Sotto i colpi dell’esercito austro-russo i Francesi sono costretti a lasciare la Lombardia e abbandonano Piacenza, che viene temporaneamente rioccupata dagli Austriaci il 30 Aprile 1799, mentre è ricostruito il ponte sul Po distrutto dai Francesi in fuga. Il tutto sotto gli occhi dei piacentini esultanti. Tuttavia l’esercito francese passa ben presto al contrattacco: gli Austriaci ripiegano su Castel San Giovanni e si registrano violente battaglie lungo il fiume Trebbia, presso Rivalta, Gazzola e San Giorgio (17, 18, 19 Giugno 1799). Piacenza è di nuovo al centro della guerra: i feriti vengono ricoverati negli ospedali installati nelle chiese di S. Agostino, S. Sisto, S. Giovanni e S. Francesco. Si registrano saccheggi “banditeschi”, in cui si distinguono specialmente i soldati russi, il cui quartier generale è posto nel convento benedettino di S. Sisto. Le spoliazioni furono particolarmente pesanti nelle campagne, come a Campremoldo, S. Nicolò, Gossolengo, e non furono risparmiate chiese e canoniche. Alla fine i Francesi recuperano il terreno perduto e Napoleone, di ritorno dall’Egitto, conduce la seconda campagna d’Italia: la sua vittoria a Marengo consente ai Francesi, alla testa dal generale Gioacchino Murat, di rientrare a Piacenza il 7 Luglio 1800. Con il susseguente Trattato di Aranjuez (Marzo 1801) Francia e Spagna, senza neppure consultare Ferdinando di Borbone né tenere conto del suo posteriore dissenso, stabiliscono che i Ducati di Parma, Piacenza e Guastalla passino sotto il governo francese. A governare i Ducati giunge come rappresentante di Napoleone e da lui nominato il Consigliere di Stato Moreau de Saint Méry, che si insedia a Parma nel Settembre del 1800.

Il “giacobinismo” piacentino.
Le radici del Risorgimento nella nostra città affondano nel terreno della attività culturale di alcuni intellettuali che, pur operando in un contesto difficile, non hanno rinunciato a fare sentire la loro voce e a diffondere coraggiosamente le loro idee. Essi si nutrono dei principi diffusi a seguito della Rivoluzione francese e degli ideali di libertà e uguaglianza sociale della filosofia illuminista: il loro intento è quello di spezzare il potere del privilegio e di eliminare l’ingiustizia in ogni settore della vita sociale. Questi intellettuali si sono formati in una istituzione ecclesiastica, il Collegio Alberoni, dove l’insegnamento è aperto anche alla cultura laica e illuminista (l’altra, il Seminario, è ferma su posizioni più tradizionali). Essi sono Melchiorre Gioia, Gian Domenico Romagnosi, Giuseppe Poggi e Giuseppe Taverna e agiscono in un contesto dominato da una rigida censura borbonica che toglie qualunque libertà di espressione. Ma l’arrivo della ventata libertaria napoleonica, anche se si rivelerà poi ambigua, sveglia speranze e fiducia di far trionfare le nuove idee. Ad esempio: il dottore in legge Giuseppe Belcini già da tempo predica idee libertarie ai contadini di S. Lazzaro e, all’arrivo dei Francesi, pianta in città un “albero della libertà”, che poi sarebbe diventato il famoso “albero della cuccagna”, all’epoca era il simbolo della liberazione. Nell’Ottobre del 1796 egli inoltre raccoglie firme di piacentini per indirizzare alla Municipalità di Milano un memoriale in cui chiede aiuto per sottrarre Piacenza a Ferdinando di Borbone e dichiararla Repubblica. Arrestato dal governatore Crescini, è poi liberato grazie all’intervento francese sollecitato dal Gioia e dal Poggi. Attraverso quali canali si diffondevano le nuove idee? C’erano centri di discussione e, nonostante i polizieschi controlli, circolavano scritti, articoli, opuscoli di contenuto politico e ideologico. Ad esempio si diffondevano i cosiddetti “catechismi”, sorta di manualetti delle idee progressiste, elaborati sul modello dello scritto Istruzioni di un cittadino ai suoi fratelli meno istruiti, composto dal letterato padovano Melchiorre Cesarotti. Probabilmente la sede della tipografia dell’editore concittadino Gaetano del Maino era un luogo di ritrovo e discussione intellettuale, dato che il tipografo fu arrestato a seguito di un’azione repressiva (Marzo 1797) insieme ad altri sospetti giacobini: Filippo Buccella, il peltraio Giacomo Bolla e lo stesso Melchiorre Gioia. Furono poi tutti liberati per intervento di Napoleone (Novembre 1797): in particolare il Gioia in quanto vincitore di un concorso bandito nel 1796 dalla Amministrazione Generale lombarda. Le idee dovevano poi circolare anche attraverso fogli volanti, ma la propaganda non disdegnava di servirsi neppure del metodo delle scritte notturne apposte sui muri. Il clima di effervescenza ideologica e di agitazione è reperibile anche nelle testimonianze dei patrioti arrestati nel 1797 e registrati sui verbali del processo: così ad esempio Giacomo Bolla afferma che si parlava in città di progetti rivoluzionari in termini tali che anche i francesi presenti se ne mostravano scandalizzati. Il 23 Maggio 1796, dopo l’arrivo di Napoleone in Milano, è fondato in quella città il Giornale della società degli amici della libertà e dell’uguaglianza, sui fogli del quale si auspica la creazione di nuovi organismi municipali di tipo repubblicano. Su questo foglio intervengono con i loro scritti alcuni piacentini. Giuseppe Poggi vi scrive una Lettera ai popoli di Piacenza e Parma; l’avvocato Leonardo Cesare Loschi vi scrive sulle ingiustizie a Piacenza e indirizzerà al Direttorio una memoria proponendo un progetto per aggregare Parma e Piacenza alle libere città della Lombardia. Pure Melchiorre Gioia, che in seguito interverrà anche sul Monitore italiano e sulla Gazzetta nazionale, sporadicamente si esprime sul Giornale della Società, che funziona un po’ come foglio di espressione anche dei patrioti piacentini. Possiamo trarre una considerazione interpretativa. Gli intellettuali giacobini piacentini ebbero scarsa penetrazione tra la gente. La nobiltà, soprattutto parmense, resta preda della nostalgia dell’Antico Regime e pochi sono quelli che mostrano aperture progressiste. I popolani, specie i contadini, sono intellettualmente sotto l’influsso dei parroci, la cui autorità mantiene grande peso, e tranne alcuni (per esempio un sacerdote di nome Bruzzi) gli ecclesiastici sono di tendenza conservatrice ed ostile alle innovazioni. Salvo assumere atteggiamenti trasformisti, come il vescovo Cerati, che da posizioni filoborboniche passa a simpatizzare per i Francesi. Quindi i nostri giacobini, espatriati in Lombardia per motivi di sicurezza (come il Poggi, che subito si rifugia a Milano per non cadere arrestato) o perché in ogni caso quell’ambiente risulta più favorevole ad una azione culturale, hanno avuto una funzione più efficace a favore della Repubblica Cisalpina e solo marginale nell’ambito dei Ducati. Ciò però non sminuisce il loro ruolo di anticipatori del processo risorgimentale. Manca d’altra parte ancora una classe borghese che sia consapevole di un suo ruolo. Infine occorre notare che la azione dei giacobini nei Ducati si attiva quando ormai il giacobinismo francese è entrato in crisi dopo l’arresto dei capi rivoluzionari Babeuf e Buonarroti (Maggio 1796).

La rivolta per il rincaro del grano.
In un primo momento le autorità francesi sembrano offrire ai patrioti una speranza in senso liberale. Murat infatti chiede al governatore di Piacenza Crescini e da lui ottiene la liberazione di alcuni incarcerati per reati di opinione e di alcuni contadini di Gragnano arrestati per avere difeso le proprie donne dalle violenze seguite nelle campagne dopo le battaglie presso il Trebbia. Ma sono speranze immediatamente deluse. Infatti Napoleone sta imboccando l’indirizzo dittatoriale della sua politica e l’esigenza della alleanza con la Spagna lo distoglie dall’assumere posizioni troppo liberali nel gestire il governo dei Ducati. E così un decreto del generale Massena, collaboratore di Napoleone, pubblicato a Piacenza nel Luglio del 1800, nega qualunque appoggio agli eventuali rivoltosi e recita testualmente che i Francesi cooperano a “reprimere l’animosità dei sussurroni (così erano detti i patrioti sospetti) e di chiunque col titolo di patriotto… tenta di formare partito”. La posizione ambigua assunta dall’autorità francese nei confronti della popolazione si rivela pienamente in occasione della rivolta per il rincaro del grano, scoppiata a Piacenza proprio nel Luglio del 1800. Sabato 12 Luglio alcuni piacentini di bassa condizione economica si recano al mercato del grano in Piazza del Duomo con il libretto rilasciato loro dall’Ufficio dell’Annona per acquistare il grano a prezzo ridotto, ma trovano aumentato il prezzo. Son plebei, popolani e preti poveri e chiedono di abbassare il prezzo. Secondo le relazioni delle autorità alcune donne condotte dai “sommotori” (altro termine per indicare i rivoluzionari) guidano i rivoltosi e tra i popolani compaiono le coccarde tricolori per la prima volta. Viene assediato il palazzo del governatore e si tenta di liberare alcuni detenuti. Il generale francese interviene a disperdere i rivoltosi che si allontanano al grido significativo di “viva la repubblica”. Alcuni sono arrestati: Bernardi, Cella, Sbalbi, Bisi, Bissi, Beleni. Tuttavia la popolazione non recede dal pretendere l’acquisto del grano ad un prezzo minore e sono organizzati gruppi che controllano le vendite in città. Infine la Real Giunta d’Annona fissa il prezzo del grano a 24 lire a staio (contro le 20 richieste dal popolo). Perché è scoppiata la rivolta? Per l’intrecciarsi di una serie di concause: le requisizioni di derrate alimentari nelle campagne per nutrire le armate che si avvicendano sul suolo piacentino e i feriti ricoverati; le annate di raccolto scarso e la speculazione conseguente, che produce il rincaro del prezzo del grano. E’ uno dei primi esempi di ribellione nel territorio dei Ducati, non dettata da intendimento politico, ma da ragioni concretamente economiche di sopravvivenza.

Il governo di Moreau de Saint Méry e i Decreti napoleonici.
Dopo la morte di Ferdinando di Borbone, il rappresentante di Napoleone, Moreau de Saint Méry, con un proclama in data 28 Ottobre 1801 prende ufficialmente possesso dei Ducati quale Amministratore, sancendo così la sovranità francese sugli stessi. Il 26 Gennaio 1802 la Repubblica Cisalpina diventa Regno d’Italia. Moreau dà il via a una serie di riforme intese a conciliare la innovazione democratica con un moderato conservatorismo e ottiene l’appoggio della aristocrazia terriera e della borghesia mercantile. Non quello degli intellettuali, che hanno scelto di operare in contesto più favorevole: il Gioia è a Milano e il Poggi in Francia. Nel campo della amministrazione Moreau non stravolge, ma mantiene gli Organi di governo tradizionali. A Piacenza i cittadini superiori ai 20 anni sono iscritti da tempo a quattro classi che prendono nome dalle principali famiglie: Fontanesi, Landi, Scotti, Anguissola. Sussiste un Consiglio Generale, di origine comunale e rafforzatosi in epoca rinascimentale: ne fanno parte 36 membri superiori ai 25 anni e provenienti da ognuna delle classi. Sussiste anche una Giunta ristretta, detta Anzianato, formata da 8 membri (2/3 nobili e 1/3 borghesi) in carica per otto mesi. Al vertice amministrativo troviamo un Priore, a rotazione settimanale. Questi organi dipendono dall’autorità del Governatore. Le riforme di Moreau spaziano in vari campi. Lascia i Gesuiti nella Scuola di S. Pietro, l’assistenza ospedaliera alla cura del Vescovo. Elimina i privilegi di “manomorta”, riconosce i diritti agli Ebrei (esisteva a Fiorenzuola una comunità ebraica che gestiva filatoi), abolisce la tortura, instaura un nuovo regolamento per i tribunali, toglie l’appalto della riscossione delle imposte ai privati per riservarlo a organi dello Stato, inaugura il Nuovo Teatro e, infine, ha il merito di avere chiamato il Romagnosi alla Cattedra di Diritto Pubblico a Parma. Il processo di svecchiamento delle strutture amministrative e giuridiche nei Ducati viene proseguito dai Decreti di Napoleone, tra il 1805 e il 1806 (Napoleone Re d’Italia è a Parma in quell’anno). Con gli Editti emanati da Milano si hanno così importanti provvedimenti intesi alla modernizzazione dello Stato in senso democratico e alla soppressione dei residui di giurisdizione feudale: viene introdotto il Codice Civile Napoleonico (contemplava il divorzio); si ha la soppressione di ben 44 conventi (9 a Piacenza, i cui beni passano al Demanio nazionale), con istituzione di una pensione per i religiosi. Importante è la istituzione di un nuovo sistema di tribunali: tre di prima istanza (Piacenza, Parma, Fiorenzuola); 2 Corti di Giustizia criminale (Parma e Piacenza); unica Corte d’Appello a Genova; unica Cassazione a Parigi. Con gli Editti di Saint-Cloud (1805) e Verona (1806) Parma e Piacenza sono inquadrate nella 28^ Divisione Militare di Genova e viene istituito il Servizio di Leva obbligatorio: i primi 26 arruolati sono estratti a Piacenza a Palazzo dei Mercanti: inizia da questo momento un continuo atteggiamento di avversione alla leva nel territorio dei Ducati.

La Rivolta del 1806.
Nel quadro della Terza Coalizione antifrancese l’inizio dell’occupazione del territorio italiano si ha con lo sbarco a Napoli degli anglo-russi, che ben presto si presentano ai confini dei Ducati. E’ in questo ambito che si registra una importante rivolta iniziata nel piacentino e poi allargatasi a tutto l’Appennino. Il Principe Eugenio, nominato da Napoleone Vicerè del Regno d’Italia, per far fronte agli eserciti anglo-russi istituisce un Campo di Riserva tra Modena e Bologna e ordina requisizioni e reclutamenti. A Piacenza esiste, costituita in epoca comunale e rinascimentale, la Milizia Urbana e Forense, formata di 4 compagnie di fucilieri al comando di 4 membri della aristocrazia cittadina: Anguissola, Landi, Scotti e Paveri. Devono fornire l’ottava parte per la truppa del Campo di Riserva. Il contingente di Castel San Giovanni è al comando del colonnello Botti, il quale istiga i suoi soldati alla rivolta. Questa da semplice protesta di tipo militare diviene poi più complessa nelle sue motivazioni. Sono infatti chiamati a combattere lavoratori e artigiani che sono costretti a lasciare la loro professione senza compenso. La rivolta si estende sull’Appennino, dove bande di rivoltosi armati occupano Bobbio, Bardi, Stradella, Salso Minore, Lugagnano e Castell’Arquato, esprimendo la loro stanchezza per le continue requisizioni e spoliazioni condotte dalle truppe. I capi sono soprattutto osti, mulattieri, contadini, che si mimetizzano tra la popolazione. Ne prendono parte anche alcuni sacerdoti poveri, ma non borghesi e nobili, che con un loro comunicato a Napoleone si dissociano dalla rivolta insieme all’alto clero. Attraverso alcune lettere pastorali il Vescovo sollecita i parroci a spingere i “traviati” al pentimento e all’obbedienza. E’ evidente il carattere della rivolta, che è un esempio di ribellione per lo più contadina, sull’esempio delle jacqueries medioevali. Nella fase della repressione si registra qualche decina di morti, 21 condannati alla fucilazione e l’incendio del paese di Mezzano Scotti. Sono arrestati i parroci di Pradovera, Macerato e Pecorara; quest’ultimo sconterà due anni di carcere. Entrano in funzione in questo frangente i Tribunali Militari Speciali. Il Generale Junot, Governatore a Parma, per ordine di Napoleone toglie l’incarico di Amministratore dei Ducati a Moreau de Saint. Méry, accusato di non avere saputo far fronte in modo opportuno alla rivolta.

Il Governo dei Prefetti Nardon e Dupont Delport.
Dopo la destituzione di Moreau, i Ducati sono governati da due prefetti, sotto i quali continua l’opera di francesizzazione dell’amministrazione, sulla base tuttavia di un rinnovato concetto di verticismo e di centralizzazione, dovuto ai nuovi Decreti napoleonici. Nardon entra in carica il 1 gennaio 1806. In sintesi i suoi provvedimenti.
Nuova sistemazione amministrativa. I Ducati sono suddivisi in Dipartimenti, retti da un Prefetto, Circondari, retti da un Sottoprefetto, e Comuni, guidati da un Sindaco. Sono istituiti i corrispondenti Consigli. Il Circondario di Piacenza, sotto la direzione del Sottoprefetto Caravel, perde i territori di Monticelli d’Ongina e di Fiorenzuola, che vengono inclusi nel Circondario di Borgo San Donnino (Fidenza), terzo dopo Piacenza e Parma. Va perduto il Ducato di Guastalla, assegnato a Paolina Buonaparte Borghese, la quale lo venderà al Regno d’Italia per 6 milioni di lire milanesi. Si crea dunque l’istituzione del Consiglio Comunale e si elegge il Sindaco. A Piacenza il primo è il conte Alberto Douglas Scotti da Fombio, che già ha rivestito la carica di Priore. Sono Aggiunti (Assessori): per parte nobiliare Giovanni Battista Maggi e Giuseppe Costa e per parte popolare Pietro Faustini. Il potere esecutivo è naturalmente nelle mani del Prefetto. I Dipartimenti hanno diritto di eleggere deputati per il Corpo Legislativo (Camera e Senato) di Parigi. Così Piacenza esprime come deputati: G. Battista Maggi, il conte Douglas Scotti e Bernardino Mandelli; come Senatore è eletto Ranuccio Anguissola da Grazzano. Nel campo della amministrazione è introdotto il metodo dei “budget” (bilanci) comunali; si inizia la redazione del Catasto e si introduce lo Stato Civile per i censimenti, prima demandato alle parrocchie; si esegue la prima vaccinazione; si crea il Deposito di Mendicità, ove sono rinchiusi i poveri molesti e le prostitute malate o ribelli ai controlli; l’assistenza ospedaliera dal patronato vescovile passa ad un ente laico: la Commissione per gli Ospizi Civili e nasce così l’idea che l’assistenza è un fatto di interesse pubblico e che lo Stato deve farsene carico. Nel campo culturale e scolastico, la Scuola di S. Pietro è chiusa il 30 Luglio 1806. I Gesuiti sono soppressi per Decreto di Napoleone. L’organizzazione della Scuola ora dipende dallo Stato (Università Imperiale, come il nostro Ministero) e viene affidata al Comune. Il 26 Dicembre 1806 nasce il Collegio di Piacenza, scuola secondaria comunale, diretta da Giampaolo Maggi; vi insegna tra gli altri Giuseppe Taverna, che sarà chiamato a dirigere la scuola primaria, creata nel 1811. Alcune note urbanistiche. In ossequio a Napoleone Imperatore, piazza Cavalli è detta Piazza Napoleone, S. Francesco diventa S. Napoleone, lo Stradone Farnese si chiama Rue Friedland, via Taverna diventa Rue de la Réunion, infine il Pubblico Passeggio è dedicato a Maria Luigia, allora moglie di Napoleone. Non mancano i provvedimenti repressivi. Si crea un corpo di Polizia segreta per rendere capillare il controllo politico. Sono istituite due carceri speciali: Casa di reclusione in S. Sepolcro a Piacenza e una analoga a Parma. Due episodi significativi. Nel 1810 il sacerdote Luigi Malaspina insozza l’effige di Napoleone dipinta sulla casa del canonico Nichini, fanatico dell’Imperatore, in via Borghetto. Malaspina è detenuto per 6 mesi in S. Sepolcro. Nel 1812 122 preti romani sono incarcerati per non avere giurato fedeltà alla Costituzione dell’Impero Napoleonico. E’ attiva la censura della stampa: unico giornale ammesso è il Giornale del Taro, poi divenuto Gazzetta di Parma. Permane una certa tendenza al brigantaggio, dovuto alle leggi doganali che non permettono l’incremento del lavoro nel commercio, alla protesta per le continue requisizioni e alla renitenza alla leva militare. Da una Relazione del Prefetto Nardon si sa che dal Piemonte e dal Regno d’Italia confluiscono nel territorio dei Ducati dei contadini che, se non trovano lavoro, si danno al brigantaggio; si ha notizia di 11 evasi fuggiti dal campo di lavoro di Salsomaggiore, che non potendo lavorare si danno alla malavita e al vagabondaggio. Il prefetto Nardon è sostituito nell’Ottobre del 1810 da Enrico Dupont Delport che rimarrà a capo dei Ducati fino al 1813, data del rientro degli Austriaci. Alcuni importanti provvedimenti. Si tengono le prime elezioni (votano tutti i cittadini maschi maggiorenni) per eleggere i membri dei Collegi elettorali di Dipartimento, di Circondario e dei Consigli Comunali. Questi avrebbero poi designato i candidati al Senato e al Corpo Legislativo (Camera) di Parigi: sono eletti i piacentini Giuseppe Poggi, G. Battista Maggi, Pietro Cavagnari. Si promuovono lavori pubblici: sistemazioni degli argini del Po, costruzioni viarie, come la strada Piacenza-Genova via Bobbio. Si creano i Cantoni di Strada, istituzioni che hanno la cura delle strade nel territorio attraverso le figure dei “cantonieri”. Non cessa naturalmente l’azione di repressione e censura (i Francesi ora si sostituiscono ai Borboni). Sono soppressi tutti i conventi, tranne quello delle Teresiane. Si può stampare solo se autorizzati. Si sviluppa quindi notevolmente la stampa clandestina. Lo stampatore Mauro del Maino vorrebbe stampare Le ultime lettere di Jacopo Ortis, ma il libro figura tra le opere disapprovate, allora lo stampatore consegna al Sindaco l’esemplare. Si diffondono i “pamphlets”, foglietti manoscritti e affissi di notte in Piazza Cavalli presso il posto di guardia sotto i portici del Gotico, sul portale di S. Francesco e sullo scalone del palazzo della sottoprefettura (Camera di Commercio). Si pone una taglia di 100 franchi per la cattura degli autori di tali scritti, che però non furono mai catturati.

Qualche notizia su Melchiorre Gioia, Piacenza 1767 - Milano 1829.
Compie gli studi presso il Liceo S. Pietro e poi nel Collegio Alberoni. Inizia la carriera ecclesiastica e diviene sacerdote nel 1793, stabilendosi a Piacenza nella casa di un fratello. E’ insofferente del clima antiriformistico piacentino dominato dai Gesuiti. Culturalmente è influenzato dal Sensismo di Condillac, presente a Parma in quegli anni. Nel 1797 partecipa al concorso bandito dalla Amministrazione lombarda con il saggio sul tema Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia, ottenendo la vittoria che gli guadagna la scarcerazione. Nello scritto il Mazzini vedrà una chiara anticipazione dell’idea della Italia unita. Nello spirito del neoclassicismo dell’epoca, il Gioia rievoca la bellezza dell’eroismo dell’antichità classica, fatto di virtù e di spirito libero e fiero; integra tale atteggiamento con la passione per l’ideale rivoluzionario e libertario della sua epoca. Non crede nel dispotismo illuminato e ritiene che il consenso popolare sia la base necessaria su cui fondare lo Stato libero, da lui concepito come Repubblica, che deve nascere dall’apporto di tutti. E’ fautore di uno sviluppo economico che favorisca il benessere di tutti e non solo di gruppi privilegiati. Il suo messaggio è insieme indice di una decisa coscienza dell’unità nazionale e specchio delle esigenze della classe borghese in ascesa. Lo scritto suscita reazioni negative dell’ambiente della Corte e del Vescovo. Sul pensiero del Gioia in quegli anni possiamo dedurre interessanti notizie anche dai verbali tratti dalle carte sequestrate dalla polizia in occasione del suo arresto. Egli si dice impaziente di vedere il re francese Luigi XVI giustiziato, per liberare il popolo dalla schiavitù. Emerge anche il suo spirito anticlericale. In una lettera indirizzata a Napoleone, inoltre, accusa severamente il generale francese di essere stato troppo tenero con Ferdinando dopo l’armistizio, lo dice vile e iniquo, ammonendolo che la pace concessa ai tiranni è come una guerra dichiarata ai popoli, e che le catene della schiavitù non si spezzano se non distruggendo le monarchie. Nello stesso 1797, dopo la incarcerazione e la liberazione, si trasferisce a Milano, dove è stata istituita la Repubblica Cisalpina. Abbandona l’abito ecclesiastico e insieme a Foscolo fonda il Monitore Italiano (usciranno solo 6 numeri). Scrive su altri fogli, poi puntualmente soppressi. Gioia sfrutta la libertà di stampa in modo totale per diffondere le sue idee; accusa anche Napoleone e i francesi dopo il trattato di Campoformio, per i loro comportamenti non da liberatori, ma da occupanti. Nel 1799 chiede a Ferdinando di Borbone 8.000 lire quali indennizzo per la prigionia subita; è incarcerato di nuovo a Parma, poi trasferito a Piacenza ed è liberato dopo la vittoria napoleonica a Marengo nel Giugno 1800. Nell’operetta I francesi, i tedeschi, i russi in Lombardia protesta contro i saccheggi e le spoliazioni che danneggiano l’agricoltura e il commercio e denuncia le esose tassazioni imposte dagli occupanti. Nel 1801 torna a Milano, nominato storiografo della Repubblica e poi responsabile dell’Ufficio di statistica del Ministero dell’Interno. Uomo dal carattere spigoloso, talora sarcastico, lontano dal compromesso, si esprime con estrema libertà di parole. Definisce, ad esempio, Ferdinando di Borbone “un imbecille che dimanda a Dio perdono del tempo che dà agli affari di Stato”.

Qualche notizia su Giandomenico Romagnosi, Salsomaggiore 1761 - Milano 1835.
Studia presso i Gesuiti di Fidenza, poi nel Collegio Alberoni di Piacenza, infine Diritto a Parma. Nella nostra città svolse attività di notaio. Tra il 1789 e 1790 legge i suoi Ragionamenti, di contenuto anche politico, a Piacenza presso la Società letteraria, accademia di indirizzo tradizionale moderato, che ha sede prima nella chiesa di S. Maria in Gariverta e poi in palazzo Scotti di Vigoleno e le cui riunioni si tengono nei maggiori palazzi nobiliari piacentini. Nel 1791 scrive la sua opera fondamentale: Genesi del Diritto penale. Nello stesso anno è chiamato a Trento con l’incarico di Podestà, svolgendo anche attività di consulenza legale. Quando nel 1796 i Francesi occupano Trento, invia al Senato Municipale un programma di riforme per l’amministrazione della giustizia e per l’istruzione pubblica. Sorvegliato dagli austriaci e imprigionato (1799) per alto tradimento, è liberato per intervento dell’Imperatore Francesco I. Nel 1803 è a Parma come docente di Diritto Pubblico e viene consultato per la stesura di alcuni articoli del Codice Napoleonico. Nel 1806, a Milano, insegna nella Scuola di alta legislazione (poi soppressa nel 1817). Il centro del suo messaggio è che il Giusnaturalismo, cioè l’idea che esistono per natura diritti umani inviolabili, deve essere il punto di partenza per ogni considerazione politica. Dal 1813, dopo il ritorno degli austriaci a Milano, si batte per diffondere il principio di un governo democratico, che attui la giustizia e diffonda l’educazione, governo possibile soltanto sulla base della realizzazione della integrità nazionale: anticipa così l’idea di unità nazionale, nella operetta Costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa. Sua la definizione di “patriottismo” come “volontà di ingerenza negli affari comuni”. Nel 1821 riceve in visita il Pellico ed è accusato di omessa denuncia: al processo pronuncia la sua autodifesa e viene assolto. Nell’ultimo periodo scrive opere di argomento politico-filosofico e pedagogico. Nel 1832 compone Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento con esempio del suo risorgimento in Italia: vi espone l’idea del progresso delle società umane che culmina nella realizzazione della “nazione”. Nel 1834 diviene membro della Accademia delle Scienze morali e politiche di Parigi. Alla sua morte gli austriaci vietano ogni monumento alla sua memoria.

Piacenza nella età della Restaurazione


la grande Italia - opera di Pacifico Sidoli

Il contesto storico generale.
Per Età della Restaurazione si intende il periodo che segue al dominio napoleonico in Francia e in Europa. Sconfitto definitivamente Napoleone a Waterloo (1815), le potenze europee si preoccupano di riportare la situazione politica allo “status” precedente la tempesta napoleonica, seguendo i due principi fondamentali che caratterizzano la storia ideologica e politica del periodo: il principio dell’equilibrio (evitare un secondo sconvolgimento quale è stato quello napoleonico) e il principio del legittimismo (riportare sul trono i legittimi regnanti spodestati). L’età della restaurazione è dunque un periodo di ritorno alla mentalità conservatrice, alla repressione delle idee libertarie, alla censura della libera espressione culturale, ma è anche la fase storica in cui i semi gettati da alcuni intellettuali nel periodo napoleonico vengono a frutto e preparano la fase del pieno Risorgimento. Quale è la situazione a Piacenza? Il ritorno dell’autorità austriaca nei Ducati è scandita in due fasi. La prima vede come regnante l’Imperatore Ferdinando I d’Asburgo, che governa provvisoriamente come delegato per la figlia Maria Luigia, cui il territorio dei Ducati è stato assegnato dai trattati di pace firmati a Parigi, a Vienna e a Fontainebleau dopo la sconfitta di Napoleone. La seconda fase corrisponde al governo di Maria Luigia stessa e inizia nel 1816.

Il ritorno degli austriaci.
Dopo la sconfitta subita da Napoleone a Lipsia (Ottobre 1813) per opera della VI^ Coalizione antifrancese, la guerra si trasferisce di nuovo in Italia. Qui il Principe Eugenio assume il comando militare di Parma e Piacenza. E di nuovo Piacenza si trasforma in una piazza militare. Sono riaperti gli ospedali per i soldati feriti nei conventi soppressi. Più di 20.000 soldati, tra francesi e italiani dell’armata del Regno d’Italia, sono presenti in città. Il generale austriaco Nugent occupa Parma, ma un’offensiva partita da Piacenza la libera. Poi gli Austriaci vincono a Reggio ed entrano a Piacenza il 27 Aprile 1814, mentre la città è solennemente illuminata a festa e al Teatro si accoglie con grida di giubilo il generale Nugent. Si forma un Governo Provvisorio diretto dai conti Douglas Scotti e G. Battista Anguissola. Una riflessione si impone: la continuità della classe dirigente è un dato evidente: Douglas Scotti è stato l’ultimo Priore di Piacenza, poi il primo Sindaco, quindi sostituto del Sottoprefetto Caravel, ora è Governatore Provvisorio, e sarà Governatore effettivo dal 1 Gennaio 1817. E’ la classe nobile che fornisce i protagonisti dell’amministrazione; la borghesia invece non ha ancora una sua identità e una sua forza da rivendicare. Quanto al popolo, si esprime prevalentemente per far valere i suoi bisogni materiali di sopravvivenza, come negli episodi di rivolta segnalati. Unico esempio di elemento borghese impegnato è Paolo Foresti, commerciante e proprietario, che è stato l’ultimo Sindaco di Piacenza sotto il Governo francese.

Il governo di Ferdinando I Imperatore d’Austria.
L’Austria è stata favorita dai trattati, in quanto riceve in Italia i seguenti possessi: il Milanese e la Lombardia, la Repubblica di Venezia, la Valtellina e il Trentino. Resta il Piemonte a fungere da oppositore della politica austriaca in Italia settentrionale. E il ruolo di Piacenza si rivelerà ben presto importante nell’appoggio alla realtà piemontese. Nel periodo di Governo Provvisorio funziona nei Ducati la Commissione amministrativa, che provvede a sopprimere il francese come lingua diplomatica ufficiale e la coscrizione militare obbligatoria. Quando poi l’imperatore Ferdinando assume il potere nomina come suo collaboratore il Ministro di Stato Pier Francesco Magawly Cerati (Agosto 1814). Si registra immediatamente un provvedimento poco gradito: un inasprimento delle imposte, che provoca l’ostilità dei proprietari terrieri nei confronti del governo austriaco. I Ducati sono organizzati in due partizioni governative: una che comprende Parma e Guastalla (recuperata) e la seconda Piacenza. Nella nostra città si susseguono come Governatori Ferdinando Cornacchia, Giambattista Maggi, poi Alberto Douglas Scotti. Una data importante è il 4 Maggio 1814: il Consesso Civico (Consiglio Comunale) vota una Petizione diretta alle grandi potenze europee per chiedere di scorporare Piacenza da Parma e per aderire allo Stato milanese. E’ il primo indizio di una volontà politica di separazione da Parma che gli uomini di governo piacentini mostreranno in seguito con atti più decisi e che condurrà la nostra città ad aderire con tempestività al progetto di annessione allo Stato piemontese. Per quanto riguarda l’ambito economico, si registra una situazione abbastanza critica dovuta al blocco delle esportazioni, che provocherà al rialzo dei prezzi e a conseguenti proteste e disordini, culminati in alcuni arresti. Si procede alla redazione del Catasto e si cura la riduzione del debito pubblico. Sono istituite a Parma e a Piacenza le Sale di Lavoro: quella nella nostra città entra in funzione in Palazzo Farnese il 13 Gennaio 1817 (fino al 1821). E’ gestita dal Comitato do Beneficienza e offre lavoro a circa 1000 persone tra tessitori e filatori. Per aiutare famiglie in difficoltà economica si decidono distribuzioni di farina, melica e patate, che avvenivano in S. Agostino.

Il governo di Maria Luigia e le ripercussioni dei moti del 1820-21.
Il governo dei Ducati passa da Ferdinando d’Asburgo alla figlia Maria Luigia il 7 Marzo 1816. L’entrata solenne si ha il 19 Maggio per la visita alla città, dove è accolta dalle due delegazioni separate di Piacenza e Parma. Nell’occasione visita anche il filatoio della famiglia Piatti, esempio del progresso della classe borghese in sviluppo. Mancano invece ad accogliere la duchessa gli intellettuali e ciò è significativo. Il governo è sdoppiato in due Dicasteri, quello dell’Interno e quello delle Finanze, i cui ministri sono alle dipendenze del generale Adamo Neipperg, collaboratore, e poi marito, di Maria Luigia nel ruolo di Segretario di Stato. Vengono promulgati i nuovi Codici Parmensi (1820). Avvenimenti importanti sono anche la istituzione della Camera di Commercio (1817) e del Gabinetto di Lettura (1820) con sede in palazzo Paveri, via Poggiali 24, nell’ambito del quale si distingue l’attività animatrice di Pietro Giordani nel campo culturale.
Pietro Giordani, Piacenza 1774 - Parma 1848, compie studi giuridici a Parma, in ambiente permeato dalle idee dell’Illuminismo e del Sensismo, assorbendo così una educazione di tipo materialistico e meccanicistico. Nel 1797 entra in convento alla ricerca di esperienze di pace e serenità, ma ne esce nel 1803, avendo elaborato una mentalità chiaramente anticlericale. A Bologna insegna Eloquenza e scrive un Panegirico a Napoleone, esaltandolo come promotore di benessere e pace. Nel 1815 nel clima della restaurazione a Milano collabora con la Biblioteca Italiana, organo di stampa filoaustriaco, pubblicando interventi di difesa della funzione della letteratura nella promozione del progresso morale e civile. Dal 1818 è a Piacenza e svolge una importante funzione di animatore culturale nell’ambito del Gabinetto di Lettura. Nel 1824 a Firenze entra in contatto con gli intellettuali del Gabinetto Vieusseux e nel 1830 ritorna a Parma. I moti rivoluzionari scoppiati in Piemonte nel biennio 1820-21 hanno scarse ripercussioni nel territorio dei Ducati. Essi si presentano come fermenti di intellettuali e studenti isolati dal resto della popolazione, che assiste nella indifferenza. E’ certo che dalla Lombardia molti venivano ad acquistare fogli liberali come il Costituzionale e il Giornale delle due Sicilie, che erano letti e commentati nel Gabinetto di Lettura. Inoltre risulta dalle relazioni della polizia milanese che il Commissario di polizia nei Ducati, Antonio Guglieri, si comporta in modo troppo tenero nei confronti dei rivoltosi, forse per il fatto di intrattenere rapporti di amicizia con il Giordani. In occasione della repressione seguita a questi avvenimenti si registra di nuovo la carcerazione a Milano di Melchiorre Gioia e di Romagnosi, in seguito liberati. Il Neipperg fa arrestare anche alcuni sospettati di far parte di sette carbonare: l’avvocato Pietro Gioia, nipote di Melchiorre, accusato di carboneria e comunismo e di essere membro della setta dei Sublimi Maestri Perfetti sotto il nome fittizio di Anco Marzio; e insieme a lui il notaio Mensi e il cancelliere Bazzini. Assolto per mancanza di prove, grazie anche al fatto che Maria Luigia volle che gli arrestati fossero giudicati da giudici parmensi e non austriaci, Pietro Gioia rivestirà ruoli amministrativi importanti: sarà Segretario della Camera di Commercio e pubblicista attivo nel diffondere idee risorgimentali. Fu posta sotto controllo la tipografia Del Maino, centro intellettuale importante a Piacenza, e fu chiuso il “Gabinetto di Lettura”, definito dalle autorità “fornello del liberalismo”. Venne imposto un nuovo giuramento per gli impiegati pubblici e per i membri dell’Anzianato (1823), secondo la cui formula si giurava di “non appartenere a nessuna società pubblica e privata contraria ai principi e interessi della Augusta Sovrana”. Si registrano in questo clima almeno due note positive: nel 1825 vengono inaugurati i ponti sul Trebbia e sul Nure e viene ristrutturato il Teatro Municipale su progetto di Lotario Tomba.

Le ripercussioni dei moti del 1830-31.
Il 22 Febbraio 1829 il barone Giuseppe Werklein, che già il Metternich ha affiancato a Maria Luigia come suo Segretario particolare, sostituisce il Neipperg nel ruolo di collaboratore di governo. Werklein imprime alla politica amministrativa una virata nettamente di carattere poliziesco e inquisitivo. Questa atmosfera è adatta al sorgere di fenomeni di protesta anche violenta, che del resto trova terreno fertile alla notizia dei moti rivoluzionari scoppiati nella vicina Modena. Così nel Febbraio del 1831 a Parma hanno inizio agitazioni studentesca, che degenerano presto in un moto di ribellione nei confronti di Maria Luigia, che lascia Parma e si rifugia a Piacenza, dove resterà per 7 mesi in Palazzo Mandelli. Concede in compenso alcuni alleggerimenti fiscali e la possibilità di avere maggiore rappresentanza nel Consiglio di Stato. A Parma si insedia un Governo Provvisorio, che dura meno di un mese; viene arruolata una forza militare costituita di cittadini; a guidare gli studenti ribelli c’è un piacentino: Alessandro Pioselli. Lo scontro con l’esercito austriaco proveniente da Piacenza si ha a Fiorenzuola il 25 Febbraio 1831. Dopo la vittoria gli Austriaci, temporaneamente cacciati da Parma, possono rientrare in città. Anche Maria Luigia vi fa ritorno in Agosto, concedendo l’amnistia per i capi degli insorti (tra cui Filippo Linati e Francesco Melegari), tranne che per i condannati in contumacia. Termina così questo episodio rivoluzionario parmense, fallito per disorganizzazione, inesperienza e improvvisazione, e soprattutto, per mancanza di appoggio popolare. Piacenza non è stata toccata ed è rimasta fedele a Maria Luigia, ma, come poi si dirà con ironia e come la stessa duchessa affermerà scrivendo al Metternich, la fedeltà piacentina è dovuta al fatto che il generale austriaco Geppert ha tenuto la città sotto tiro di 70 cannoni e sotto il controllo di 3.000 baionette pronte a intervenire all’occorrenza. Nell’Agosto del 1833 il Metternich invia come collaboratore di Maria Luigia il conte Charles de Bombelles, che diviene poi il suo terzo marito. In questa fase il governo austriaco tenta di risanare il bilancio statale, grazie al piano finanziario varato dal barone Vincenzo Mistrali. Si procede alla pubblicità dei bilanci e alla riduzione delle spese per il mantenimento della Corte e il ricavato viene devoluto a opere pubbliche e alla riorganizzazione della istruzione. Come risposta ai moti parmensi viene inasprita la repressione poliziesca e si intensifica il controllo sulla libertà dei stampa, sulla cultura e sulla scuola. Viene imposto il giuramento di non fare parte di società segrete per chi riveste incarichi pubblici. Per dar corso al nuovo assetto del sistema scolastico è formata una Commissione, di cui fa parte anche il piacentino don Giuseppe Veneziani. Il carico finanziario delle riforme scolastiche pesa sui bilanci dei Comuni. Nel Giugno del 1836 i Gesuiti sono ammessi a tornare nella Scuola di S. Pietro. Ma l’avversione dei cittadini nei confronti dei Gesuiti è tale che nel 1839 402 cittadini sottoscrivono una petizione per il loro allontanamento, che avverrà nel 1848. Tutto questo nel clima di pensiero liberale che era diffuso a Piacenza, rappresentato soprattutto da Giuseppe Taverna, Alfonso Testa, Carlo Fioruzzi, Pietro Gioia, Giacomo Morigi e Carlo Uttini. Nel 1841 viene istituito il primo asilo in S. Agostino, con sottoscrizione di numerosi cittadini di mentalità liberale e per iniziativa dei dottori Antonio Rebasti e Cesare Martelli, che nel 1844 si faranno promotori della Società degli asili d’infanzia. L’iniziativa è dettata da uno spirito filantropico laico e razionalista, che viene avversato dal clero. Nel periodo della restaurazione austriaca, in un clima di sostanziale repressione, bisogna tuttavia riconoscere a Maria Luigia alcuni positivi atteggiamenti: protesse per quanto possibile letterati e artisti, non pronunciò mai condanne capitali e pretese nei processi l’indipendenza dei giudici.
la Rivoluzione del Quarantotto e Piacenza "Primogenita"


la consegna dei risultati delle votazioni

I moti del Quarantotto nei Ducati di Parma e Piacenza.
La grande fiammata rivoluzionaria che incendia mezza Europa nel 1848 non ha ripercussioni particolarmente violente nel territorio dei Ducati sul piano militare, ma produce tuttavia una serie di atti decisivi per il Risorgimento piacentino: la nostra città infatti è la prima a scegliere l’annessione al Piemonte, mentre Parma lo farà quindici giorni dopo. Il 31 Dicembre 1847 a Maria Luigia succede Carlo Ludovico di Borbone con il nome di Carlo II. I primi suoi atti di governo non sono certo inclini a suscitare simpatie nella popolazione. Per sanare i suoi debiti, il nuovo sovrano praticamente svende il Ducato di Guastalla, detto “granaio” dei Ducati per la ricchezza della sua produzione agricola, dandolo in permuta al Duca di Modena e al Granduca di Toscana e ricevendo in cambio terre di valore di gran lunga inferiore. Inoltre nel Febbraio 1848 stipula una Convenzione militare con l’Austria in base alla quale questa occupa piazzeforti nei Ducati e può disporre dei relativi territori. Per il resto l’azione di Carlo II oscilla tra una moderata repressione e un atteggiamento vagamente liberale: lascia maggiore libertà alla circolazione della stampa, libera l’istruzione dal monopolio dei Gesuiti, ma in compenso vieta l’uso delle coccarde tricolori e ordina di non indossare cappelli all’italiana. Quando il 20 Marzo 1848 scoppiano a Parma le prime proteste popolari si hanno scontri con le truppe e morti e feriti tra i civili. Il Duca allora si affretta a mostrare un atteggiamento liberale, dichiara di volere concedere uno Statuto di tipo monarchico costituzionale (come è già avvenuto in altre città italiane) e nomina una Reggenza di cinque cittadini, tra cui figurano i piacentini Giuseppe Mischi e, soprattutto, Pietro Gioia, colui che rivestirà un ruolo importante negli avvenimenti risorgimentali piacentini.

La scelta annessionista di Piacenza.
E’ in questo contesto che si inquadra la scelta di Piacenza di staccarsi definitivamente da Parma e di optare per l’annessione al Piemonte. Questa decisione filopiemontese è la conseguenza di una serie di relazioni già da tempo intessute tra la nostra città e l’ambiente lombardo e piemontese, relazioni sia economiche sia, soprattutto, sociali e culturali. Ad esempio, numerosi aristocratici piacentini frequentano l’Accademia militare di Torino. Viene introdotto nel territorio dei Ducati il giornale Il Risorgimento, fondato da Cavour nel 1847, a cui collaborano Pietro Gioia e Vincenzo Maggi. Ma in primo luogo ha giocato un ruolo fondamentale l’azione del Gabinetto di Lettura animato dal Giordani, le cui idee, insieme a quelle del Romagnosi, hanno contribuito a indirizzare l’opinione pubblica verso l’ideale di uno stato unitario e laico, non di tipo federalista e neoguelfo, e neppure repubblicano radicale, ma monarchico costituzionale. Da notare che esistono due giornali di opposto indirizzo ideologico: uno, l’ Eridano, che appoggia seppure moderatamente l’azione patriottica, e il Tribuno, che invece è ostile a Pietro Gioia. Il primo atto importante è il distacco di Pietro Gioia dalla Reggenza di Parma. A Piacenza il 26 Marzo 1848, giorno in cui gli Austriaci hanno lasciato la città, il Consesso civico (Consiglio comunale) elegge sindaco Fabrizio Gavardi e costituisce un Governo provvisorio, di cui fanno parte, tra gli altri, Antonio Anguissola, don Antonio Emmanueli e Pietro Gioia stesso. Di fronte alle proteste di Parma per il distacco, il Consesso civico piacentino risponde che ormai Piacenza è libera e si riunirà a Parma soltanto quando anch’essa sarà libera dal controllo dei Borboni. Il Governo provvisorio compie una serie di atti, alcuni dei quali significativi: dà avvio a lavori pubblici, promuove una politica protezionistica in favore dell’industria della seta e rifornisce i mercati di grano, curandone il controllo dei prezzi; promuove la libertà di stampa e i Gesuiti vengono allontanati dalla scuola; viene rafforzata la Guardia civica e istituita la Milizia cittadina, il cui primo comandante è il marchese Luigi Volpe Landi. Grande entusiasmo determina la venuta a Piacenza di Gioberti e Garibaldi. Viene costituita una truppa di volontari, i cosiddetti “Crociati”, al comando di Pietro Zanardi Landi (il quale si accolla le spese per la paga dei soldati), che combatterà in Lombardia. Una seconda spedizione nel 1849 sarà al servizio del governo della Toscana. Ma il provvedimento di gran lunga più determinante è l’indizione del plebiscito, che, nella percentuale del 98% dei votanti, sancisce l’adesione al Piemonte; l’esito del plebiscito viene solennemente proclamato il 10 Maggio 1848 in S. Francesco. Una delegazione formata da Pietro Gioia, Fabrizio Gavardi, Antonio Rebasti si reca al campo militare di Sommacampagna per presentare ufficialmente a Carlo Alberto l’esito della votazione plebiscitaria, poi ratificato dal Parlamento piemontese e che guadagna a Piacenza il titolo di “La Primogenita” d’Italia. Da Torino giungono poi i Commissari regi a governare i Ducati. Si introduce lo Statuto Albertino e si indicono elezioni politiche in Giugno per eleggere i deputati al Parlamento piemontese. Mentre per il plebiscito sono ammessi a votare anche gli analfabeti, in questo caso è ammesso a votare, secondo la legge, ogni cittadino maschio che ha compiuto 25 anni, gode dei diritti civili, è alfabetizzato e abbia un reddito definito (20 Lire in Liguria e in Savoia, 40 in Piemonte). Tra i deputati piacentini eletti spicca ancora Pietro Gioia. Questi si fa notare nel nuovo ruolo per la sua proposta di abolire le dogane tra gli stati aderenti al Piemonte, ma anche per la richiesta di intervento armato per sedare una ulteriore rivolta popolare causata dal rincaro del grano e dal permanere di una condizione economica precaria delle masse dei cittadini.

La fase conclusiva del Risorgimento a Piacenza
Il ritorno dei Borboni e il Decennio preunitario 1849-1859.
Gli avvenimenti incalzano e non sono favorevoli alla causa rivoluzionaria: dopo la sconfitta di Custoza (Luglio 1848), il Piemonte firma con l’Austria l’armistizio Salasco, che consente agli Austriaci di ritornare nel territorio dei Ducati. Al loro rientro vengono emanate dal generale Thurn Ordinanze repressive, che impongono forti contribuzioni economiche, prevedono la pena di morte per i sobillatori e proibiscono nel modo più assoluto manifestazioni politiche. Viene chiusa anche la dogana principale di porta Borghetto, con grave danno per le esportazioni e per il commercio. E’ questo pertanto un ulteriore duro periodo per i nostri patrioti, alcuni dei quali esiliano volontariamente in Piemonte, e per i membri del Governo provvisorio. Il Commissario regio piemontese si trasferisce a Castel San Giovanni e a Piacenza restano a opporsi al regime poliziesco austriaco il Consiglio e il podestà Gavardi. In seguito, com’è noto, Carlo Alberto scioglie il Parlamento nel Gennaio 1849 e indice nuove elezioni; data la occupazione austriaca, a Piacenza i seggi elettorali sono trasferiti a Pontenure e a Sant’Antonio. Per Piacenza sono confermati i candidati liberali, tra cui il Gioia, e nel collegio elettorale di Bardi viene eletto il poeta Giovanni Berchet. Nel frattempo il 14 Marzo 1849 Carlo II di Borbone abdica in favore del figlio, che assume la sovranità nei Ducati con il nome di Carlo III. Nell’attesa del suo arrivo e dopo la sconfitta piemontese a Novara, il governo è saldamente nelle mani del generale austriaco barone d’Aspre, che riafferma l’unità dei Ducati e istituisce una amministrazione formata da due Giunte, ma di carattere sostanzialmente unitario nel governo: è questa una chiara ritorsione nei confronti della scelta separatista di Piacenza. La politica di Carlo III di Borbone si dimostra insensata oltre che reazionaria. La sua mania militarista lo induce a mantenere stabilmente a Piacenza una guarnigione di 6.000 uomini; istituisce una Guardia pretoriana e procede alla militarizzazione anche della Polizia, intensificando i controlli repressivi. Sostituisce la normale detenzione con la “pena del bastone” anche per i reati comuni come gli schiamazzi notturni e la diffusione di scritti sovversivi. Applica la legislazione di guerra a ogni tipo di reato, anche d’opinione. Concede l’amnistia per alcuni membri dei governi rivoluzionari, ma non a Pietro Gioia, che viene bandito dal territorio dei Ducati con apposita ordinanza nel Maggio del 1849. Sopprime le scuole superiori sia a Parma che a Piacenza per impedire che gli insegnanti trasmettessero “massime perverse e sovvertitrici” e fa chiudere il Collegio Alberoni, ritenuto focolaio di idee liberali. Istituisce una Commissione per procedere all’esame degli insegnanti in vario modo compromessi con i fatti del 1848: ad alcuni viene diminuito lo stipendio, altri vengono licenziati. Tra questi gli avvocati Carlo Fioruzzi, Carlo Giarelli e il dottore Giovanni Rebasti. Fioruzzi e Giarelli e Vincenzo Maggi, collaboratore del Risorgimento del Cavour, insieme ad altri, vengono anche arrestati per cospirazione contro il sovrano e poi rilasciati dopo un mese. Giordani è morto nel 1848 e il Gabinetto di Lettura viene perquisito e rimane aperto soltanto grazie all’intervento del Governatore Pallavicino. Il culmine della repressione si ha nel 1850, quando il Consiglio Comunale stesso viene d’autorità sciolto e sostituito in tutti i suoi membri. In tali condizioni di estrema repressione la cospirazione non può che lavorare in sintonia con gli ambienti piemontesi e infatti molti patrioti emigrano a Torino, come Angelo Genocchi: insegnante di Diritto romano, di fede repubblicana, lascia Piacenza per Torino dopo la battaglia di Custoza. Il governo di Carlo III ha termine con la sua morte violenta: il 26 Marzo 1854 viene ucciso pugnalato da Antonio Carra in un agguato, frutto di una congiura i cui responsabili probabilmente hanno legami con gli esuli parmigiani in Piemonte. Il governo è assunto dalla vedova Luisa Maria, con la quale collaborano i membri di un Triumvirato, di sicura fedeltà nei confronti dei Borboni. Nello stesso anno viene compiuto da parte di alcuni rivoltosi di Fiorenzuola il tentativo di fare insorgere la popolazione a Parma; i ribelli, probabilmente di fede mazziniana, sono guidati da Leonzio Armelonghi, un avvocato di Monticelli.

La liberazione e l’unità.
E’ questa l’avvisaglia di sommovimenti decisivi che scoppiano a Parma all’inizio del Maggio 1859. Si tratta di un vero e proprio colpo di stato: un gruppo di rivoltosi di fede repubblicana in nome del Re di Sardegna impone al marchese Pallavicino, collaboratore della duchessa, di cedere i poteri. Si instaurano una Giunta rivoluzionaria e una Commissione governativa. Viene istituita la Guardia Civica secondo l’ordinamento del Regno di Sardegna e da Torino giunge il Commissario regio Diodato Pallieri. In seguito a tali fatti e anche per il timore suscitato dalle sollevazioni delle città toscane, promosse dagli aderenti alla Società Nazionale, la duchessa Luisa Maria abbandona Parma il 9 Giugno 1859. I successivi avvenimenti politici si verificano parallelamente alla campagna militare franco-piemontese in Lombardia, che porta alle vittorie sugli Austriaci a Magenta, Solferino e S. Martino nel Giugno 1859. A Piacenza da tempo si registra la diffusione sempre più capillare di opuscoli e manifesti provenienti dal Piemonte, grazie all’azione dei fuoriusciti piacentini là rifugiati: Gioia, Genocchi e Freschi. Ma soprattutto è da sottolineare che anche nel nostro territorio si diffonde la presenza della Società Nazionale, i cui comitati segreti sono animati e diretti dall’avvocato Giuseppe Manfredi, figura che rivestirà un ruolo chiave nella fase decisiva del processo risorgimentale piacentino. Aderiscono a tali comitati sia elementi borghesi, sia popolani e operai, come Antonio Labò, che si adopera a introdurre armi dal Piemonte e a diffondere copie del Piccolo corriere Italiano, fondato dal La Farina, sull’onda delle sconfitte subite in Lombardia ad opera dell’esercito franco-piemontese, gli Austriaci lasciano Piacenza: ben 8.000 soldati escono dalla città, attraverso le Porte Fodesta e Borghetto comandati dal generale Gyulai il 10 Giugno 1859. Piacenza può dirsi libera militarmente e pronta per unirsi al Regno di Sardegna: la sera stessa si bruciano in città gli stemmi austro-borbonici. Pietro Gioia richiama i piacentini alla decisione presa nel 1848: il 10 Giugno il Consiglio Comunale rinnova il voto di annessione già espresso in quell’anno (seconda votazione plebiscitaria) e al governo dei Ducati viene chiamato Giuseppe Manfredi, rifugiatosi nel frattempo a Torino per evitare l’arresto. Il Commissario regio Pallieri giunge nella nostra città il 17 Giugno. La strada sembra sin troppo piana. In effetti l’inaspettato armistizio di Villafranca (13 Luglio 1859) sancisce una pausa nel processo risorgimentale, le cui ripercussioni si avvertono anche a Piacenza. In città tuttavia molti accorrono ad affiggere sui muri migliaia di biglietti che inneggiano a “Vittorio Emanuele nostro Re”. Nelle strade illuminate si riversano frotte di cittadini in festa insieme ai soldati francesi e le grida sono inequivocabili: la cittadinanza vuole stare unita al Piemonte. Viene esposto sotto il palazzo del Comune un albo recante le firme di più di 5.000 cittadini che fanno omaggio al Re. Il Consiglio Comunale delibera all’unanimità una comunicazione indirizzata a Vittorio Emanuele in cui si esprime la volontà di affidarsi a lui per l’avvenire. Ma in ottemperanza al dettato dell’armistizio il governo piemontese richiama i Commissari regi presenti nei Ducati. Tuttavia il Commissario Pallieri prima di lasciare la città nomina suo sostituto Manfredi, che assume il governo provvisorio in nome del popolo. E’ in questo delicato frangente che il nostro concittadino mostra la sua capacità decisionale e operativa. Nella situazione di vuoto di governo Manfredi, praticamente dittatore per investitura del Commissario piemontese, ma non legittimato nel suo potere dalla volontà popolare, si fa promotore di un ulteriore plebiscito (il terzo) secondo il principio dell’autodeterminazione dei popoli, di ispirazione nettamente risorgimentale e mazziniana. Pertanto l’Anzianato, dopo il voto di annessione deliberato dai comizi elettorali, chiede nuovamente e ufficialmente l’unione al Regno di Sardegna e i vari Consigli municipali votano l’adesione delle popolazioni. La fase finale del processo è ormai innescata. Nel Settembre 1859 Luigi Carlo Farini, già dittatore delle province modenesi e succeduto al Manfredi (18 Agosto) anche nei Ducati parmensi, costituisce una Assemblea dei Rappresentanti del popolo, formata da 63 membri, di cui 5 piacentini tra i quali figura Manfredi stesso; l’11 Settembre Carlo Fioruzzi pronuncia il discorso con cui viene ufficialmente dichiarata decaduta la dinastia dei Borboni; il 12 Settembre viene votata formalmente l’annessione al Regno di Sardegna; è inviata a Torino la Commissione che comunichi l’esito della votazione. Dal 17 Settembre si introduce lo Statuto Albertino e Farini indice le elezioni per esprimere i deputati alla Costituente italiana. Il 30 Novembre vengono soppressi i governi separati di Parma e Piacenza. Il 5 Febbraio 1860 il primo Sindaco di Piacenza nominato dal Re di Sardegna, il conte Faustino Perletti, indice le elezioni per rinnovare i Consigli Comunali e Provinciali; i consiglieri comunali sono eletti nel numero di 40 nelle sei sezioni di San Pietro, Sant’Eufemia, San Savino, Santa Brigida e San Donnino. L’11 e 12 Marzo il plebiscito per l’annessione viene esteso anche all’Emilia e alla Toscana, che vengono dichiarate annesse il 15 Marzo; il 25 Marzo dello stesso anno sono indette elezioni politiche dalle quali negli otto collegi piacentini (compresa Bardi) escono eletti alcuni esponenti liberali fra cui Pietro Salvatico, Camillo Piatti e Pietro Gioia. Tra Gennaio e Febbraio 1861 vengono fondate la Cassa di Risparmio e l’Associazione Operaia Piacentina.

Piacenza e la spedizione dei Mille.
Piacenza ha dato un notevole contributo alla spedizione garibaldina per la liberazione dell’Italia meridionale dal dominio borbonico. Singoli piacentini hanno raggiunto i primi Mille in occasione di successive spedizioni: Alessandro Ballerini, Riccardo Botti, il conte Carlo Douglas Scotti, Enrico Ferrari, Lisimaco Ganna, Gaetano Pedegani, Giacomo Vitali. Tuttavia nell’Elenco ufficiale alcuni nostri concittadini figurano come partecipanti della prima impresa sin dalla fase iniziale. Il più noto è Giovanni Maria Damiani. Nato a Piacenza nel 1832, partecipò a tutti i combattimenti del 1848 e combatté nel Marzo 1849 a Novara (dove cadde il fratello Sigismondo). Nella notte tra il 14 e 15 Agosto 1853 riuscì con l’aiuto di un amico a issare sulla piazza dei Cavalli una bandiera tricolore, che sventolò all’alba davanti agli occhi dei corpi di guardia austriaci. Sospettato e perseguitato dalla polizia borbonica, fuggì a Londra, dove incontrò Mazzini, quindi al suo ritorno fece parte della schiera dei patrioti inviati dal Mazzini nell’Italia centrale con il compito di sollecitare le popolazioni di quelle zone ad insorgere. Infine egli divenne capo delle Guide a cavallo, il corpo che costituiva la “guardia d’onore” del generale Garibaldi. Lo scrittore e garibaldino Giuseppe Cesare Abba, nel suo Diario della spedizione dei Mille intitolato Da Quarto al Volturno parla più volte di Damiani. In particolare lo descrive nella mischia della battaglia di Calatafimi mentre sul suo cavallo impennato riesce ad afferrare e strappare un nastro della bandiera di Valparaiso. E’ tra i primi a entrare in Palermo con Garibaldi, proteggendolo insieme a Nievo e Bixio. Durante lo scontro del Volturno salva Garibaldi da un agguato, accorrendo con 60 suoi soldati. Damiani combatté ancora nello scontro di Aspromonte, fu arrestato a Napoli, si guadagnò una delle sue due medaglie al valore nella battaglia di Bezzecca. Terminate le imprese militari, tornò alla vita civile con un modesto incarico di economo all’Università di Bologna, dove fu onorato dall’amicizia di Carducci e Pascoli. Si tolse la vita il 7 Novembre 1908 e Pascoli pronunciò un discorso in sua memoria nel primo anniversario della sua morte. Di Carlo Luigi Baderna si sa che, nato a Castel San Giovanni nel 1834, al suo ritorno dalle imprese militari risiedette con la moglie a Fontana Pradosa di Castel San Giovanni, dove svolgeva la professione di merciaio. Prima di partecipare alla spedizione garibaldina si arruolò nel Corpo militare dei “Cacciatori delle Alpi” e forse si guadagnò tre medaglie al valore nella campagna militare del 1859. Combatté ancora con Garibaldi in Trentino nella campagna del 1866. Altri inclusi nell’Elenco ufficiale dei Mille sono i seguenti. Giovanni Campi: musicante girovago nativo di Monticelli d’Ongina, arruolato nella 1^ compagnia Bixio. Giuseppe Vecchio: di Trebecco di Nibbiano (allora in provincia di Pavia), probabilmente bracciante agricolo, si imbarcò a Quarto con i Mille, ma non si hanno notizie circa il suo operato nella spedizione. Luigi Bay: nato a Lodi, ma residente a Piacenza, probabilmente combatté anche ad Aspromonte e alla Bezzecca; quando si imbarcò con i garibaldini a Quarto nel Maggio 1860 aveva appena compiuto 15 anni. Infine sono da segnalare due piacentini che, pur non inclusi nell’Elenco ufficiale, risulterebbero aver partecipato all’impresa dei Mille secondo alcune fonti. Sono i seguenti. Pietro Pecchioni: nativo di Sarmato, subì il carcere e la tortura avendo partecipato nel Luglio 1854 alla insurrezione parmense a seguito dell’uccisione di Carlo III di Borbone; si arruolò nel corpo dei “Cacciatori delle Alpi” e partecipò alla spedizione Zambianchi negli Stati pontifici, quindi partecipò in Sicilia al combattimento di Milazzo. Carlo Frattola: di incerta provenienza, sarebbe morto nella battaglia di Calatafimi.

Monumenti dedicati a Piacenza ad alcuni personaggi di spicco del Risorgimento.
Il monumento a Gian Domenico Romagnosi fu commissionato dal Comune allo scultore Cristoforo Marzaroli entro il 1866. Non fu mai inaugurato ufficialmente (forse per evitare eventuali dissensi e disordini, visto che Romagnosi per la Chiesa era in odore di eresia), ma fu scoperto furtivamente nella notte del 18 Novembre 1867, grazie forse al gesto di un popolano. La statua, trasferita nel cortile della scuola Alberoni durante la costruzione del Terzo Lotto (1958), fu ricollocata nel punto ove ora si trova nel 1966, per iniziativa della Famiglia Piasintëina. A Pietro Gioia è dedicato un monumento in S. Francesco, tempio dove egli proclamò l’annessione di Piacenza al Piemonte nel 1848 e dove furono celebrate per lui solenni esequie il 20 Luglio 1865. Un busto di marmo, opera dello scultore Vittoriano Ferraro, fu inaugurato il 30 Ottobre 1949 nell’atrio della Biblioteca Comunale. Il monumento ad Angelo Genocchi è un busto bronzeo opera di Oreste Labò, inaugurato una prima volta nel 1902 nell’atrio della Biblioteca Comunale e di nuovo inaugurato nel 1938 presso i Giardini Margherita. Il monumento a Pio IX fu realizzato grazie ad una sottoscrizione voluta dal Vescovo Scalabrini, che a Pio IX era legato da amicizia; il Papa aveva cara Piacenza anche perché Crema, la città dove risiedeva la sua famiglia, apparteneva alla Diocesi piacentina. La statua, opera del senese Dupré, fu inaugurata il 29 Maggio 1880 in Duomo nella navata sinistra e fu poi collocata all’esterno del fianco sinistro della Basilica. Il monumento a Mazzini è un busto opera di Enrico Astorri, realizzato nel 1889, posto in un tempietto presso i Giardini Margherita e ora al Museo del Risorgimento della nostra città. Il monumento a Garibaldi, anch’esso opera di Astorri, inaugurato nel Giugno del 1889 e collocato nei Giardini Margherita sotto la statua del Garibaldino. A Piacenza era attiva con sede in via S. Giovanni 12 la Società Garibaldi dei Reduci delle Patrie Battaglie. Alcuni interventi urbanistici segnano Piacenza come città appartenente all’Italia libera e unita. Nel 1861 è costruito il primo ponte di legno sul fiume Po. Si registra nel triennio 1857-59 un intensificarsi dei progetti di modifiche e restauri di Palazzo Gotico. Nella seduta del Consiglio Comunale del Novembre 1860 l’allora Sindaco conte Faustino Perletti, nella imminenza del trasferimento delle carceri in S. Lorenzo, fa approvare il progetto di restauro generale del Palazzo. Entro il 1863 sono realizzati i seguenti interventi: restauro dello scalone, copertura del tetto, riforma della torretta nord-est, demolizione della torre campanaria al centro, ricostruzione della merlatura. Sono sistemate ora sotto i portici del Palazzo, lato est, le lapidi dei caduti nei combattimenti del 1848-49 e 60-61, accanto a quelle dei caduti nella guerra ad Abba Garima (1896), nella guerra libica e nella Grande Guerra del 1915-18.
“si ringrazia l'Archivio di Stato di Piacenza e piacenzaprimogenita150.it ".


Bibliografia utilizzata:
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