Turisti del Passato
Piacenza e i piacentini nelle impressioni di viaggiatori del passato
(tra il 1581 e il 1929)
di Cesare Zilocchi
(tra il 1581 e il 1929)
di Cesare Zilocchi
Questa raccolta è stata messa insieme incontrando, più o meno casualmente, le valutazioni dei viaggiatori di passaggio a Piacenza. Avendo il solo scopo di tenere un personale taccuino di appunti, mi riesce difficile ora risalire a tutti i contributi e rendere una puntuale menzione bibliografica. C’è però un’opera dalla quale ho preso molto. Si tratta di due volumi editi da il Mulino nel 1986: “Viaggi e Viaggiatori del Settecento in Emilia e in Romagna” a cura di Giorgio Culatelli.
1581-Michel Eyquem Montaigne.
Francese, aristocratico, scrittore, filosofo, magistrato, è noto come autore di un unico libro: gli “Essais”. Visitò la penisola tra il settembre del 1580 e il novembre del 1581. Sostò a Piacenza sulla via del ritorno. Il suo diario del “Viaggio in Italia”, è stato pubblicato dall’editore Laterza nel 1972 e nel 1991.
Provenendo da Fidenza (Borgo San Donnino) percorre una bellissima strada, fra sterminate pianure fertilissime. Ormai vicino a Piacenza nota due colonne grandi ai lati della strada, distanti fra loro 40 passi. Al piede delle colonne è scritto in latino il divieto di edificare, piantare alberi e vigne tra di essi. Non capisce-Montaigne-se l’ordine miri a lasciare sgombra la strada solamente per la sua larghezza o se davvero il divieto riguardi lo spazio fra le colonne e la città-che ne è distante mezzo miglio-al fine di tener scoperta la pianura come essa si presenta. In città arriva martedì 24 ottobre e la visita per tre ore. Vede strade fangose e non lastricate. Case piccole. La Piazza è la grandezza della città, dove ci sono il palazzo di Giustizia e le prigioni. D’intorno botteghe di nessun conto. Il castello ha una guarnigione di 300 spagnoli mal pagati e il duca non ci mette mai piede, preferendo alloggiare nella cittadella. Concludono le note del diario non esserci a Piacenza nulla di meritevole d’esser veduto se non il nuovo edificio di Sant’Agostino, ancora incompleto ma di buon principio. Magnifico il convento e i chiostri che ospitano 70 frati. Questo edificio gli pare il più sontuoso e magnifico mai visto in altro luogo “per servizio di chiesa”. Lo impressiona pure il fatto che i monaci mettano in tavola il sale in massa e il formaggio in un gran pezzo, senza piatto (formaggio del tutto simile a quello piacentino che si vende ovunque). Lascia Piacenza l’indomani di buonora in direzione di Pavia.
Nota:l’ordine inciso al piede delle colonne mirava, naturalmente, a tener sgombra la pianura intorno alle mura per ragioni militari (la cosiddetta “tagliata”). Lungo la via emilia parmense, all’altezza dell’ex quartiere fieristico, una colonna-malmessa-ancora esiste e reca al piede la disposizione cui allude il Montaigne. Meriterebbe una protezione migliore, dal momento che alcuni anni or sono fu da ignoti asportato il capitello. Interessante il riferimento alla tipicità del formaggio grana e al lussureggiare della campagna di contro all’inopia della città. Cittadella era chiamata al tempo la residenza ducale che noi oggi indichiamo come Palazzo Farnese.
Francese, aristocratico, scrittore, filosofo, magistrato, è noto come autore di un unico libro: gli “Essais”. Visitò la penisola tra il settembre del 1580 e il novembre del 1581. Sostò a Piacenza sulla via del ritorno. Il suo diario del “Viaggio in Italia”, è stato pubblicato dall’editore Laterza nel 1972 e nel 1991.
Provenendo da Fidenza (Borgo San Donnino) percorre una bellissima strada, fra sterminate pianure fertilissime. Ormai vicino a Piacenza nota due colonne grandi ai lati della strada, distanti fra loro 40 passi. Al piede delle colonne è scritto in latino il divieto di edificare, piantare alberi e vigne tra di essi. Non capisce-Montaigne-se l’ordine miri a lasciare sgombra la strada solamente per la sua larghezza o se davvero il divieto riguardi lo spazio fra le colonne e la città-che ne è distante mezzo miglio-al fine di tener scoperta la pianura come essa si presenta. In città arriva martedì 24 ottobre e la visita per tre ore. Vede strade fangose e non lastricate. Case piccole. La Piazza è la grandezza della città, dove ci sono il palazzo di Giustizia e le prigioni. D’intorno botteghe di nessun conto. Il castello ha una guarnigione di 300 spagnoli mal pagati e il duca non ci mette mai piede, preferendo alloggiare nella cittadella. Concludono le note del diario non esserci a Piacenza nulla di meritevole d’esser veduto se non il nuovo edificio di Sant’Agostino, ancora incompleto ma di buon principio. Magnifico il convento e i chiostri che ospitano 70 frati. Questo edificio gli pare il più sontuoso e magnifico mai visto in altro luogo “per servizio di chiesa”. Lo impressiona pure il fatto che i monaci mettano in tavola il sale in massa e il formaggio in un gran pezzo, senza piatto (formaggio del tutto simile a quello piacentino che si vende ovunque). Lascia Piacenza l’indomani di buonora in direzione di Pavia.
Nota:l’ordine inciso al piede delle colonne mirava, naturalmente, a tener sgombra la pianura intorno alle mura per ragioni militari (la cosiddetta “tagliata”). Lungo la via emilia parmense, all’altezza dell’ex quartiere fieristico, una colonna-malmessa-ancora esiste e reca al piede la disposizione cui allude il Montaigne. Meriterebbe una protezione migliore, dal momento che alcuni anni or sono fu da ignoti asportato il capitello. Interessante il riferimento alla tipicità del formaggio grana e al lussureggiare della campagna di contro all’inopia della città. Cittadella era chiamata al tempo la residenza ducale che noi oggi indichiamo come Palazzo Farnese.
1688-Francois Maximilien Misson.
Giurista ugonotto, consigliere del parlamento a Parigi, viaggiò in Italia come precettore del conte d’Arran. Nel 1691 uscì il suo Nouveau voyage d’Italie, una guida di successo, ristampata più volte.
Di ritorno dal Grand Tour (così veniva chiamato il giro a scopi culturali delle grandi città italiane: Milano, Venezia, Firenza, Roma, Napoli) arriva Piacenza, risalendo la via Emilia. Dice che da Parma a Piacenza ci sono 35 miglia e che lungo il percorso si incontrano paesi di nessun interesse. Piacenza è una città gradevole e ben costruita, le case sono prevalentemente in mattoni e piuttosto basse; più grande di Parma però spopolata. Notevole gli appare il Corso (chiamato Stradona) costeggiato di 300 colonnotti per lato, distanti l’un l’altro 10 piedi, così che in totale fanno 3.000 piedi. Salito sul campanile più alto [il Duomo?] Misson scopre un paesaggio ammirevole, specialmente lungo il corso del Po, fino a Cremona, città che si distingue chiaramente benché distante 20 miglia. Le fortificazioni, che i piacentini vantano, secondo il viaggiatore francese non sono un granché. Annota che il pomoerium è segnato da pali di confine entro cui non si può costruire e che le monete, le misure e i pesi di Piacenza sono differenti da quelli in uso a Parma. Delle opere d’arte piacentine, Misson dedica una citazione alle statue equestri della Piazza, ai dipinti del Carracci nel Duomo e alla Madonna di Raffaello in San Sisto.
Nota:il Corso, o Corso delle carrozze, era detto lo Stradone Farnese. Misson, col nome di pomoerium allude alla “tagliata”, che non era delimitata da pali ma da colonne di granito. Una-originale-è arrivata fino a noi e si trova sulla via Emilia Parmense, a destra verso San Lazzaro (forse ve n’è una seconda, più tarda, in via Farnesiana, a sinistra presso l’incrocio con via Radini Tedeschi). Il pomoerium era lo spazio sacro e lasciato libero, all’interno e all’esterno delle mura di Roma. Il piede corrispondeva a 30,4 cm e il miglio a 1481 metri (circa).
Giurista ugonotto, consigliere del parlamento a Parigi, viaggiò in Italia come precettore del conte d’Arran. Nel 1691 uscì il suo Nouveau voyage d’Italie, una guida di successo, ristampata più volte.
Di ritorno dal Grand Tour (così veniva chiamato il giro a scopi culturali delle grandi città italiane: Milano, Venezia, Firenza, Roma, Napoli) arriva Piacenza, risalendo la via Emilia. Dice che da Parma a Piacenza ci sono 35 miglia e che lungo il percorso si incontrano paesi di nessun interesse. Piacenza è una città gradevole e ben costruita, le case sono prevalentemente in mattoni e piuttosto basse; più grande di Parma però spopolata. Notevole gli appare il Corso (chiamato Stradona) costeggiato di 300 colonnotti per lato, distanti l’un l’altro 10 piedi, così che in totale fanno 3.000 piedi. Salito sul campanile più alto [il Duomo?] Misson scopre un paesaggio ammirevole, specialmente lungo il corso del Po, fino a Cremona, città che si distingue chiaramente benché distante 20 miglia. Le fortificazioni, che i piacentini vantano, secondo il viaggiatore francese non sono un granché. Annota che il pomoerium è segnato da pali di confine entro cui non si può costruire e che le monete, le misure e i pesi di Piacenza sono differenti da quelli in uso a Parma. Delle opere d’arte piacentine, Misson dedica una citazione alle statue equestri della Piazza, ai dipinti del Carracci nel Duomo e alla Madonna di Raffaello in San Sisto.
Nota:il Corso, o Corso delle carrozze, era detto lo Stradone Farnese. Misson, col nome di pomoerium allude alla “tagliata”, che non era delimitata da pali ma da colonne di granito. Una-originale-è arrivata fino a noi e si trova sulla via Emilia Parmense, a destra verso San Lazzaro (forse ve n’è una seconda, più tarda, in via Farnesiana, a sinistra presso l’incrocio con via Radini Tedeschi). Il pomoerium era lo spazio sacro e lasciato libero, all’interno e all’esterno delle mura di Roma. Il piede corrispondeva a 30,4 cm e il miglio a 1481 metri (circa).
stradone farnese e caserma ferdinando di savoia
1700-Claude Jordan (De Colombier).
Scrittore, libraio, editore francese, sostenne di aver viaggiato molti anni all’estero, maturando l’esperienza necessaria ad arricchire le memorie lasciategli da un amico. E’ possibile invece che abbia molto millantato e di persona non sia mai passato da Piacenza. I suoi “Voiages historiques de l’Europe” vennero pubblicati in otto volumi (il terzo dedicato all’Italia).
Piacenza, seconda città del ducato, deve probabilmente il suo nome al territorio fertile sul quale è costruita, in riva al fiume Po. Riferisce che sulla piazza principale si ammira la statua equestre in bronzo raffigurante Alessandro Farnese e inoltre la fontana fatta costruire da Giulio Cesare. Cita un luogo, a ovest della città, dove si dice che Sant’Antonio precipitasse un fuoco dal cielo,facendo morire dei soldati rei di aver irriso il suo nome.
Nota:Il fatto che Jordan (detto de Colombier), “veda” una sola statua equestre sulla Piazza principale lascia supporre che lui a Piacenza non abbia mai messo piede. La località a ovest di Piacenza dove avvenne l’improbabile rogo dei soldati irriguardosi è la frazione cittadina di Sant’Antonio, comune autonomo fino al 1923. Quanto alla fontana di Giulio Cesare, sembra una curiosa bufala destinata ad avere fortuna per molti successivi anni. Ne parleremo diffusamente.
Scrittore, libraio, editore francese, sostenne di aver viaggiato molti anni all’estero, maturando l’esperienza necessaria ad arricchire le memorie lasciategli da un amico. E’ possibile invece che abbia molto millantato e di persona non sia mai passato da Piacenza. I suoi “Voiages historiques de l’Europe” vennero pubblicati in otto volumi (il terzo dedicato all’Italia).
Piacenza, seconda città del ducato, deve probabilmente il suo nome al territorio fertile sul quale è costruita, in riva al fiume Po. Riferisce che sulla piazza principale si ammira la statua equestre in bronzo raffigurante Alessandro Farnese e inoltre la fontana fatta costruire da Giulio Cesare. Cita un luogo, a ovest della città, dove si dice che Sant’Antonio precipitasse un fuoco dal cielo,facendo morire dei soldati rei di aver irriso il suo nome.
Nota:Il fatto che Jordan (detto de Colombier), “veda” una sola statua equestre sulla Piazza principale lascia supporre che lui a Piacenza non abbia mai messo piede. La località a ovest di Piacenza dove avvenne l’improbabile rogo dei soldati irriguardosi è la frazione cittadina di Sant’Antonio, comune autonomo fino al 1923. Quanto alla fontana di Giulio Cesare, sembra una curiosa bufala destinata ad avere fortuna per molti successivi anni. Ne parleremo diffusamente.
palazzo farnese e la magia del tricolore
1695-Charles Bourdin.
Di lui si sa solo che fece un lungo viaggio dalla Normandia a Parigi, poi in Germania, Svizzera e Italia, dove entrò da Domodossola. Arrivò a Piacenza proveniente da Pavia.
Dice che Piacenza è sul Po e da Piacenza comincia la via Emilia. Trova belle strade e palazzi di pregio. Descrive in toni ammirati il Palazzo Ducale e il Palazzo di Giustizia. Affascinanti i monasteri, abitati da un alto numero di monaci, specialmente quello di Sant’Agostino. Apprezza le poderose fortificazioni della città e la Cittadella. Fa cenno ai resti di un antico castello.
Nota.Bourdin afferma d’esser venuto in Italia spinto non da impulsi culturali ma per trattare un importante affare. Si definisce ecclesiastico ma non vuol dare altre notizie di sè. Sostiene di aver scritto le sue note di viaggio per gli amici. Sotto le loro insistenze avrebbe poi acconsentito di darle alle stampe. Si capisce comunque che è un ammiratore dell’ Italia mentre degli altri paesi visitati attraversati nel viaggio non ha tratto buone impressioni. Palazzo Ducale è il Farnese e Palazzo di Giustizia il Gotico. Dei resti di un antico castello non sapremmo dire.
Di lui si sa solo che fece un lungo viaggio dalla Normandia a Parigi, poi in Germania, Svizzera e Italia, dove entrò da Domodossola. Arrivò a Piacenza proveniente da Pavia.
Dice che Piacenza è sul Po e da Piacenza comincia la via Emilia. Trova belle strade e palazzi di pregio. Descrive in toni ammirati il Palazzo Ducale e il Palazzo di Giustizia. Affascinanti i monasteri, abitati da un alto numero di monaci, specialmente quello di Sant’Agostino. Apprezza le poderose fortificazioni della città e la Cittadella. Fa cenno ai resti di un antico castello.
Nota.Bourdin afferma d’esser venuto in Italia spinto non da impulsi culturali ma per trattare un importante affare. Si definisce ecclesiastico ma non vuol dare altre notizie di sè. Sostiene di aver scritto le sue note di viaggio per gli amici. Sotto le loro insistenze avrebbe poi acconsentito di darle alle stampe. Si capisce comunque che è un ammiratore dell’ Italia mentre degli altri paesi visitati attraversati nel viaggio non ha tratto buone impressioni. Palazzo Ducale è il Farnese e Palazzo di Giustizia il Gotico. Dei resti di un antico castello non sapremmo dire.
1697-Francois Deseine.
Sembra che Deseine abbia molto viaggiato e soggiornato in Italia. Dall’esperienza, più che un diario di viaggio ricavò una guida con la descrizione di itinerari interessanti dal Piemonte alla Sicilia, infarcendola di notizie, curiosità, valutazioni economiche,informazioni demografiche e politiche intorno ai vari stati italici. Il suo “Nouveau voyage d’Italie” fu pubblicato a Lyon nel 1699.
Piacenza è così chiamata in virtù della ridente posizione, immersa in una campagna fertile e ricca. Signoreggiata dai duchi Farnese, è sede vescovile. Qui nacque papa Gregorio X, al secolo Tedaldo Visconti. La città conta 25.000 abitanti, è ben fortificata e munita di un castello a cinque bastioni. Ha belle piazze e nella maggiore spiccano i gruppi equestri in bronzo dei duchi Alessandro e Ranuccio Farnese. Vede strade ampie e dritte nonchè numerose fontane, una delle quali fatta costruire da Giulio Cesare. Fra le chiese cita il Duomo con il dipinto di Ludovico Carracci e altre pregevoli opere; Madonna di Campagna con tele del Giorgione; San Sisto con la Madonna del Raffaello; altre cose di pregio in Santa Maria di Piazza e San Lorenzo. Ma la chiesa più bella-a suo dire-è Sant’Agostino dei canonici regolari lateranensi.
Note.Che si sappia in Santa Maria di Campagna non c’è un Giorgione ma un grosso quadro raffigurante San Giorgio che uccide il drago (del Sojaro). E che si sappia Piacenza non è mai stata città di fontane. Su quella mitica di Giulio Cesare ci soffermeremo più avanti.
Sembra che Deseine abbia molto viaggiato e soggiornato in Italia. Dall’esperienza, più che un diario di viaggio ricavò una guida con la descrizione di itinerari interessanti dal Piemonte alla Sicilia, infarcendola di notizie, curiosità, valutazioni economiche,informazioni demografiche e politiche intorno ai vari stati italici. Il suo “Nouveau voyage d’Italie” fu pubblicato a Lyon nel 1699.
Piacenza è così chiamata in virtù della ridente posizione, immersa in una campagna fertile e ricca. Signoreggiata dai duchi Farnese, è sede vescovile. Qui nacque papa Gregorio X, al secolo Tedaldo Visconti. La città conta 25.000 abitanti, è ben fortificata e munita di un castello a cinque bastioni. Ha belle piazze e nella maggiore spiccano i gruppi equestri in bronzo dei duchi Alessandro e Ranuccio Farnese. Vede strade ampie e dritte nonchè numerose fontane, una delle quali fatta costruire da Giulio Cesare. Fra le chiese cita il Duomo con il dipinto di Ludovico Carracci e altre pregevoli opere; Madonna di Campagna con tele del Giorgione; San Sisto con la Madonna del Raffaello; altre cose di pregio in Santa Maria di Piazza e San Lorenzo. Ma la chiesa più bella-a suo dire-è Sant’Agostino dei canonici regolari lateranensi.
Note.Che si sappia in Santa Maria di Campagna non c’è un Giorgione ma un grosso quadro raffigurante San Giorgio che uccide il drago (del Sojaro). E che si sappia Piacenza non è mai stata città di fontane. Su quella mitica di Giulio Cesare ci soffermeremo più avanti.
1699-Bernard de Montfaucon.
Monaco benedettino, partì da Lione e viaggiò in Italia (col padre) uscendo dagli itinerari classici. A guidarlo fu l’interesse per i musei, le biblioteche, i luoghi dov’erano conservati testi antichi, specialmente quelli portati in Italia dai greci dopo la caduta di Costantinopoli. Il suo “Diarium italicum sive monumentorum veterum bibliothecarum musaeorum” venne edito a Parigi nel 1702.
Il viaggiatore si ferma a Piacenza solo nel ritorno allo scopo di visitare la chiesa di San Sisto con la tomba della regina Angilberga, il monumento funebre di Margherita d’Austria, madre di Alessandro Farnese, e la Madonna Sistina di Raffaello.
Note.Probabile che il colto benedettino venga a sapere in Italia della chiesa abbaziale di San Sisto, tenuta dai confratelli benedettini fino al 1425 (poi dai cassinensi di Santa Giustina). Di qui la sosta a Piacenza nel tragitto di ripasso verso la Francia. Del resto proprio mentre Monfaucon compie il suo viaggio, Giovanni Setti termina di intagliare l’immensa cornice lignea barocca destinata ad accogliere appunto la Madonna Sistina (oggi impreziosisce la copia dell’Avanzini).
Monaco benedettino, partì da Lione e viaggiò in Italia (col padre) uscendo dagli itinerari classici. A guidarlo fu l’interesse per i musei, le biblioteche, i luoghi dov’erano conservati testi antichi, specialmente quelli portati in Italia dai greci dopo la caduta di Costantinopoli. Il suo “Diarium italicum sive monumentorum veterum bibliothecarum musaeorum” venne edito a Parigi nel 1702.
Il viaggiatore si ferma a Piacenza solo nel ritorno allo scopo di visitare la chiesa di San Sisto con la tomba della regina Angilberga, il monumento funebre di Margherita d’Austria, madre di Alessandro Farnese, e la Madonna Sistina di Raffaello.
Note.Probabile che il colto benedettino venga a sapere in Italia della chiesa abbaziale di San Sisto, tenuta dai confratelli benedettini fino al 1425 (poi dai cassinensi di Santa Giustina). Di qui la sosta a Piacenza nel tragitto di ripasso verso la Francia. Del resto proprio mentre Monfaucon compie il suo viaggio, Giovanni Setti termina di intagliare l’immensa cornice lignea barocca destinata ad accogliere appunto la Madonna Sistina (oggi impreziosisce la copia dell’Avanzini).
1700-De Rogissart.
Non si sa se-e quando-M. De Rogissart viaggiò in Italia. Si sa che il suo “Les delices de l’Italie” (in tre tomi) fu pubblicato ad Amsterdam nel 1700 e a Parigi l’anno seguente. Si tratta di una specie di guida turistica articolata su alcuni itinerari e corredata di piantine delle maggiori città, fra cui Piacenza. La prosa dell’autore ridonda di entusiasmo per l’Italia.
Piacenza è città di mercanti, grande e popolosa, sulle rive del Po. Presenta molte cose interessanti come la fontana di Cesare Augusto, le fortificazioni militari, la Cittadella. belle chiese quali Santa Maria di Campagna, Sant’Antonino, San Giovanni, San Sisto, Sant’Agostino. Notevoli i palazzi delle famiglie nobili: i Landi, gli Scotti, gli Anguissola. La campagna piacentina è fertilissima e vi si producono ottimi vini e formaggi. Nel territorio di pertinenza esistono fonti di acqua salata, miniere di ferro, boschi da legname, riserve di caccia. Il clima salubre favorisce la longevità degli abitanti. Piacenza è ricca di corsi d’acqua e di storia, in ragione delle potenze che hanno ambìto signoreggiarla, fino all’attuale ducea dei Farnese.
Note.Fondato è il sospetto che questo De Rogissart di cui non si sa quasi nulla (del nome abbiamo solo l’iniziale) descriva cose che in realtà non ha visto. Torna la famosa fontana, stavolta attribuita all’imperatore Augusto. Le miniere di ferro e le fonti di acqua salata per l’estrazione del sale erano fuori dai soliti itinerari. Soprattutto la questione del clima salubre e della longevità degli abitanti sembra in odore di conoscenza meramente libresca (ne aveva parlato Plinio a proposito di Velleia).
Non si sa se-e quando-M. De Rogissart viaggiò in Italia. Si sa che il suo “Les delices de l’Italie” (in tre tomi) fu pubblicato ad Amsterdam nel 1700 e a Parigi l’anno seguente. Si tratta di una specie di guida turistica articolata su alcuni itinerari e corredata di piantine delle maggiori città, fra cui Piacenza. La prosa dell’autore ridonda di entusiasmo per l’Italia.
Piacenza è città di mercanti, grande e popolosa, sulle rive del Po. Presenta molte cose interessanti come la fontana di Cesare Augusto, le fortificazioni militari, la Cittadella. belle chiese quali Santa Maria di Campagna, Sant’Antonino, San Giovanni, San Sisto, Sant’Agostino. Notevoli i palazzi delle famiglie nobili: i Landi, gli Scotti, gli Anguissola. La campagna piacentina è fertilissima e vi si producono ottimi vini e formaggi. Nel territorio di pertinenza esistono fonti di acqua salata, miniere di ferro, boschi da legname, riserve di caccia. Il clima salubre favorisce la longevità degli abitanti. Piacenza è ricca di corsi d’acqua e di storia, in ragione delle potenze che hanno ambìto signoreggiarla, fino all’attuale ducea dei Farnese.
Note.Fondato è il sospetto che questo De Rogissart di cui non si sa quasi nulla (del nome abbiamo solo l’iniziale) descriva cose che in realtà non ha visto. Torna la famosa fontana, stavolta attribuita all’imperatore Augusto. Le miniere di ferro e le fonti di acqua salata per l’estrazione del sale erano fuori dai soliti itinerari. Soprattutto la questione del clima salubre e della longevità degli abitanti sembra in odore di conoscenza meramente libresca (ne aveva parlato Plinio a proposito di Velleia).
panorama del '900 con gli orti
1706-Jean Baptiste Labat.
Monaco domenicano viaggiò in Spagna e in Italia. Si fermò a Piacenza proveniente da Bologna dove si era recato per assistere a un capitolo del suo Ordine. Proseguì poi per Genova sostando a Bobbio, dove riferì di un fatto incredibile. Il suo “Voyages du Père Labat“ (in 8 volumi) venne pubblicato a Parigi nel 1730.
Il monaco domenicano apprezza il buon cibo e non salta un pasto. A Piacenza arriva di giugno e lo impressiona il vino moscato. Trova la città bella e ordinata, immersa in un paesaggio gradevole. Una citazione la dedica al convento dell’Ordine domenicano, che trova molto decaduto. Il giorno successivo riparte per Genova attraverso la Val Trebbia. A Bobbio fa una sosta per la cena e in omaggio alla famosa abbazia fondata da San Colombano. Riferisce che il vetturino di cui s’erano lagnati i viaggiatori viene bastonato e l’indomani addirittura impiccato.
Note. Quella di Labat fu una visita frettolosa. Trasse di Piacenza una generica (buona) impressione. Il convento dall’Ordine domenicano ch’egli cita stava accanto alla chiesa di San Giovanni in Canale, costruita appunto dai domenicani nel 1221. Anche la contigua chiesa di Santa Maria del Tempio aveva un suo convento annesso, tenuto dai domenicani dopo la repressione e la soppressione dell’Ordine dei templari. La storiaccia del vetturino bastonato e impiccato causa delle lamentele dei viaggiatori, lascia-pur considerando i tempi-esterrefatti.
Monaco domenicano viaggiò in Spagna e in Italia. Si fermò a Piacenza proveniente da Bologna dove si era recato per assistere a un capitolo del suo Ordine. Proseguì poi per Genova sostando a Bobbio, dove riferì di un fatto incredibile. Il suo “Voyages du Père Labat“ (in 8 volumi) venne pubblicato a Parigi nel 1730.
Il monaco domenicano apprezza il buon cibo e non salta un pasto. A Piacenza arriva di giugno e lo impressiona il vino moscato. Trova la città bella e ordinata, immersa in un paesaggio gradevole. Una citazione la dedica al convento dell’Ordine domenicano, che trova molto decaduto. Il giorno successivo riparte per Genova attraverso la Val Trebbia. A Bobbio fa una sosta per la cena e in omaggio alla famosa abbazia fondata da San Colombano. Riferisce che il vetturino di cui s’erano lagnati i viaggiatori viene bastonato e l’indomani addirittura impiccato.
Note. Quella di Labat fu una visita frettolosa. Trasse di Piacenza una generica (buona) impressione. Il convento dall’Ordine domenicano ch’egli cita stava accanto alla chiesa di San Giovanni in Canale, costruita appunto dai domenicani nel 1221. Anche la contigua chiesa di Santa Maria del Tempio aveva un suo convento annesso, tenuto dai domenicani dopo la repressione e la soppressione dell’Ordine dei templari. La storiaccia del vetturino bastonato e impiccato causa delle lamentele dei viaggiatori, lascia-pur considerando i tempi-esterrefatti.
veduta panoramica di bobbio 1899
1724-Joseph Van Der Vynckt.
Il letterato e giurista belga Van Der Vynckt partì da Gand insieme a un compagno.Durante la visita ai castelli della Loira un altro fiammingo si aggiunse e proseguirono in tre il viaggio in Italia. Per questo il diario manoscritto s’intitola “Voyage en Italie de trois gentilshommes flamands, 1724-25”.
A Piacenza i viaggiatori fiamminghi arrivano nel novembre provenienti da occidente. Guadato il Tidone e la Trebbia, trovano una città grande e ben fortificata, posta in posizione favorevole. Hanno l’impressione di una campagna ridente d’intorno mentre la città, fatta di case basse, sembra loro piuttosto buia. Visitano e descrivono il Duomo, l’abbazia di San Sisto con le reliquie del santo, il quadro di Raffaello raffigurante la Madonna, San Sisto e una Santa. Si soffermano sulla tomba di Margherita d’Austria e sulle iscrizioni che vi trovano. Rilevano l’imponenza delle statue farnesiane nella Piazza quadrata circondata da portici; danno una rappresentazione accurata del Palazzo Farnese, non ancora terminato, e della Cittadella che a loro pare simile a quella di Anversa.
Note:Solo dei nordici potevano trovare la campagna piacentina “ridente”di novembre! Certo è che un po’ tutti i viaggiatori dei secoli XVII e XVIII contrappongono una piacevole campagna a una città piuttosto grande, ma povera e cupa. La Madonna Sistina del Raffaello (oggi a Dresda) costituiva un richiamo particolare per i colti turisti del settecento. Era più nota a loro che non a noi, piacentini contemporanei, la vicenda di San Sisto II, papa decollato nel terzo secolo e sepolto nella catacomba di San Callisto a Roma. La tradizione vuole che, per interessamento della regina Angilberga, una parte del suo corpo fosse trasportato a Piacenza, nell’anno 872, e conservato tuttora sotto l’altare maggiore della chiesa abbaziale dedicata al suo nome. A proposito di portici, ci risulta che la Piazza ne avesse su due lati, non su quattro.
Il letterato e giurista belga Van Der Vynckt partì da Gand insieme a un compagno.Durante la visita ai castelli della Loira un altro fiammingo si aggiunse e proseguirono in tre il viaggio in Italia. Per questo il diario manoscritto s’intitola “Voyage en Italie de trois gentilshommes flamands, 1724-25”.
A Piacenza i viaggiatori fiamminghi arrivano nel novembre provenienti da occidente. Guadato il Tidone e la Trebbia, trovano una città grande e ben fortificata, posta in posizione favorevole. Hanno l’impressione di una campagna ridente d’intorno mentre la città, fatta di case basse, sembra loro piuttosto buia. Visitano e descrivono il Duomo, l’abbazia di San Sisto con le reliquie del santo, il quadro di Raffaello raffigurante la Madonna, San Sisto e una Santa. Si soffermano sulla tomba di Margherita d’Austria e sulle iscrizioni che vi trovano. Rilevano l’imponenza delle statue farnesiane nella Piazza quadrata circondata da portici; danno una rappresentazione accurata del Palazzo Farnese, non ancora terminato, e della Cittadella che a loro pare simile a quella di Anversa.
Note:Solo dei nordici potevano trovare la campagna piacentina “ridente”di novembre! Certo è che un po’ tutti i viaggiatori dei secoli XVII e XVIII contrappongono una piacevole campagna a una città piuttosto grande, ma povera e cupa. La Madonna Sistina del Raffaello (oggi a Dresda) costituiva un richiamo particolare per i colti turisti del settecento. Era più nota a loro che non a noi, piacentini contemporanei, la vicenda di San Sisto II, papa decollato nel terzo secolo e sepolto nella catacomba di San Callisto a Roma. La tradizione vuole che, per interessamento della regina Angilberga, una parte del suo corpo fosse trasportato a Piacenza, nell’anno 872, e conservato tuttora sotto l’altare maggiore della chiesa abbaziale dedicata al suo nome. A proposito di portici, ci risulta che la Piazza ne avesse su due lati, non su quattro.
1728-Anonimi.
Esistono anche testi anonimi che parlano di Piacenza. Del 1726 sarebbero i “souvenirs” di un francescano belga. Del 1728 i “remarques” di un libraio olandese. Ci sono buoni motivi per dubitare della loro attendibilità. E’ possibile che gli autori anonimi abbiano allungato e arricchito i loro viaggi copiando da altri testimoni.
Il francescano belga dice che Piacenza prende il nome dalla gradevolezza dei luoghi in cui sorge. Ha strade larghe e grandi, eleganti edifici, ma è popolata in modo discontinuo. Descrive sulla Piazza grande il gruppo equestre di Alessandro Farnese, già governatore delle Fiandre per il re di Spagna, e di suo figlio Ranuccio. Trova irregolari le fortificazioni mentre la Cittadella è costruita a regola d’arte. Ricorda che Piacenza trae fama dai natali di papa Gregorio X, dal convento di Sant’Agostino e dall’Università. Secondo il libraio olandese, Piacenza è città accogliente sia per i luoghi gradevoli che per le buone e allegre compagnie (mentre Parma è noiosa). Non vede fortificazioni.
Note.Altri avevano riferito di strade strette e case piuttosto basse. A proposito di Cittadella, sembra di capire che il francescano non intenda quella viscontea, accanto al palazzo Farnese, bensì il Castello di duca Pier Luigi, o Castello di Sant’Antonino (dal nome dell’omonimo “cavaliere” o maggiore sopraelevazione della fortificazione che dominava la città). Dalla breve vita della sua Università (immaginiamo lo Studio Generale concesso da Gian Galeazzo Visconti) Piacenza poteva aver tratto modesta fama. Curioso che il libraio belga abbia trovato compagnoni divertenti nell’austera Piacenza e gente noiosa a Parma.. Sconcertante poi che non veda fortificazioni militari.
Esistono anche testi anonimi che parlano di Piacenza. Del 1726 sarebbero i “souvenirs” di un francescano belga. Del 1728 i “remarques” di un libraio olandese. Ci sono buoni motivi per dubitare della loro attendibilità. E’ possibile che gli autori anonimi abbiano allungato e arricchito i loro viaggi copiando da altri testimoni.
Il francescano belga dice che Piacenza prende il nome dalla gradevolezza dei luoghi in cui sorge. Ha strade larghe e grandi, eleganti edifici, ma è popolata in modo discontinuo. Descrive sulla Piazza grande il gruppo equestre di Alessandro Farnese, già governatore delle Fiandre per il re di Spagna, e di suo figlio Ranuccio. Trova irregolari le fortificazioni mentre la Cittadella è costruita a regola d’arte. Ricorda che Piacenza trae fama dai natali di papa Gregorio X, dal convento di Sant’Agostino e dall’Università. Secondo il libraio olandese, Piacenza è città accogliente sia per i luoghi gradevoli che per le buone e allegre compagnie (mentre Parma è noiosa). Non vede fortificazioni.
Note.Altri avevano riferito di strade strette e case piuttosto basse. A proposito di Cittadella, sembra di capire che il francescano non intenda quella viscontea, accanto al palazzo Farnese, bensì il Castello di duca Pier Luigi, o Castello di Sant’Antonino (dal nome dell’omonimo “cavaliere” o maggiore sopraelevazione della fortificazione che dominava la città). Dalla breve vita della sua Università (immaginiamo lo Studio Generale concesso da Gian Galeazzo Visconti) Piacenza poteva aver tratto modesta fama. Curioso che il libraio belga abbia trovato compagnoni divertenti nell’austera Piacenza e gente noiosa a Parma.. Sconcertante poi che non veda fortificazioni militari.
1740-De Brosses.
Charles de Brosses, nato a Digione nel 1709, studiò diritto dai gesuiti e all’età di ventuno anni era già consigliere al parlamento. Ne divenne presidente, al ritorno del viaggio in Italia, durante il quale visitò (frettolosamente) anche Piacenza. Al ritorno scrisse un lungo resoconto sotto forma di 58 lettere ad altrettanti amici. Le sue «Lettre écrites à quelques amis en 1739 et 1740» furono pubblicate a Parigi nel 1836.
De Brosses, accompagnato da cinque gentiluomini e un servitore, arriva a Piacenza nel viaggio di ritorno verso Digione. Proviene da Parma.Vede una città grande gravata da aria poco salubre, le strade ampie ma spopolate. Descrive alcune chiese, in particolare la cattedrale con gli affreschi del Guercino, del Lanfranco e del Carracci. Del paesaggio parla per l’impressione avuta dall’alto della torre di Cremona: sembra una foresta, tanto è punteggiato di alberi. Passando il Po annota: “sono sempre pianure, viali e navigli”.
Note.L’aria poco salubre è un motivo che impressiona sgradevolmente i viaggiatori. Anche De Brosses vede strade larghe, che forse appaiono tali proprio a causa dallo scarso popolamento delle medesime. Un tema che torna e tornerà ancora nelle osservazioni dei viaggiatori successivi. Sempre positive le impressioni sul paesaggio rurale. Dall’alto la prospettiva fa della pianura una immensa foresta. In realtà è solo regolarmente punteggiata di alberi, spesso uniti fra loro dalla vite, abitualmente maritata all’olmo. E’ la tipica “piantata padana” che Brosses trova uniforme da Parma a Piacenza a Milano.
Charles de Brosses, nato a Digione nel 1709, studiò diritto dai gesuiti e all’età di ventuno anni era già consigliere al parlamento. Ne divenne presidente, al ritorno del viaggio in Italia, durante il quale visitò (frettolosamente) anche Piacenza. Al ritorno scrisse un lungo resoconto sotto forma di 58 lettere ad altrettanti amici. Le sue «Lettre écrites à quelques amis en 1739 et 1740» furono pubblicate a Parigi nel 1836.
De Brosses, accompagnato da cinque gentiluomini e un servitore, arriva a Piacenza nel viaggio di ritorno verso Digione. Proviene da Parma.Vede una città grande gravata da aria poco salubre, le strade ampie ma spopolate. Descrive alcune chiese, in particolare la cattedrale con gli affreschi del Guercino, del Lanfranco e del Carracci. Del paesaggio parla per l’impressione avuta dall’alto della torre di Cremona: sembra una foresta, tanto è punteggiato di alberi. Passando il Po annota: “sono sempre pianure, viali e navigli”.
Note.L’aria poco salubre è un motivo che impressiona sgradevolmente i viaggiatori. Anche De Brosses vede strade larghe, che forse appaiono tali proprio a causa dallo scarso popolamento delle medesime. Un tema che torna e tornerà ancora nelle osservazioni dei viaggiatori successivi. Sempre positive le impressioni sul paesaggio rurale. Dall’alto la prospettiva fa della pianura una immensa foresta. In realtà è solo regolarmente punteggiata di alberi, spesso uniti fra loro dalla vite, abitualmente maritata all’olmo. E’ la tipica “piantata padana” che Brosses trova uniforme da Parma a Piacenza a Milano.
1749-D’Orbassan.
A.M. D’Agnan D’Orbassan, magistrato francese, raccontò col metodo epistolare il suo “Voyage en Italie”, pubblicato a Parigi nel 1768. Partito da Tolosa nell’ottobre del 1749, ad Antibes, si unì al seguito della duchessa Luisa Elisabetta, figlia di Luigi XV e moglie di Don Ferdinando di Borbone, duca di Parma e Piacenza. Sbarcò a Genova e arrivò a Piacenza via Voghera-Castelsangiovanni. Pranzò col primo ministro Du Tillot venuto nella nostra città per accogliere la duchessa.
D’Orbassan, partecipando ai festeggiamenti per la duchessa, giudica le signore piacentine molto eleganti e grassocce. Piacenza è una città gradevole, elegante ma scarsamente popolata. A lui comunque interessano le opere d’arte. Descrive accuratamente i gruppi farnesiani, la cattedrale, il palazzo ducale, le chiese dei carmelitani, dei cappuccini, dei francescani, dei gesuiti. Visita Santa Maria di Campagna, ricca di pregevoli affreschi. Nella sacrestia vede la Madonna Sistina del Raffaello, opera pittorica famosa che D’Orbassan descrive e loda molto. Invece non trova traccia della fontana di Augusto, di cui avevano parlato altri viaggiatori.
Note.D’Orbassan è un viaggiatore colto che visita la Piacenza privilegiata. Trova, come altri, una città gradevole e grande ma-come altri-è colpito dallo scarso popolamento. La curiosa annotazione sulle tondeggianti forme delle signore piacentine riguarda probabilmente le sole dame dell’aristocrazia. Perplessità desta la collocazione della Madonna Sistina di Raffaello. Egli la vede e la descrive nella sacrestia di Santa Maria di Campagna, mentre-fino al 1754 (anno in cui fu venduta all’Elettore di Sassonia)-risulta essere rimasta al suo posto naturale, nell’abside di San Sisto. Probabile la confusione fra le due chiese, ma una verifica mirata potrebbe starci. Cerca la fontana di Giulio Cesare (o di Augusto), magnificata da precedenti viaggiatori, ma non ne trova traccia.
A.M. D’Agnan D’Orbassan, magistrato francese, raccontò col metodo epistolare il suo “Voyage en Italie”, pubblicato a Parigi nel 1768. Partito da Tolosa nell’ottobre del 1749, ad Antibes, si unì al seguito della duchessa Luisa Elisabetta, figlia di Luigi XV e moglie di Don Ferdinando di Borbone, duca di Parma e Piacenza. Sbarcò a Genova e arrivò a Piacenza via Voghera-Castelsangiovanni. Pranzò col primo ministro Du Tillot venuto nella nostra città per accogliere la duchessa.
D’Orbassan, partecipando ai festeggiamenti per la duchessa, giudica le signore piacentine molto eleganti e grassocce. Piacenza è una città gradevole, elegante ma scarsamente popolata. A lui comunque interessano le opere d’arte. Descrive accuratamente i gruppi farnesiani, la cattedrale, il palazzo ducale, le chiese dei carmelitani, dei cappuccini, dei francescani, dei gesuiti. Visita Santa Maria di Campagna, ricca di pregevoli affreschi. Nella sacrestia vede la Madonna Sistina del Raffaello, opera pittorica famosa che D’Orbassan descrive e loda molto. Invece non trova traccia della fontana di Augusto, di cui avevano parlato altri viaggiatori.
Note.D’Orbassan è un viaggiatore colto che visita la Piacenza privilegiata. Trova, come altri, una città gradevole e grande ma-come altri-è colpito dallo scarso popolamento. La curiosa annotazione sulle tondeggianti forme delle signore piacentine riguarda probabilmente le sole dame dell’aristocrazia. Perplessità desta la collocazione della Madonna Sistina di Raffaello. Egli la vede e la descrive nella sacrestia di Santa Maria di Campagna, mentre-fino al 1754 (anno in cui fu venduta all’Elettore di Sassonia)-risulta essere rimasta al suo posto naturale, nell’abside di San Sisto. Probabile la confusione fra le due chiese, ma una verifica mirata potrebbe starci. Cerca la fontana di Giulio Cesare (o di Augusto), magnificata da precedenti viaggiatori, ma non ne trova traccia.
plaisance in una mappa del 1700
1757-La Porte.
L’abate Joseph De La Porte entrò in Italia dal Moncenisio e scese a Piacenza da Milano. Il suo «Le voyageur francois ou la connoissance de l’ancien et du nouveau monde» fu pubblicato a Parigi negli anni 1765-95.
La Porte arriva a Piacenza d’ottobre. L’aria gli pare salubre, la posizione felice, belli gli edifici, le piazze e le fontane. Ne traccia la storia travagliata fino alla bolla di Paolo III Farnese che ne fa dono al figlio Pierluigi, unendovi Parma. La città è grande ma poco popolata, avendo circa 20.000 abitanti. Le mura offrono un passeggio piacevole, così come la grande strada che attraversa la città. Di notevole interesse l’interno del palazzo ducale. Importante il Collegio fondato dal celebre cardinale Alberoni. Un po’ deluso dalla dotazione di opere d’arte pur elogiando i gruppi equestri della Piazza, la Cattedrale con gli affreschi del Guercino, Carracci, Lanfranco e altri di scuola bolognese.
Note.La grande strada che attraversa la città è lo Stradone Farnese. Da sottolineare la corretta informazione storica circa la Bolla di Paolo III Farnese, che fa dono al figlio Pierluigi di Piacenza più Parma, non viceversa. Il giudizio sulla salubrità dell’aria risente evidentemente dalle contingenze meteo di quell’ottobre 1757. Come altri visitatori precedenti, anche La Porte è colpito dallo scarso popolamento in rapporto alle dimensioni della città. Come altri visitatori vede le misteriose fontane di cui noi non abbiamo notizia.
L’abate Joseph De La Porte entrò in Italia dal Moncenisio e scese a Piacenza da Milano. Il suo «Le voyageur francois ou la connoissance de l’ancien et du nouveau monde» fu pubblicato a Parigi negli anni 1765-95.
La Porte arriva a Piacenza d’ottobre. L’aria gli pare salubre, la posizione felice, belli gli edifici, le piazze e le fontane. Ne traccia la storia travagliata fino alla bolla di Paolo III Farnese che ne fa dono al figlio Pierluigi, unendovi Parma. La città è grande ma poco popolata, avendo circa 20.000 abitanti. Le mura offrono un passeggio piacevole, così come la grande strada che attraversa la città. Di notevole interesse l’interno del palazzo ducale. Importante il Collegio fondato dal celebre cardinale Alberoni. Un po’ deluso dalla dotazione di opere d’arte pur elogiando i gruppi equestri della Piazza, la Cattedrale con gli affreschi del Guercino, Carracci, Lanfranco e altri di scuola bolognese.
Note.La grande strada che attraversa la città è lo Stradone Farnese. Da sottolineare la corretta informazione storica circa la Bolla di Paolo III Farnese, che fa dono al figlio Pierluigi di Piacenza più Parma, non viceversa. Il giudizio sulla salubrità dell’aria risente evidentemente dalle contingenze meteo di quell’ottobre 1757. Come altri visitatori precedenti, anche La Porte è colpito dallo scarso popolamento in rapporto alle dimensioni della città. Come altri visitatori vede le misteriose fontane di cui noi non abbiamo notizia.
i ponti sul po
1758-Grosley.
Due gentiluomini svedesi scesero in Italia per il solito viaggio erudito. Dal diario nacquero le “Nouveaux memoires sur l’Italie e sur les Italiens” di Jean Pierre Grosley, tradotte dallo svedese ed edite a Londres nel 1764.
Il viaggio inizia a Parigi il 20 maggio 1758. Lo svedese arriva a Piacenza proveniendo da Milano. Ha considerazioni ammirate per la fertilità del terreno ma osserva la scarsa popolazione della città. Ricorda le battaglie fra romani e cartaginesi, con la vittoria di Annibale a “Campomorto”. Non lo convince la posizione di Piacenza rispetto ai resoconti di Livio e Polibio e si chiede se la città abbia cambiato di posto. Rileva che i piacentini danno giudizi positivi sui soldati francesi, negativi sugli spagnoli (in riferimento alla recente guerra di successione del 1746). Piacenza, benché spopolata, per l’autore è una città di belle architetture. Soffre di una certa decadenza da attribuire ai Farnese e allo Stato Pontificio, dal momento che fino alla costituzione dei ducati era ancora molto florida. Dà però atto al duca di aver impiantato una industria della seta che meriterebbe di essere ulteriormente sviluppata. Le statue equestri farnesiane sono superiori a quanto di analogo si può vedere nella stessa Parigi. Cita i dipinti pregevoli della Cattedrale e del ricco monastero di San Sisto, attribuendo a Michelangelo il progetto dell’altare maggiore. Ammira la storia e l’opera del cardinale Alberoni. Dice che a Piacenza vige il principio di successione egualitaria fra i figli, con conseguente frammentazione delle proprietà. La moneta ha scarso valore e i guadi sono difficoltosi.
Note.Ritorna lo stupore per lo scarso popolamento della città, contrapposto alla fertilità dei luoghi, come osservato da precedenti viaggiatori. Grosley è forse il primo che sui luoghi delle battaglia della Trebbia (Campomorto dovrebbe essere Campremoldo) fra romani e cartaginesi s’accorge che qualcosa non funziona e si chiede se la città non si sia nel frattempo spostata. Invece nel frattempo è la Trebbia ad aver cambiato corso. Interessante il rilevamento sociologico sulla preferenza dei piacentini per i francesi rispetto a spagnoli ed austriaci. Utile l’osservazione sulla industria della seta. Da attribuire invece a leggenda il progetto michelangiolesco dell’altare maggiore di San Sisto. Ad ogni buon conto un erudito svedese di metà ‘700 vede in Piacenza una città bella sotto i profili architettonici e urbanistici. Da approfondire l’affermazione secondo la quale Piacenza anticipava il diritto di successione egualitario che sarà poi introdotto dal codice Napoleone.
Due gentiluomini svedesi scesero in Italia per il solito viaggio erudito. Dal diario nacquero le “Nouveaux memoires sur l’Italie e sur les Italiens” di Jean Pierre Grosley, tradotte dallo svedese ed edite a Londres nel 1764.
Il viaggio inizia a Parigi il 20 maggio 1758. Lo svedese arriva a Piacenza proveniendo da Milano. Ha considerazioni ammirate per la fertilità del terreno ma osserva la scarsa popolazione della città. Ricorda le battaglie fra romani e cartaginesi, con la vittoria di Annibale a “Campomorto”. Non lo convince la posizione di Piacenza rispetto ai resoconti di Livio e Polibio e si chiede se la città abbia cambiato di posto. Rileva che i piacentini danno giudizi positivi sui soldati francesi, negativi sugli spagnoli (in riferimento alla recente guerra di successione del 1746). Piacenza, benché spopolata, per l’autore è una città di belle architetture. Soffre di una certa decadenza da attribuire ai Farnese e allo Stato Pontificio, dal momento che fino alla costituzione dei ducati era ancora molto florida. Dà però atto al duca di aver impiantato una industria della seta che meriterebbe di essere ulteriormente sviluppata. Le statue equestri farnesiane sono superiori a quanto di analogo si può vedere nella stessa Parigi. Cita i dipinti pregevoli della Cattedrale e del ricco monastero di San Sisto, attribuendo a Michelangelo il progetto dell’altare maggiore. Ammira la storia e l’opera del cardinale Alberoni. Dice che a Piacenza vige il principio di successione egualitaria fra i figli, con conseguente frammentazione delle proprietà. La moneta ha scarso valore e i guadi sono difficoltosi.
Note.Ritorna lo stupore per lo scarso popolamento della città, contrapposto alla fertilità dei luoghi, come osservato da precedenti viaggiatori. Grosley è forse il primo che sui luoghi delle battaglia della Trebbia (Campomorto dovrebbe essere Campremoldo) fra romani e cartaginesi s’accorge che qualcosa non funziona e si chiede se la città non si sia nel frattempo spostata. Invece nel frattempo è la Trebbia ad aver cambiato corso. Interessante il rilevamento sociologico sulla preferenza dei piacentini per i francesi rispetto a spagnoli ed austriaci. Utile l’osservazione sulla industria della seta. Da attribuire invece a leggenda il progetto michelangiolesco dell’altare maggiore di San Sisto. Ad ogni buon conto un erudito svedese di metà ‘700 vede in Piacenza una città bella sotto i profili architettonici e urbanistici. Da approfondire l’affermazione secondo la quale Piacenza anticipava il diritto di successione egualitario che sarà poi introdotto dal codice Napoleone.
1765-De Lalande.
Membro dell’Accademia delle Scienze di Parigi, Joseph Jerome De Lalande fu uomo di altissima erudizione e ricercatore scientifico in vari campi. Il suo “Voyage en Italie” in nove tomi, avente carattere enciclopedico tante sono le informazioni e i dati raccolti (sia di carattere storico che d’arte e costume), fu stampato a Parigi nel 1769.
Arriva a Piacenza passando il Po dalla Lombardia. Anche Lalande, come altri precedenti viaggiatori è colpito dalle strade larghe ma deserte. Disserta intorno alle origini della città, alla sua storia, alla sua ubicazione. Cita il Duomo con i dipinti di Ludovico Carracci e la Cupola del Guercino; Santa Maria di Campagna coi dipinti del Parmigianino e del Pordenone; San Sisto che aveva la Madonna del Raffaello e che ora non ce l’ha più, venduta dai frati al re di Polonia. Descrive la Piazza con i gruppi equestri farnesiani. Fa cenno alla chiesa di Sant’Antonino, al palazzo Farnese, alla chiesa di Sant’Agostino del Vignola, al corso delle carrozze dove usano passeggiare i nobili e al “casino” dove si riuniscono per conversare e giocare. Osserva la fertilità della campagna, la coltivazione della vite maritata all’olmo, ma trova il vino di qualità mediocre, fatta eccezione per il vin santo. Buona invece la produzione del formaggio e l’allevamento del bestiame, favorito dai vasti pascoli. Lamenta la difficoltà di guadare i corsi d’acqua data la totale mancanza di ponti. Fra le maggiori cita i Landi, gli Scotti e gli Anguissola. Dei personaggi che hanno illustrato la città ricorda Murennus, Gregorio X, il Cardinale Alberoni e lo storico coevo Cristoforo Poggiali.
Note.C’è un leit motif che ritorna sempre nel ‘700:la città appare spopolata. E forse per questa ragione le strade sembrano più grandi. La Madonna Sistina del Raffaello godeva di grande fama e ora che è stata venduta, il dotto viaggiatore lo fa notare. Alla chiesa di Sant’Agostino non risulta aver messo mano il Vignola (quanto piuttosto Bernardino Panizzari detto il Caramosino). Non sappiamo quali meriti piacentini abbia mai avuto questo Murennus (Licinio Murena ?) citato da Lalande. Il “casino” o “racchetta” stava nella Piazza della Cittadella, unico luogo in cui si poteva lecitamente praticare certi giochi d’azzardo (Faraone). La vite maritata all’olmo era una tecnica colturale esteticamente piacevole e anche pratica. Ma la terra di pianura dava vino di poco pregio. Salvo il vinsanto che però è d’uva appassita e ammostata.
Membro dell’Accademia delle Scienze di Parigi, Joseph Jerome De Lalande fu uomo di altissima erudizione e ricercatore scientifico in vari campi. Il suo “Voyage en Italie” in nove tomi, avente carattere enciclopedico tante sono le informazioni e i dati raccolti (sia di carattere storico che d’arte e costume), fu stampato a Parigi nel 1769.
Arriva a Piacenza passando il Po dalla Lombardia. Anche Lalande, come altri precedenti viaggiatori è colpito dalle strade larghe ma deserte. Disserta intorno alle origini della città, alla sua storia, alla sua ubicazione. Cita il Duomo con i dipinti di Ludovico Carracci e la Cupola del Guercino; Santa Maria di Campagna coi dipinti del Parmigianino e del Pordenone; San Sisto che aveva la Madonna del Raffaello e che ora non ce l’ha più, venduta dai frati al re di Polonia. Descrive la Piazza con i gruppi equestri farnesiani. Fa cenno alla chiesa di Sant’Antonino, al palazzo Farnese, alla chiesa di Sant’Agostino del Vignola, al corso delle carrozze dove usano passeggiare i nobili e al “casino” dove si riuniscono per conversare e giocare. Osserva la fertilità della campagna, la coltivazione della vite maritata all’olmo, ma trova il vino di qualità mediocre, fatta eccezione per il vin santo. Buona invece la produzione del formaggio e l’allevamento del bestiame, favorito dai vasti pascoli. Lamenta la difficoltà di guadare i corsi d’acqua data la totale mancanza di ponti. Fra le maggiori cita i Landi, gli Scotti e gli Anguissola. Dei personaggi che hanno illustrato la città ricorda Murennus, Gregorio X, il Cardinale Alberoni e lo storico coevo Cristoforo Poggiali.
Note.C’è un leit motif che ritorna sempre nel ‘700:la città appare spopolata. E forse per questa ragione le strade sembrano più grandi. La Madonna Sistina del Raffaello godeva di grande fama e ora che è stata venduta, il dotto viaggiatore lo fa notare. Alla chiesa di Sant’Agostino non risulta aver messo mano il Vignola (quanto piuttosto Bernardino Panizzari detto il Caramosino). Non sappiamo quali meriti piacentini abbia mai avuto questo Murennus (Licinio Murena ?) citato da Lalande. Il “casino” o “racchetta” stava nella Piazza della Cittadella, unico luogo in cui si poteva lecitamente praticare certi giochi d’azzardo (Faraone). La vite maritata all’olmo era una tecnica colturale esteticamente piacevole e anche pratica. Ma la terra di pianura dava vino di poco pregio. Salvo il vinsanto che però è d’uva appassita e ammostata.
il vin santo
1769-Caraccioli.
Louis Antoine Caraccioli mise in racconto il viaggio di Lucidor, un filosofo inteso a rappresentare l’incarnazione della dea Ragione, in giro attraverso l’Europa per verificare l’uso che fanno gli uomini dei “lumi” loro concessi. Il suo “Voyage de la Raison en Europe” venne pubblicato a Parigi nel 1772.
A parere di Lucidor Piacenza sarebbe più degna che non Parma del ruolo di capitale. Egli vede una città grande, ben costruita e collocata in miglior sito. Trova i piacentini socievoli e portatori di ottime qualità, che però raramente mettono a frutto. Non si applicano alle scienze pur possedendo-come un po’ tutti gli italiani-le attitudini naturali. Visita i monasteri femminili per verificare le dicerie intorno alle licenziosità della vita monastica. Alfine riconosce che questa storia della vita lussuriosa delle monache è sostenuta solo da calunnie e maldicenze. Sul piano delle attività produttive, Lucidor è ben impressionato dall’allevamento del bestiame e dalla produzione di formaggi. Considera il gravame delle imposte equamente distribuito.
Note.Quel che Caraccioli dà alla propria ricerca è un taglio molto originale. Da antropologo e da politologo più che da turista. Tutto sommato sembra che i piacentini facciano un uso sufficiente dei lumi, anche se-come dicevano gli insegnanti un tempo-“potrebbero fare di più”. Del resto-fu da altri osservato-nel secolo XVIII Piacenza era soverchia di scolastici ma non contava neppure un veterinario. Curiosi gli elogi al sistema fiscale.
Louis Antoine Caraccioli mise in racconto il viaggio di Lucidor, un filosofo inteso a rappresentare l’incarnazione della dea Ragione, in giro attraverso l’Europa per verificare l’uso che fanno gli uomini dei “lumi” loro concessi. Il suo “Voyage de la Raison en Europe” venne pubblicato a Parigi nel 1772.
A parere di Lucidor Piacenza sarebbe più degna che non Parma del ruolo di capitale. Egli vede una città grande, ben costruita e collocata in miglior sito. Trova i piacentini socievoli e portatori di ottime qualità, che però raramente mettono a frutto. Non si applicano alle scienze pur possedendo-come un po’ tutti gli italiani-le attitudini naturali. Visita i monasteri femminili per verificare le dicerie intorno alle licenziosità della vita monastica. Alfine riconosce che questa storia della vita lussuriosa delle monache è sostenuta solo da calunnie e maldicenze. Sul piano delle attività produttive, Lucidor è ben impressionato dall’allevamento del bestiame e dalla produzione di formaggi. Considera il gravame delle imposte equamente distribuito.
Note.Quel che Caraccioli dà alla propria ricerca è un taglio molto originale. Da antropologo e da politologo più che da turista. Tutto sommato sembra che i piacentini facciano un uso sufficiente dei lumi, anche se-come dicevano gli insegnanti un tempo-“potrebbero fare di più”. Del resto-fu da altri osservato-nel secolo XVIII Piacenza era soverchia di scolastici ma non contava neppure un veterinario. Curiosi gli elogi al sistema fiscale.
1771/81-Wolfang von Riesch.
Von Riesch arrivò a Piacenza dopo la caduta di Du Tillot (1771) e prima del 1781, anno di pubblicazione delle sue “Observation faites pendant un voyage en Italie”.
Von Riesch osserva la grande fertilità delle campagne, coltivate in prevalenza a miglio e a frumento. In città è prospera l’industria della seta mentre scarso rilievo ha quella della lana. Gli abitanti sono trentamila ai quali vanno aggiunti trecento soldati di guarnigione. Un centinaio i poveri ricoverati nell’ospizio di carità. La città ha un governatore militare e un tribunale criminale che giudica in prima istanza mentre il processo di seconda istanza si tiene a Parma.
Note.Piuttosto interessanti i numeri che fornisce il viaggiatore. La città non è oberata di soldati, che anzi sono solo l’uno per cento della popolazione. Nemmeno dovrebbe essere oberata di poveri e mendicanti, se è vero che l’ospizio di carità ne assiste pochi più di cento (lo 0,4 per cento della popolazione). Quanto alle cause criminali, il tribunale di Piacenza giudicava in prima istanza i delitti avvenuti nel piacentino, i quali passavano a Parma per l’appello. I crimini avvenuti nel parmense venivano giudicati a Parma in primo grado e a Piacenza in appello. Un metodo lodevole, a maggior garanzia dell‘imputato.
Von Riesch arrivò a Piacenza dopo la caduta di Du Tillot (1771) e prima del 1781, anno di pubblicazione delle sue “Observation faites pendant un voyage en Italie”.
Von Riesch osserva la grande fertilità delle campagne, coltivate in prevalenza a miglio e a frumento. In città è prospera l’industria della seta mentre scarso rilievo ha quella della lana. Gli abitanti sono trentamila ai quali vanno aggiunti trecento soldati di guarnigione. Un centinaio i poveri ricoverati nell’ospizio di carità. La città ha un governatore militare e un tribunale criminale che giudica in prima istanza mentre il processo di seconda istanza si tiene a Parma.
Note.Piuttosto interessanti i numeri che fornisce il viaggiatore. La città non è oberata di soldati, che anzi sono solo l’uno per cento della popolazione. Nemmeno dovrebbe essere oberata di poveri e mendicanti, se è vero che l’ospizio di carità ne assiste pochi più di cento (lo 0,4 per cento della popolazione). Quanto alle cause criminali, il tribunale di Piacenza giudicava in prima istanza i delitti avvenuti nel piacentino, i quali passavano a Parma per l’appello. I crimini avvenuti nel parmense venivano giudicati a Parma in primo grado e a Piacenza in appello. Un metodo lodevole, a maggior garanzia dell‘imputato.
1764-Edward Gibbon.
Dotto deputato e storico inglese, ebbe fama sopratutto dalla sua monumentale “Storia della decadenza e caduta dell’impero romano”. Visitò Piacenza nel giugno 1764. Il suo resoconto di viaggio, rimasto inedito, è conservato nella Biblioteca del Brithish Museum di Londra. Le annotazioni che riguardano la nostra città si trovano in una raccolta di saggi di Emilio Nasalli Rocca pubblicati in volume nel 1983.
Come tutti loda il paesaggio ameno lungo la via Emilia: un giardino dove tutto è messo a profitto per il grano e per le vigne e con piante di gelsoai lati. L’aria è meno umida di quella che grava sul milanese. La città ha strade ampie e dritte ma le case non sono belle e le fortificazioni lasciano a desiderare. Gli abitanti sono 25.000 ma per le dimensioni dell’abitato potrebbero starcene 100.000, da cui una sensazione di spopolamento e decadenza. Il duca (Filippo di Borbone) trascura colpevolmente il Palazzo Farnese e anche la Fiera delle mercanzie sembra scomparsa (anche a causa di quei nobili che hanno la cattiva abitudine di non pagare la merce ai venditori). Belle le statue farnesiane anche se quei duchi furono poco guerrieri per vestirne gli abiti. Quanto all’arte, la cattedrale è di architettura comune ma contiene le pitture del Carracci e del Guercino, pregevoli per il colore e il disegno. Ottima la chiesa di Sant’Agostino per la grandezza delle navate e la purezza dello stile “specchio delle linee del Vignola”.
Note.Gibbon non si discosta più di tanto da altri viaggiatori del tempo. Lascia tuttavia perplessi il giudizio sull’ampiezza delle strade contrapposto a quello sulle case non belle. Anche un popolamento ottimale stimato in 100.000 persone sembra a noi spropositato. Lo storico sbaglia clamorosamente nel considerare poco guerriero Alessandro Farnese, le cui imprese sono peraltro illustrate nei bassorilievi del piedistallo. Abbastanza ricorrente l’errata attribuzione di Sant’Agostino al Vignola.
Dotto deputato e storico inglese, ebbe fama sopratutto dalla sua monumentale “Storia della decadenza e caduta dell’impero romano”. Visitò Piacenza nel giugno 1764. Il suo resoconto di viaggio, rimasto inedito, è conservato nella Biblioteca del Brithish Museum di Londra. Le annotazioni che riguardano la nostra città si trovano in una raccolta di saggi di Emilio Nasalli Rocca pubblicati in volume nel 1983.
Come tutti loda il paesaggio ameno lungo la via Emilia: un giardino dove tutto è messo a profitto per il grano e per le vigne e con piante di gelsoai lati. L’aria è meno umida di quella che grava sul milanese. La città ha strade ampie e dritte ma le case non sono belle e le fortificazioni lasciano a desiderare. Gli abitanti sono 25.000 ma per le dimensioni dell’abitato potrebbero starcene 100.000, da cui una sensazione di spopolamento e decadenza. Il duca (Filippo di Borbone) trascura colpevolmente il Palazzo Farnese e anche la Fiera delle mercanzie sembra scomparsa (anche a causa di quei nobili che hanno la cattiva abitudine di non pagare la merce ai venditori). Belle le statue farnesiane anche se quei duchi furono poco guerrieri per vestirne gli abiti. Quanto all’arte, la cattedrale è di architettura comune ma contiene le pitture del Carracci e del Guercino, pregevoli per il colore e il disegno. Ottima la chiesa di Sant’Agostino per la grandezza delle navate e la purezza dello stile “specchio delle linee del Vignola”.
Note.Gibbon non si discosta più di tanto da altri viaggiatori del tempo. Lascia tuttavia perplessi il giudizio sull’ampiezza delle strade contrapposto a quello sulle case non belle. Anche un popolamento ottimale stimato in 100.000 persone sembra a noi spropositato. Lo storico sbaglia clamorosamente nel considerare poco guerriero Alessandro Farnese, le cui imprese sono peraltro illustrate nei bassorilievi del piedistallo. Abbastanza ricorrente l’errata attribuzione di Sant’Agostino al Vignola.
1775-De Sade.
Francois Donatien De Sade, proveniente da Alessandria, capitò a Piacenza il 28 luglio e si fermò due giorni. Il suo non fu proprio un viaggio di piacere. Piuttosto un modo per cambiare aria, dato che in Francia per lui buttava brutta. Il suo resoconto di viaggio uscì-in linea col personaggio-disordinato. Ma venne pubblicato e tradotto anche in italiano, data la fama dell’autore (Viaggio in Italia, Roma, 1974).
Il viaggiatore, con servitore al seguito, lamenta un eccesso di pignoleria formale da parte delle guardie di frontiera ducali, sia all’ingresso che all’uscita dagli Stati Parmensi. A suo vedere Piacenza è una città grande ma spopolata. Le strade e le piazze sono brutte e deserte. Riconosce però qualche palazzo di raffinata fattura. Descrive le statue equestri di Alessandro e Ranuccio Farnese, il palazzo ducale, il teatro, la chiesa di Sant’Agostino e l’annesso convento.
Note.Colui che da il proprio nome ad una fra le peggiori perversioni umane, non è molto originale nei giudizi. Vede strade deserte come molti predecessori. In effetti da alcune attestazioni, pare che sulla metà del ‘700 Piacenza abbia perduto un quarto dei suoi abitanti. tuttavia c’erano ancora almeno 24.000 anime a popolare strade e piazze. Di teatri la città ne contava tre. Tuttavia il teatro cui accenna De Sade deve essere il lirico della Cittadella. In legno, andò a fuoco sul finire del secolo. Gli altri due erano il filodrammatico di Palazzo Mercanti (l’attuale municipio) e il teatro popolare delle Saline (via Cavour), anch’esso finito in cenere di lì a qualche anno.
Francois Donatien De Sade, proveniente da Alessandria, capitò a Piacenza il 28 luglio e si fermò due giorni. Il suo non fu proprio un viaggio di piacere. Piuttosto un modo per cambiare aria, dato che in Francia per lui buttava brutta. Il suo resoconto di viaggio uscì-in linea col personaggio-disordinato. Ma venne pubblicato e tradotto anche in italiano, data la fama dell’autore (Viaggio in Italia, Roma, 1974).
Il viaggiatore, con servitore al seguito, lamenta un eccesso di pignoleria formale da parte delle guardie di frontiera ducali, sia all’ingresso che all’uscita dagli Stati Parmensi. A suo vedere Piacenza è una città grande ma spopolata. Le strade e le piazze sono brutte e deserte. Riconosce però qualche palazzo di raffinata fattura. Descrive le statue equestri di Alessandro e Ranuccio Farnese, il palazzo ducale, il teatro, la chiesa di Sant’Agostino e l’annesso convento.
Note.Colui che da il proprio nome ad una fra le peggiori perversioni umane, non è molto originale nei giudizi. Vede strade deserte come molti predecessori. In effetti da alcune attestazioni, pare che sulla metà del ‘700 Piacenza abbia perduto un quarto dei suoi abitanti. tuttavia c’erano ancora almeno 24.000 anime a popolare strade e piazze. Di teatri la città ne contava tre. Tuttavia il teatro cui accenna De Sade deve essere il lirico della Cittadella. In legno, andò a fuoco sul finire del secolo. Gli altri due erano il filodrammatico di Palazzo Mercanti (l’attuale municipio) e il teatro popolare delle Saline (via Cavour), anch’esso finito in cenere di lì a qualche anno.
il cinema teatro politeama
1776-De La Platière.
Jean Marie Roland de la Platière, avvocato e membro dell’Accademia di Parigi, viaggiò in Italia in compagnia di due mercanti di barometri. Sostenne di aver verificato tante inesattezze trasmesse dai viaggiatori precedenti. Le «Lettres écrite de Suisse, d’Italie, de Saicile et de Malthe», a lui attribuite, uscirono anonime ad Amsterdam nel 1780.
De La Platière arriva a Piacenza nel settembre del 1776, proveniente da Milano. Vede una ricca campagna molto alberata e abbondante di uve; buona l’acqua ed eccellente l’aria. Trova una città grande ma spopolata, fatta di brutte case, salvo alcuni pregevoli palazzi. La stessa residenza ducale, ancora non terminata è già in rovina. Notevole la piazza ornata dai gruppi equestri farnesiani, scolpiti dal Giambologna. Cadente la cattedrale, in brutto stile gotico, che tuttavia contiene ottimi dipinti di Ludovico Carracci. Ammirevole la cupola affrescata da Guercino. Notevole l’architettura di Sant’Agostino con affreschi-deteriorati-del Parmigianino.
Note.Pur rivisitando con occhio critico i resoconti dei suoi predecessori, De La Platière conferma l’impressione della città grande e poco popolosa. Realistica l’osservazione sul Palazzo Farnese. Evidente l’errore di attribuzione dei gruppi equestri al Giambologna. E’ fra i pochi viaggiatori che lodano la magnificenza della Piazza. L’apprezzamento dell’acqua e dell’aria non è originale ma in linea con quanti sono passati da Piacenza nelle stagioni di mezzo. La piantata padana con gli olmi e le viti a ghirlanda offrono un colpo d’occhio gradevolissimo, un po’ da tutti rilevato nella seconda metà del ‘700.
Jean Marie Roland de la Platière, avvocato e membro dell’Accademia di Parigi, viaggiò in Italia in compagnia di due mercanti di barometri. Sostenne di aver verificato tante inesattezze trasmesse dai viaggiatori precedenti. Le «Lettres écrite de Suisse, d’Italie, de Saicile et de Malthe», a lui attribuite, uscirono anonime ad Amsterdam nel 1780.
De La Platière arriva a Piacenza nel settembre del 1776, proveniente da Milano. Vede una ricca campagna molto alberata e abbondante di uve; buona l’acqua ed eccellente l’aria. Trova una città grande ma spopolata, fatta di brutte case, salvo alcuni pregevoli palazzi. La stessa residenza ducale, ancora non terminata è già in rovina. Notevole la piazza ornata dai gruppi equestri farnesiani, scolpiti dal Giambologna. Cadente la cattedrale, in brutto stile gotico, che tuttavia contiene ottimi dipinti di Ludovico Carracci. Ammirevole la cupola affrescata da Guercino. Notevole l’architettura di Sant’Agostino con affreschi-deteriorati-del Parmigianino.
Note.Pur rivisitando con occhio critico i resoconti dei suoi predecessori, De La Platière conferma l’impressione della città grande e poco popolosa. Realistica l’osservazione sul Palazzo Farnese. Evidente l’errore di attribuzione dei gruppi equestri al Giambologna. E’ fra i pochi viaggiatori che lodano la magnificenza della Piazza. L’apprezzamento dell’acqua e dell’aria non è originale ma in linea con quanti sono passati da Piacenza nelle stagioni di mezzo. La piantata padana con gli olmi e le viti a ghirlanda offrono un colpo d’occhio gradevolissimo, un po’ da tutti rilevato nella seconda metà del ‘700.
1778-Jean de La Roque.
Il suo “Voyage d’un amateur des arts, fait dans les anneès 1773-78”, è una corposa guida in quattro tomi. Nel IV tomo consiglia un itinerario che comprende Piacenza.
Descrive la posizione della città alla confluenza della Trebbia nel Po. All’interno delle poderosa cinta delle mura, vede case ben costruite, belle strade e belle piazze avvolte però in un silenzio irreale dovuto alla totale inattività. Piacenza si trova a metà strada fra Parma e Milano, con fortificazioni a nord e a sud. Descrive la Piazza principale e i gruppi equestri, attribuiti al Giambologna. In stato di abbandono il palazzo ducale, costruito su progetto del Vignola. Comunicante col Palazzo ducale un teatro, piccolo, ben decorato ma privo di particolare interesse artistico. Della cattedrale segnala la cupola e il coro del Guercino, i quadri del Procaccini e di Ludovico Carracci. Menziona anche le chiese di San Sisto, San Giovanni, Sant’Agostino, Santa Maria di Campagna. Quest’ultima con gli affreschi di Paolo Veronese, del Parmigianino e del Pordenone.
Note.De la Roque non ha pregiudizi. Apprezza l’impianto urbanistico della città. Per questa ragione assume particolare oggettività l’attestazione circa il silenzio surreale e l’inattività assoluta. Una testimonianza che rende più di un saggio la decadenza economica di cui soffre Piacenza nella seconda metà del ‘700. L’antico ruolo militare continua ad essere di immediata percezione nelle fortificazioni e nella cinta delle mura. Benché amateur des arts, de La Roque sbaglia l’attribuzione dei gruppi equestri (opera di Francesco Mochi da Montevarchi) e fa un po’ di confusione circa i dipintori presenti con loro opere in Santa Maria di Campagna (non risultano affreschi del Veronese, mentre un Parmigianino-sembra acquistato come tale-fu poi attribuito ad altra mano).
Il suo “Voyage d’un amateur des arts, fait dans les anneès 1773-78”, è una corposa guida in quattro tomi. Nel IV tomo consiglia un itinerario che comprende Piacenza.
Descrive la posizione della città alla confluenza della Trebbia nel Po. All’interno delle poderosa cinta delle mura, vede case ben costruite, belle strade e belle piazze avvolte però in un silenzio irreale dovuto alla totale inattività. Piacenza si trova a metà strada fra Parma e Milano, con fortificazioni a nord e a sud. Descrive la Piazza principale e i gruppi equestri, attribuiti al Giambologna. In stato di abbandono il palazzo ducale, costruito su progetto del Vignola. Comunicante col Palazzo ducale un teatro, piccolo, ben decorato ma privo di particolare interesse artistico. Della cattedrale segnala la cupola e il coro del Guercino, i quadri del Procaccini e di Ludovico Carracci. Menziona anche le chiese di San Sisto, San Giovanni, Sant’Agostino, Santa Maria di Campagna. Quest’ultima con gli affreschi di Paolo Veronese, del Parmigianino e del Pordenone.
Note.De la Roque non ha pregiudizi. Apprezza l’impianto urbanistico della città. Per questa ragione assume particolare oggettività l’attestazione circa il silenzio surreale e l’inattività assoluta. Una testimonianza che rende più di un saggio la decadenza economica di cui soffre Piacenza nella seconda metà del ‘700. L’antico ruolo militare continua ad essere di immediata percezione nelle fortificazioni e nella cinta delle mura. Benché amateur des arts, de La Roque sbaglia l’attribuzione dei gruppi equestri (opera di Francesco Mochi da Montevarchi) e fa un po’ di confusione circa i dipintori presenti con loro opere in Santa Maria di Campagna (non risultano affreschi del Veronese, mentre un Parmigianino-sembra acquistato come tale-fu poi attribuito ad altra mano).
1785-Heinrich Matthias Marcand.
Medico tedesco, Enrico Mattia Marcand viaggiò in Italia per riacquistare la salute soggiornando nelle stazioni climatiche e termali. Più che di monumenti e storia annotò di costume, clima, configurazione dei terreni. Pubblicò i suoi appunti di viaggio ad Amburgo nel 1799.
Provenendo da Genova, arriva a Piacenza il 14 novembre. Trova un clima salubre al quale si deve il colorito sano degli abitanti. L’inverno deve essere freddo dal momento che vede molte pellicce in vendita. Al proposito nota una abbondanza di negozi. La città gli appare grande, forse troppo rispetto al numero degli abitanti. E’ colpito dalla avvenenza delle donne piacentine. Belle anche le carrozze, le statue equestri farnesiane e l’architettura di certi palazzi. Piacevoli le passeggiate sul Corso. La sera del medesimo 14 novembre riparte e pernotta a Fiorenzuola (in una ottima locanda, manco a dirlo).
Note.Davvero originali le considerazioni di questo viaggiatore. Riesce a trovare salubre il clima piacentino di metà novembre. E fermandosi meno di un giorno! Oltre che città piacevole, Piacenza agli occhi di Marcand regala bellezza: dalle donne alle carrozze. Vede opulenza nei molti negozi e nella vendita di pellicce (ma ci sono testimonianze che parlano di indumenti ben più miseri). Inoltre non è una città spopolata come altri hanno detto, bensì una città fin troppo grande rispetto al numero degli abitanti.. Un pò la questione del bicchiere, che lui vede mezzo pieno.
Medico tedesco, Enrico Mattia Marcand viaggiò in Italia per riacquistare la salute soggiornando nelle stazioni climatiche e termali. Più che di monumenti e storia annotò di costume, clima, configurazione dei terreni. Pubblicò i suoi appunti di viaggio ad Amburgo nel 1799.
Provenendo da Genova, arriva a Piacenza il 14 novembre. Trova un clima salubre al quale si deve il colorito sano degli abitanti. L’inverno deve essere freddo dal momento che vede molte pellicce in vendita. Al proposito nota una abbondanza di negozi. La città gli appare grande, forse troppo rispetto al numero degli abitanti. E’ colpito dalla avvenenza delle donne piacentine. Belle anche le carrozze, le statue equestri farnesiane e l’architettura di certi palazzi. Piacevoli le passeggiate sul Corso. La sera del medesimo 14 novembre riparte e pernotta a Fiorenzuola (in una ottima locanda, manco a dirlo).
Note.Davvero originali le considerazioni di questo viaggiatore. Riesce a trovare salubre il clima piacentino di metà novembre. E fermandosi meno di un giorno! Oltre che città piacevole, Piacenza agli occhi di Marcand regala bellezza: dalle donne alle carrozze. Vede opulenza nei molti negozi e nella vendita di pellicce (ma ci sono testimonianze che parlano di indumenti ben più miseri). Inoltre non è una città spopolata come altri hanno detto, bensì una città fin troppo grande rispetto al numero degli abitanti.. Un pò la questione del bicchiere, che lui vede mezzo pieno.
1791-Andres y Morell.
L’abate spagnolo Juan Andres Y Morell viaggiò molto in Italia (a cominciare dal 1768) spinto dal proposito di raccogliere materiale per un’opera enciclopedica. Durante il terzo viaggio visitò Piacenza nell’estate del 1791. I resoconti dei viaggi (Cartas familiares del abate D. Juan Andres) coprono quindi l’arco di 23 anni e furono pubblicati in tempi successivi. L’edizione di interesse per Piacenza uscì a Madrid nel 1793.
In città gli fa da guida l’abate Antonio Anguissola. Visita la Piazza con il Palazzo Gotico, il Palazzo del Governatore, i gruppi equestri “splendida opera di Francesco Mochi”. Fa visita a Cristoforo Poggiali, autore di una monumentale storia di Piacenza. Visita anche il dott. Pesatori, proprietario di una biblioteca ricca di manoscritti greci e latini, incunaboli e cinquecentine. Altre visite dedica alla contessa Caracciolo e al Collegio Alberoni. Fra le chiese cita quella di San Sepolcro; il Duomo del XII secolo con i dipinti del Guercino, del Procaccini, di L. Carracci; Santa Maria di Campagna con molti dipinti del Pordenone e alcuni attribuiti al Tiepolo. In via Sant’Agostino, si sta finendo la facciata dell’omonimo tempio disegnata da Camillo Morigia (l’architettura originaria-bellissima-ritiene sia da attribuire al Vignola). Del complesso monastico ammira i chiostri, il refettorio col dipinto del Lomazzo e la biblioteca dotata di rare edizioni.
Note.Andres Y Morell non ci dice molto di nuovo e originale. A differenza dei francesi questo abate spagnolo è meno spocchioso e anche più preciso, salvo qualche errore di attribuzione (la chiesa di sant’Agostino è da attribuire non al Vignola ma piuttosto al Caramosino). Interessante l’accenno alla ricca biblioteca del dott. Pesatori. Dovrebbe trattarsi di Gian Domenico Pesatori, valente bibliografo la cui raccolta venne acquistata dal marchese Landi e ora entrata a far parte della biblioteca civica. Lo Stradone Farnese da altri sempre chiamato “il Corso”viene da questo viaggiatore rinomato Sant’Agostino, tanto gli deve essere sembrata grande e ovvia l’emergenza della chiesa e del monastero. Il refettorio col dipinto del Lomazzo andrà poi distrutto nell’ultima guerra mondiale. Andres y Morell è comunque il primo che ci informa sulla importante dotazione della biblioteca dei monaci lateranensi agostiniani. E sarebbe interessante sapere che fine abbia fatto quel tesoro librario.
L’abate spagnolo Juan Andres Y Morell viaggiò molto in Italia (a cominciare dal 1768) spinto dal proposito di raccogliere materiale per un’opera enciclopedica. Durante il terzo viaggio visitò Piacenza nell’estate del 1791. I resoconti dei viaggi (Cartas familiares del abate D. Juan Andres) coprono quindi l’arco di 23 anni e furono pubblicati in tempi successivi. L’edizione di interesse per Piacenza uscì a Madrid nel 1793.
In città gli fa da guida l’abate Antonio Anguissola. Visita la Piazza con il Palazzo Gotico, il Palazzo del Governatore, i gruppi equestri “splendida opera di Francesco Mochi”. Fa visita a Cristoforo Poggiali, autore di una monumentale storia di Piacenza. Visita anche il dott. Pesatori, proprietario di una biblioteca ricca di manoscritti greci e latini, incunaboli e cinquecentine. Altre visite dedica alla contessa Caracciolo e al Collegio Alberoni. Fra le chiese cita quella di San Sepolcro; il Duomo del XII secolo con i dipinti del Guercino, del Procaccini, di L. Carracci; Santa Maria di Campagna con molti dipinti del Pordenone e alcuni attribuiti al Tiepolo. In via Sant’Agostino, si sta finendo la facciata dell’omonimo tempio disegnata da Camillo Morigia (l’architettura originaria-bellissima-ritiene sia da attribuire al Vignola). Del complesso monastico ammira i chiostri, il refettorio col dipinto del Lomazzo e la biblioteca dotata di rare edizioni.
Note.Andres Y Morell non ci dice molto di nuovo e originale. A differenza dei francesi questo abate spagnolo è meno spocchioso e anche più preciso, salvo qualche errore di attribuzione (la chiesa di sant’Agostino è da attribuire non al Vignola ma piuttosto al Caramosino). Interessante l’accenno alla ricca biblioteca del dott. Pesatori. Dovrebbe trattarsi di Gian Domenico Pesatori, valente bibliografo la cui raccolta venne acquistata dal marchese Landi e ora entrata a far parte della biblioteca civica. Lo Stradone Farnese da altri sempre chiamato “il Corso”viene da questo viaggiatore rinomato Sant’Agostino, tanto gli deve essere sembrata grande e ovvia l’emergenza della chiesa e del monastero. Il refettorio col dipinto del Lomazzo andrà poi distrutto nell’ultima guerra mondiale. Andres y Morell è comunque il primo che ci informa sulla importante dotazione della biblioteca dei monaci lateranensi agostiniani. E sarebbe interessante sapere che fine abbia fatto quel tesoro librario.
le truppe di napoleone passano il po alla cà rossa di piacenza 1796
Altri viaggiatori di fine ‘700.
Sulla fine del ‘700 i passaggi di viaggiatori s’infittirono, ma non le osservazioni originali. Vediamone alcune.
Lady Miller (1770)capita di novembre. Il clima le pare pessimo, il paesaggio deprimente con nebbia e fango, cibo e alloggio scadenti. Terribile l’albergo San Marco dove si cena a base di uva e formaggio. La città è desolante e non contiene alcuna antichità romana.
Peter Beckford (1787)accenna alla storia della città, ricordando l’assedio cui la sottopose Totila, re degli Ostrogoti, nel 546. Assedio tanto duro che i piacentini arrivarono a mangiarsi l’un l’altro.
Pierre Nicolas Anot (1795) dice che Piacenza non risponde alle promesse del suo nome. Ha ottimi edifici, ma sono bellezze che brillano nel deserto.
Robert Grayattraversa il Po su un ponte di barche. E’ l’ottobre del 1791 e la campagna è desolata a causa di una esondazione del fiume.
Leandro Fernandez De Moratìn arriva a Piacenza passando un ponte mobile sul Po (18 settembre 1793). Vede una quantità di preti, molti mendicanti e soldati bene armati.
Friedrich Leopold zu Stolberg osserva la campagna piacentina, uguale a quella milanese. I bovini hanno il mantello bruno. le pecore sono bianche, neri i maiali e i polli. Attraversa il Po su una passerella (16 novembre 1791). Al confine orientale del piacentino una gabbia di ferro appesa a un albero esibisce un teschio per dissuadere i briganti.
Anonimo tedesco, nel novembre 1792 apprezza la bellezza e la pulizia del bestiame. meno lo spopolamento della città e il Duomo, che trova decisamente brutto. E’ costretto ad assumere un servitore abile a cacciare i fastidiosi mendicanti. Fra i piacentini ve ne sono che indossano mantelli di canne intrecciate per ripararsi dalla pioggia e dal freddo.
Joseph Hager (1794)arriva percorrendo una nuova strada che collega Pavia con Piacenza. Ha visitato il Ganducato di Milano e trova una gran differenza col Ducato di Parma e Piacenza. A scapito di quest’ultimo.
Stanislaw Staszic, religioso polacco ha viaggiato molto. A Piacenza arriva ai primi di giugno del 1791. Trova bellissima la pianura del Po. Eccellente la città fortificata: elegante sul piano architettonica, popolosa e allegra. Visita il castello della duchessa costruito dal Palladio (ma intende il palazzo Farnese progettato dal Vignola, ndr) e si rammarica che non sia finito.
Note: pochi visitatori danno giudizi lusinghieri. Molti esprimono delusione. Pochissimi trovano una città allegra e popolosa. Ben più quelli che la vedono spopolata e desolata. Unico luogo di mondanità il Corso delle carrozze (Stradone Farnese), teatro di feste popolari (carnevale). Quanto all’assedio di Totila, pare che al tempo Piacenza avesse il rango di “capitale” o “metropoli” dell’Emilia. Un rango che onorò resistendo lungamente all’assedio. I piacentini, prima di cedere e riconoscere il nuovo sovrano, si cibarono dei più sozzi alimenti, arrivando-secondo Procopio-a mangiarsi l’un l’altro.
Sulla fine del ‘700 i passaggi di viaggiatori s’infittirono, ma non le osservazioni originali. Vediamone alcune.
Lady Miller (1770)capita di novembre. Il clima le pare pessimo, il paesaggio deprimente con nebbia e fango, cibo e alloggio scadenti. Terribile l’albergo San Marco dove si cena a base di uva e formaggio. La città è desolante e non contiene alcuna antichità romana.
Peter Beckford (1787)accenna alla storia della città, ricordando l’assedio cui la sottopose Totila, re degli Ostrogoti, nel 546. Assedio tanto duro che i piacentini arrivarono a mangiarsi l’un l’altro.
Pierre Nicolas Anot (1795) dice che Piacenza non risponde alle promesse del suo nome. Ha ottimi edifici, ma sono bellezze che brillano nel deserto.
Robert Grayattraversa il Po su un ponte di barche. E’ l’ottobre del 1791 e la campagna è desolata a causa di una esondazione del fiume.
Leandro Fernandez De Moratìn arriva a Piacenza passando un ponte mobile sul Po (18 settembre 1793). Vede una quantità di preti, molti mendicanti e soldati bene armati.
Friedrich Leopold zu Stolberg osserva la campagna piacentina, uguale a quella milanese. I bovini hanno il mantello bruno. le pecore sono bianche, neri i maiali e i polli. Attraversa il Po su una passerella (16 novembre 1791). Al confine orientale del piacentino una gabbia di ferro appesa a un albero esibisce un teschio per dissuadere i briganti.
Anonimo tedesco, nel novembre 1792 apprezza la bellezza e la pulizia del bestiame. meno lo spopolamento della città e il Duomo, che trova decisamente brutto. E’ costretto ad assumere un servitore abile a cacciare i fastidiosi mendicanti. Fra i piacentini ve ne sono che indossano mantelli di canne intrecciate per ripararsi dalla pioggia e dal freddo.
Joseph Hager (1794)arriva percorrendo una nuova strada che collega Pavia con Piacenza. Ha visitato il Ganducato di Milano e trova una gran differenza col Ducato di Parma e Piacenza. A scapito di quest’ultimo.
Stanislaw Staszic, religioso polacco ha viaggiato molto. A Piacenza arriva ai primi di giugno del 1791. Trova bellissima la pianura del Po. Eccellente la città fortificata: elegante sul piano architettonica, popolosa e allegra. Visita il castello della duchessa costruito dal Palladio (ma intende il palazzo Farnese progettato dal Vignola, ndr) e si rammarica che non sia finito.
Note: pochi visitatori danno giudizi lusinghieri. Molti esprimono delusione. Pochissimi trovano una città allegra e popolosa. Ben più quelli che la vedono spopolata e desolata. Unico luogo di mondanità il Corso delle carrozze (Stradone Farnese), teatro di feste popolari (carnevale). Quanto all’assedio di Totila, pare che al tempo Piacenza avesse il rango di “capitale” o “metropoli” dell’Emilia. Un rango che onorò resistendo lungamente all’assedio. I piacentini, prima di cedere e riconoscere il nuovo sovrano, si cibarono dei più sozzi alimenti, arrivando-secondo Procopio-a mangiarsi l’un l’altro.
1820-Lady Morgan.Sydney Owenson nacque a Dublino (forse) nel 1763. Figlia di un attore di teatro, scrittrice pervasa di spirito illuministico e patriottico, sposò nel 1812 Thomas Charles Morgan medico e compagno di viaggi sul continente. I due coniugi visitarono l’Italia tra il 1819 e il 1820. Dal diario di viaggio uscì già nel 1821 “Italy”, un libro di successo prontamente tradotto in francese e messo all’indice da vari stati della penisola.
Arriva rasentando le rive deserte della Trebbia, ridotta dalla siccità estiva a un rigagnolo. Piacenza appare in fondo a una pianura arida e incolta. Sotto il sole di mezzogiorno dà l’idea di una città monocromatica costruita nel deserto egiziano. L’accesso è reso difficoltoso da quattro successivi ordini di controlli da parte di sbirri e doganieri del regime sul quale l’Austria finge di non avere influenza diretta. Piacenza si dovrebbe chiamare città di peste, perché appare spopolata-di recente-dalla epidemia o dalla carestia. Il Palazzo Farnese sembra coperto da una sorta di crosta bruciata che gli conferisce l’aspetto di un edificio cotto nel forno. Grande, devastato, lasciato a metà e già rovinato in alcune parti, fu teatro di barbare magnificenze e se vi si protessero anche le arti fu più per tributo alla vanità che non al gusto dei principi. Le gallerie che crollano sotto il peso degli anni furono ricoperte di opere del Raffaello, del Correggio, del Parmigianino, ma quando l’ultimo duca, don Carlo di Borbone cambiò il palazzo di mattoni di Piacenza con il trono di Napoli, portò via da quei saloni quanto vi era contenuto di più raro e prezioso. La piazza è circondata da vecchi edifici insignificanti, salvo il municipio e il palazzo del governatore. Il primo, più antico, è pregevole per il disegno gotico e i particolari decorativi. Al centro c’è un cortile sporco da non dire su cui s’affacciano le prigioni, che prendono poca luce e poca aria malsana da una fitta inferriata. Contro le sbarre si schiacciano facce stravolte e in lacrime. Dicono che Maria Luigia visiti spesso la sua buona Piacenza, ma invece di partecipare alle feste della polizia dovrebbe dare un’occhiata alle sue prigioni, che sono orribili, come del resto ovunque in Italia (ancora più terribile la facilità con cui si riempiono). Il palazzo del governatore è coevo del comune, di fronte al quale sorge. Restaurato magnificamente dai francesi, contrasta per la sua eleganza con le rovine di cui è circondato. Un’iscrizione incisa nella pietra, sulla facciata, ricorda che esso venne restaurato da Napoleone imperatore. Le statue equestri-verdastre e formidabili-dopo lunghe discussioni non sono più attribuite al Giambologna ma al Mocchi, un artista di molto minore. Il Duomo, uno dei più antichi d’Italia è anche fra i più grossolanamente costruiti. L’orologio pubblico conserva il quadrante a ventiquattro ore, perché il sistema alla francese-di dodici ore-venne considerata una innovazione rivoluzionaria. I dipinti del Duomo, descritti con cura da più di un viaggiatore, sono in realtà indecifrabili. I dipinti del Guercino sulla cupola in pratica non si vedono, e la pala del Procaccini è oscurata da polvere e ragnatele (tanto da augurarle un “giro” a Parigi, come capitato ad altri quadri tutti tornati in condizioni migliori di prima). Il Corso non è che una triste strada maestra,soffocata dalla calura (mitigata solo da getti di acqua sporca) e dal cattivo odore, dove i nobili si fanno trainare da vecchi cavalli a passo di funerale, fino a sera, quando li spetta una partita a carte in una stanza remota del loro palazzo in rovina. La chiesa, il Corso e le carte riempiono tutta la loro utilissima esistenza. Fa eccezione il marchese Mandelli, colto e generoso con chi non ha mezzi. Parrebbe strano, se Piacenza non avesse dato il Giordani, fra gli uomini rarissimi che osano essere virtuosi nei tempi più corrotti. Questa città deve essere onorata di questo cittadino eloquente e patriota, ben più che per aver generato quello strumento del dispotismo che fu il cardinale Alberoni. Plinio dice che ai suoi tempi a Piacenza vissero uomini fino a 150 anni. Attualmente non esiste luogo al mondo dove ci si possa rassegnare più facilmente alla morte in mancanza di altro modo per sfuggire alle sue tristi mura. Ma siccome a noi nulla impediva di fuggire, ci affrettammo a prendere la via di Parma e a ristorare i nostri occhi e le nostre menti stanche, ritornando alla natura.
Note.Evidentemente l’estate del 1820 dovette rassomigliare molto a quella del recente 2003 (con buona pace dei catastrofisti moderni). Certo Piacenza nella siccitosa calura non ci guadagna, ma questa Lady Morgan la guarda con notevole ostilità preconcetta. Non risulta che le volte di Palazzo Farnese ospitassero dei Raffaello. Sbagliato attribuire ai francesi il restauro del Palazzo del Governatore. La lapide che stava sotto festoni dove c’è l’orologio (e che ora è sotto l’androne della Borsa) inneggia a Napoleone conquistatore di popoli, non restauratore di palazzi. Il cortile sporco è la Pescheria, che di sovente è poco pulito anche ai giorni nostri, dati i bivacchi abituali di varia umanità. Lady Morgan ha probabilmente ragione circa gli affreschi del Guercino sulla cupola del Duomo, definiti “indecifrabili” causa l’incuria. Oggi sono restaurati e chi non ha la vista buona (o soffre di torcicollo) può ammirarli nel magnifico volume curato da Prisco Bagni, edito dalla Banca di Piacenza (1994).
Arriva rasentando le rive deserte della Trebbia, ridotta dalla siccità estiva a un rigagnolo. Piacenza appare in fondo a una pianura arida e incolta. Sotto il sole di mezzogiorno dà l’idea di una città monocromatica costruita nel deserto egiziano. L’accesso è reso difficoltoso da quattro successivi ordini di controlli da parte di sbirri e doganieri del regime sul quale l’Austria finge di non avere influenza diretta. Piacenza si dovrebbe chiamare città di peste, perché appare spopolata-di recente-dalla epidemia o dalla carestia. Il Palazzo Farnese sembra coperto da una sorta di crosta bruciata che gli conferisce l’aspetto di un edificio cotto nel forno. Grande, devastato, lasciato a metà e già rovinato in alcune parti, fu teatro di barbare magnificenze e se vi si protessero anche le arti fu più per tributo alla vanità che non al gusto dei principi. Le gallerie che crollano sotto il peso degli anni furono ricoperte di opere del Raffaello, del Correggio, del Parmigianino, ma quando l’ultimo duca, don Carlo di Borbone cambiò il palazzo di mattoni di Piacenza con il trono di Napoli, portò via da quei saloni quanto vi era contenuto di più raro e prezioso. La piazza è circondata da vecchi edifici insignificanti, salvo il municipio e il palazzo del governatore. Il primo, più antico, è pregevole per il disegno gotico e i particolari decorativi. Al centro c’è un cortile sporco da non dire su cui s’affacciano le prigioni, che prendono poca luce e poca aria malsana da una fitta inferriata. Contro le sbarre si schiacciano facce stravolte e in lacrime. Dicono che Maria Luigia visiti spesso la sua buona Piacenza, ma invece di partecipare alle feste della polizia dovrebbe dare un’occhiata alle sue prigioni, che sono orribili, come del resto ovunque in Italia (ancora più terribile la facilità con cui si riempiono). Il palazzo del governatore è coevo del comune, di fronte al quale sorge. Restaurato magnificamente dai francesi, contrasta per la sua eleganza con le rovine di cui è circondato. Un’iscrizione incisa nella pietra, sulla facciata, ricorda che esso venne restaurato da Napoleone imperatore. Le statue equestri-verdastre e formidabili-dopo lunghe discussioni non sono più attribuite al Giambologna ma al Mocchi, un artista di molto minore. Il Duomo, uno dei più antichi d’Italia è anche fra i più grossolanamente costruiti. L’orologio pubblico conserva il quadrante a ventiquattro ore, perché il sistema alla francese-di dodici ore-venne considerata una innovazione rivoluzionaria. I dipinti del Duomo, descritti con cura da più di un viaggiatore, sono in realtà indecifrabili. I dipinti del Guercino sulla cupola in pratica non si vedono, e la pala del Procaccini è oscurata da polvere e ragnatele (tanto da augurarle un “giro” a Parigi, come capitato ad altri quadri tutti tornati in condizioni migliori di prima). Il Corso non è che una triste strada maestra,soffocata dalla calura (mitigata solo da getti di acqua sporca) e dal cattivo odore, dove i nobili si fanno trainare da vecchi cavalli a passo di funerale, fino a sera, quando li spetta una partita a carte in una stanza remota del loro palazzo in rovina. La chiesa, il Corso e le carte riempiono tutta la loro utilissima esistenza. Fa eccezione il marchese Mandelli, colto e generoso con chi non ha mezzi. Parrebbe strano, se Piacenza non avesse dato il Giordani, fra gli uomini rarissimi che osano essere virtuosi nei tempi più corrotti. Questa città deve essere onorata di questo cittadino eloquente e patriota, ben più che per aver generato quello strumento del dispotismo che fu il cardinale Alberoni. Plinio dice che ai suoi tempi a Piacenza vissero uomini fino a 150 anni. Attualmente non esiste luogo al mondo dove ci si possa rassegnare più facilmente alla morte in mancanza di altro modo per sfuggire alle sue tristi mura. Ma siccome a noi nulla impediva di fuggire, ci affrettammo a prendere la via di Parma e a ristorare i nostri occhi e le nostre menti stanche, ritornando alla natura.
Note.Evidentemente l’estate del 1820 dovette rassomigliare molto a quella del recente 2003 (con buona pace dei catastrofisti moderni). Certo Piacenza nella siccitosa calura non ci guadagna, ma questa Lady Morgan la guarda con notevole ostilità preconcetta. Non risulta che le volte di Palazzo Farnese ospitassero dei Raffaello. Sbagliato attribuire ai francesi il restauro del Palazzo del Governatore. La lapide che stava sotto festoni dove c’è l’orologio (e che ora è sotto l’androne della Borsa) inneggia a Napoleone conquistatore di popoli, non restauratore di palazzi. Il cortile sporco è la Pescheria, che di sovente è poco pulito anche ai giorni nostri, dati i bivacchi abituali di varia umanità. Lady Morgan ha probabilmente ragione circa gli affreschi del Guercino sulla cupola del Duomo, definiti “indecifrabili” causa l’incuria. Oggi sono restaurati e chi non ha la vista buona (o soffre di torcicollo) può ammirarli nel magnifico volume curato da Prisco Bagni, edito dalla Banca di Piacenza (1994).
veduta di palazzo gotico
1835-Pasquin (Valery).
Quando Antoine Claude Pasquin detto Valery (1789-1847) visitò Piacenza, non è ben chiaro. Autore di numerosi libri di viaggio, è ricordato in particolare per i “Voyages historiques, litteraires et artistiques en Italie”, del 1835. In vita fece dapprima il funzionario napoleonico e poi il bibliotecario sotto Carlo X e Luigi Filippo.
Piacenza gli sembra grande e deserta. Una città in rovina, mai più risollevatasi dopo il sacco di Francesco Sforza nel 1447. Nonostante questa plurisecolare decadenza Piacenza possiede il più elegante prosatore dell’Italia contemporanea: Pietro Giordani. Giordani a parte, e nonostante la desolazione, qualche interesse la città lo mantiene. Le grandi statue equestri, che pur non sono esenti da alcune mende. I cavalli vanno al passo eppur code, criniere e vesti dei cavalieri svolazzano eccessivamente. Inoltre le teste delle cavalcature potrebbero essere più nobili. Degni di nota il Palazzo Gotico e il Farnese. Il Duomo in particolare gli sembra una bella e armoniosa costruzione gotica (nonostante alcuni sciagurati rifacimenti nel coro) dove si fanno ammirare la cupola del Gercino, i dipinti del Franceschini, del Procaccini, di Ludovico Carracci, una madonna del Tagliasacchi e le due pale che il Gaspare Landi sostituì a quelle [di Ludovico Carracci] prese dalla Francia come “contributo” alla guerra del 1796. Valery passa poi a citare la chiesa di San Giovanni in Canale con i quadri del Landi e del Camuccini; quella di San Sisto con il monumento di Angilberga e di Margherita d’Austria, ornato di statue enormi, conformi al carattere della principessa (della quale si diceva aver la barba come un uomo). Una menzione dedica il viaggiatore a San Michele, una chiesa minore nella quale si ammira un grande San Ferdinando, dipinto dalla figlia del duca Ferdinando, principessa Antonia di Borbone, andata monaca in un convento delle Orsoline. Infine Santa Maria di Campagna, meritevole di una visita per vedere i dipinti del Pordenone, compreso quel Matrimonio mistico di Santa Caterina che-si dice-il Canova non mancava mai di contemplare quando passava da Piacenza. Da bibliotecario qual’è Valery non dimentica la Biblioteca (che conta 30.000 volumi e il prezioso Salterio di Angilberga). Gli va male perché il bibliotecario è ammalato e il vice non ha le chiavi, così deve accontentarsi di qualche informazione raccogliticcia.
Note.Piacenza secondo Valery sarebbe in rovina da quasi quattro secoli. Eccessivo. Sottile, ma non sbagliata l’osservazione sull’andatura dei cavalli farnesiani rispetto allo svolazzo di criniere e vesti. Forse il Mochi fu ispirato in un giorno di vento.. Curiosa la citazione della chiesa di San Michele. Antichissima (ma modesta). sorgeva nella attuale via XX Settembre, angolo con via Felice Frasi. Fu venduta all’asta nel 1893. La civica biblioteca-deduciamo-non era molto frequentata
.Quando Antoine Claude Pasquin detto Valery (1789-1847) visitò Piacenza, non è ben chiaro. Autore di numerosi libri di viaggio, è ricordato in particolare per i “Voyages historiques, litteraires et artistiques en Italie”, del 1835. In vita fece dapprima il funzionario napoleonico e poi il bibliotecario sotto Carlo X e Luigi Filippo.
Piacenza gli sembra grande e deserta. Una città in rovina, mai più risollevatasi dopo il sacco di Francesco Sforza nel 1447. Nonostante questa plurisecolare decadenza Piacenza possiede il più elegante prosatore dell’Italia contemporanea: Pietro Giordani. Giordani a parte, e nonostante la desolazione, qualche interesse la città lo mantiene. Le grandi statue equestri, che pur non sono esenti da alcune mende. I cavalli vanno al passo eppur code, criniere e vesti dei cavalieri svolazzano eccessivamente. Inoltre le teste delle cavalcature potrebbero essere più nobili. Degni di nota il Palazzo Gotico e il Farnese. Il Duomo in particolare gli sembra una bella e armoniosa costruzione gotica (nonostante alcuni sciagurati rifacimenti nel coro) dove si fanno ammirare la cupola del Gercino, i dipinti del Franceschini, del Procaccini, di Ludovico Carracci, una madonna del Tagliasacchi e le due pale che il Gaspare Landi sostituì a quelle [di Ludovico Carracci] prese dalla Francia come “contributo” alla guerra del 1796. Valery passa poi a citare la chiesa di San Giovanni in Canale con i quadri del Landi e del Camuccini; quella di San Sisto con il monumento di Angilberga e di Margherita d’Austria, ornato di statue enormi, conformi al carattere della principessa (della quale si diceva aver la barba come un uomo). Una menzione dedica il viaggiatore a San Michele, una chiesa minore nella quale si ammira un grande San Ferdinando, dipinto dalla figlia del duca Ferdinando, principessa Antonia di Borbone, andata monaca in un convento delle Orsoline. Infine Santa Maria di Campagna, meritevole di una visita per vedere i dipinti del Pordenone, compreso quel Matrimonio mistico di Santa Caterina che-si dice-il Canova non mancava mai di contemplare quando passava da Piacenza. Da bibliotecario qual’è Valery non dimentica la Biblioteca (che conta 30.000 volumi e il prezioso Salterio di Angilberga). Gli va male perché il bibliotecario è ammalato e il vice non ha le chiavi, così deve accontentarsi di qualche informazione raccogliticcia.
Note.Piacenza secondo Valery sarebbe in rovina da quasi quattro secoli. Eccessivo. Sottile, ma non sbagliata l’osservazione sull’andatura dei cavalli farnesiani rispetto allo svolazzo di criniere e vesti. Forse il Mochi fu ispirato in un giorno di vento.. Curiosa la citazione della chiesa di San Michele. Antichissima (ma modesta). sorgeva nella attuale via XX Settembre, angolo con via Felice Frasi. Fu venduta all’asta nel 1893. La civica biblioteca-deduciamo-non era molto frequentata
1844-Dickens.
Charles Dickens (1812-1870) fu giornalista e scrittore di rango, fra i grandi della letteratura inglese. Le sue opere più famose: “Il circolo Pickwick”, “Oliver Twist”, “David Copperfield”. Visitò l’Italia nel 1844. Proveniente da Pavia, sostò a Piacenza circa quattro ore. Tornato in Inghilterra pubblicò “Pictures from Italy”, un resoconto del viaggio in Italia, due pagine del quale dedicate appunto alla sosta piacentina..
Piacenza è una città buia, vecchia e decadente. Un luogo deserto, solitario, di erbacce e bastioni rovinati. Fossati mezzi colmi di un pasto maleodorante per il magro bestiame che vaga intorno. Lungo le strade, case austere guardano accigliate le altre case.Truppe sonnacchiose e logore vagano per la città sotto il peso della povertà e della pigrizia, piegando goffamente le divise mal adattate alle loro corporature. Negli scuri bassifondi bambini sudici si divertono con i maiali e il fango. Cani sparuti trottano avanti e indietro sotto le monotone volte alla costante e vana ricerca di qualcosa da mangiare. Un palazzo misterioso e solenne, vigilato da due statue colossali, i Geni gemelli del luogo, sta gravemente in mezzo alla oziosa città.. Che strano assopimento. Triste e delizioso ad un tempo, vagare per questi luoghi addormentati e crogiolarsi al sole. Di tutte le città del mondo dimenticate da Dio, squallide e ammuffite, ciascuna sembra essere-a suo modo-la prima. Seduto su questa collinetta dove, al tempo delle antiche stazioni romane, fu eretto un bastione e una rumorosa fortezza, mi resi conto che non avevo mai saputo, fino ad allora, cosa significasse essere pigri. Sento che non c’è niente da fare.. Che non esiste più progresso umano, movimento, sforzo o avanzamento di alcun tipo. Che ogni progetto si è fermato qui secoli fa per rimanere a riposo fino al giorno del Giudizio Universale.
Note.Certo nel 1844 Piacenza non doveva rassomigliare per allegria a Las Vegas. Ma questi inglesi ne avevano di spocchia! A leggere Cronin o il francese Zola, non è che altre parti d’Europa dovessero poi stare tanto più avanti (almeno nella provincia comparabile). L’angustia di uno stato asfittico e per di più in una città fortezza certo la sentivano anche i piacentini. Infatti i moti della “primogenita” seguiranno di soli quattro anni. Però Dickens sembra non gradire nemmeno quegli aspetti urbanistici che noi oggi rimpiangiamo. A volte i romanzieri sono passatisti e a volte modernisti. E a volte sono ipercritici per dovere del ruolo.
Charles Dickens (1812-1870) fu giornalista e scrittore di rango, fra i grandi della letteratura inglese. Le sue opere più famose: “Il circolo Pickwick”, “Oliver Twist”, “David Copperfield”. Visitò l’Italia nel 1844. Proveniente da Pavia, sostò a Piacenza circa quattro ore. Tornato in Inghilterra pubblicò “Pictures from Italy”, un resoconto del viaggio in Italia, due pagine del quale dedicate appunto alla sosta piacentina..
Piacenza è una città buia, vecchia e decadente. Un luogo deserto, solitario, di erbacce e bastioni rovinati. Fossati mezzi colmi di un pasto maleodorante per il magro bestiame che vaga intorno. Lungo le strade, case austere guardano accigliate le altre case.Truppe sonnacchiose e logore vagano per la città sotto il peso della povertà e della pigrizia, piegando goffamente le divise mal adattate alle loro corporature. Negli scuri bassifondi bambini sudici si divertono con i maiali e il fango. Cani sparuti trottano avanti e indietro sotto le monotone volte alla costante e vana ricerca di qualcosa da mangiare. Un palazzo misterioso e solenne, vigilato da due statue colossali, i Geni gemelli del luogo, sta gravemente in mezzo alla oziosa città.. Che strano assopimento. Triste e delizioso ad un tempo, vagare per questi luoghi addormentati e crogiolarsi al sole. Di tutte le città del mondo dimenticate da Dio, squallide e ammuffite, ciascuna sembra essere-a suo modo-la prima. Seduto su questa collinetta dove, al tempo delle antiche stazioni romane, fu eretto un bastione e una rumorosa fortezza, mi resi conto che non avevo mai saputo, fino ad allora, cosa significasse essere pigri. Sento che non c’è niente da fare.. Che non esiste più progresso umano, movimento, sforzo o avanzamento di alcun tipo. Che ogni progetto si è fermato qui secoli fa per rimanere a riposo fino al giorno del Giudizio Universale.
Note.Certo nel 1844 Piacenza non doveva rassomigliare per allegria a Las Vegas. Ma questi inglesi ne avevano di spocchia! A leggere Cronin o il francese Zola, non è che altre parti d’Europa dovessero poi stare tanto più avanti (almeno nella provincia comparabile). L’angustia di uno stato asfittico e per di più in una città fortezza certo la sentivano anche i piacentini. Infatti i moti della “primogenita” seguiranno di soli quattro anni. Però Dickens sembra non gradire nemmeno quegli aspetti urbanistici che noi oggi rimpiangiamo. A volte i romanzieri sono passatisti e a volte modernisti. E a volte sono ipercritici per dovere del ruolo.
1855-Driou.
Alfred Driou (1810-1881) fu scrittore di successo assai versatile. Coltivò anche la letteratura per ragazzi a carattere avventuroso o fantastico. Parlò di Piacenza nel racconto di viaggio del giovin signore Emile Doulet con il suo istitutore Valmer attraverso la Lombardia e l’Emilia negli anni precedenti la seconda guerra d’indipendenza (Panorama de la Lombardie, Limoges 1862).
Piacenza ha quattro porte che tagliano le mura circolari, bordate di fossati e piantate di alberi. Per le sue strade, particolarmente sul Corso-suggestivo e silenzioso-risuona il nitrire dei cavalli e il marciare dei soldati. Piacenza non è di questo secolo. È una città del Medioevo. Vien da vertirsi col mantello, il cappuccio, la scarsella alla cintura, l’almuzio sul braccio, i pantaloni di due colori, le calzature alla polacca. L’abbigliamento moderno fa infatti quasi a pugni con le case a frontoni, gli angoli turriti, le tettoie sopra le porte, le strade strette e buie, le numerose chiese di mattoni rossi, come le case. Piacenza, in realtà non è una città, quanto piuttosto una antica, vasta fortezza. Ricercati i frontoni, le pusterle, le torrette, le balaustre dei balconi, i portici e gli alteri palazzi. Eppoi il Corso, una strada larga e spaziosa che si estende da Porta San Raimondo a Porta San Lazzaro, costeggiata da giardini e bei palazzi. Peccato che questa strada invece di occupare il centro della città (cui farebbe onore) si trovi ad occupare una estremità. Le dame piacentine esprimono un lusso di profumo orientale, peccato però che la città-soprattutto nelle strade minori-appaia paurosamente deserta.
Note.Per Driou Piacenza ha un evidente fascino. Ma da molti decenni ormai i visitatori la definiscono spopolata e immersa in un silenzio innaturale. Allo scrittore bretone appare addirittura “paurosamente deserta”. Almuzio (o almuzia) era un piccolo mantello di pelliccia con le maniche larghe e il cappuccio. I frontoni sono quei motivi triangolari che si vedono sulla facciata di alcuni edifici, dal sottotetto alle porte, alle finestre, alle nicchie. Pusterle si chiamavano le piccole porte di torri e torrette atte al passaggio di una sola persona per volta. “Corso”, l’abbiamo ricordato più volte, era detto lo Stradone Farnese (in origine Stradone Gambara) che non andava da Porta San Lazzaro a Porta San Raimondo, ma propriamente dal convento dei cappuccini alla contrada di San Raimondo.
Alfred Driou (1810-1881) fu scrittore di successo assai versatile. Coltivò anche la letteratura per ragazzi a carattere avventuroso o fantastico. Parlò di Piacenza nel racconto di viaggio del giovin signore Emile Doulet con il suo istitutore Valmer attraverso la Lombardia e l’Emilia negli anni precedenti la seconda guerra d’indipendenza (Panorama de la Lombardie, Limoges 1862).
Piacenza ha quattro porte che tagliano le mura circolari, bordate di fossati e piantate di alberi. Per le sue strade, particolarmente sul Corso-suggestivo e silenzioso-risuona il nitrire dei cavalli e il marciare dei soldati. Piacenza non è di questo secolo. È una città del Medioevo. Vien da vertirsi col mantello, il cappuccio, la scarsella alla cintura, l’almuzio sul braccio, i pantaloni di due colori, le calzature alla polacca. L’abbigliamento moderno fa infatti quasi a pugni con le case a frontoni, gli angoli turriti, le tettoie sopra le porte, le strade strette e buie, le numerose chiese di mattoni rossi, come le case. Piacenza, in realtà non è una città, quanto piuttosto una antica, vasta fortezza. Ricercati i frontoni, le pusterle, le torrette, le balaustre dei balconi, i portici e gli alteri palazzi. Eppoi il Corso, una strada larga e spaziosa che si estende da Porta San Raimondo a Porta San Lazzaro, costeggiata da giardini e bei palazzi. Peccato che questa strada invece di occupare il centro della città (cui farebbe onore) si trovi ad occupare una estremità. Le dame piacentine esprimono un lusso di profumo orientale, peccato però che la città-soprattutto nelle strade minori-appaia paurosamente deserta.
Note.Per Driou Piacenza ha un evidente fascino. Ma da molti decenni ormai i visitatori la definiscono spopolata e immersa in un silenzio innaturale. Allo scrittore bretone appare addirittura “paurosamente deserta”. Almuzio (o almuzia) era un piccolo mantello di pelliccia con le maniche larghe e il cappuccio. I frontoni sono quei motivi triangolari che si vedono sulla facciata di alcuni edifici, dal sottotetto alle porte, alle finestre, alle nicchie. Pusterle si chiamavano le piccole porte di torri e torrette atte al passaggio di una sola persona per volta. “Corso”, l’abbiamo ricordato più volte, era detto lo Stradone Farnese (in origine Stradone Gambara) che non andava da Porta San Lazzaro a Porta San Raimondo, ma propriamente dal convento dei cappuccini alla contrada di San Raimondo.
porta san raimondo primi del 900
1929-Antonio Baldini.
Noto elzevirista del Corriere della Sera, Antonio Baldini fu scrittore, saggista e critico della letteratura. Morto a Roma nel 1962, Baldini aveva trascorso tre mesi di servizio militare a Piacenza nel 1909 (agosto-ottobre). Da una visita-vent’anni dopo-nella nostra città trasse un articolo rievocativo con osservazioni di confronto fra la Piacenza del 1909 e un giorno d’ottobre del 1929.
L’aria era la stessa, le voci le stesse, i carri d’uva nelle strade coi pigiatori in piedi gli stessi. Rimbomba all’orecchio la voce della campana del duomo e il nostro visitatore si risente il coscritto di vent’anni prima. Ricorda quando, lungo la cancellata del Parco [il giardino Margherita], un l’ufficiale lo sorprese con le mani affondate nelle tasche e gli affibbiò la consegna. Prova quindi a ritrovare la strada della caserma. In una città di casermoni sconfinati, quella del III battaglione (25° reggimento) era una caserma a scartamento ridotto, adattata alla peggio in un certo stabile dalle parti del Duomo. Via della Prevostura. Un uomo va d’uscio in uscio con una sedia sfondata sulla spalla e grida cadreghé, cadreghé con voce lamentosa nella strada vuota. Preso il punto del bel campanile lombardo con in cima l’angelo di rame, al visitatore è facile riconoscere la porta della vecchia caserma in una gran parete chiusa e nuda come una prigione. Poggia l’occhio al buco della serratura. L’aria è d’abbandono e un uomo lì spuntato spiega che in tempi recenti c’erano acquartierati gli Arditi, poi più nessuno. Il visitatore si rivede a passeggiare attillato nella divisa dei cappellò insieme con gli altri militari in mezzo ai colombi di Piazza Cavalli, fra le verdi, tempestose statue equestri di Alessandro e Ranuccio Farnese e il composto monumento a Romagnosi in cappa magna. Fatto l’atto di presenza in Piazza, il soldato del tempo che fu scantonava subito per conto suo in strade solitarie. E in questo Piacenza lo serviva in larghezza.. Quel soldatino pensava, nelle sue libere uscite, a versi dove poteva starci dentro la malinconia di quelle strade fra cittadine e campestri, di quei palazzoni mezzi vuoti col verde in fondo ai portoni, di quei lunghi muri di cinta gualdrappati di verdura, di quelle chiese abbandonate, di quei luminosi boschetti sulle rive del grande fiume. Una malinconia affatturata dalla scarsissima simpatia che la popolazione di questa città-ancora ben cavallottiana-aveva per i militari. Senza letture di giornali, il giovane soldato viveva allora come fuori dal tempo, tuttavia il visitatore sapeva che era avvenuto un fatto, segno spiccatissimo dei tempi: via del Vescovado, una strada nei pressi della caserma dove passava ogni giorno, era divenuta via Francisco Ferrer, un anarchico anticlericale fucilato in Spagna.Vagando, il visitatore di nuovo trovò il gigantesco monumento al Pontiere in cò al ponte e ben poco d’altro. Ma lui cercava le belle chiese dove riparava quand’era stanco. San Sisto, la chiesa più luminosa d’Italia, con le sue finestre aperte sul cielo sul verde, di qua e di là d’ogni altare. Chiesa leggiadra, che conquista con la gioia della sua architettura. Né minor fascino aveva per me l’idea di quella famosissima Madonna di Raffaello, detta appunto Sistina, mancante da un secolo e mezzo all’altar maggiore e confinata nella galleria di Dresda, tanto bella che anche la sua assenza mi faceva compagnia. E quando poi, più anni dopo, l’andai a trovare, mi ci sentii in confidenza come uno dei pochi ch’era in grado di portarle notizie di casa.. Da San Sisto, per vie ritorte, il visitatore si porta nell’altra diletta chiesa: Santa Maria di Campagna e da lì sui polverosi bastioni da cui s’ abbraccia la sconfinata pianura. Vede automobili in corsa col loro corteggio di polvere segnare le strade che i soldati percorrevano allora al ritorno dal tiro a segno. Al tramonto, il visitatore rivede i rari fanali alonati dalla nebbia e risente lontano suonare la tromba della ritirata. Vorrebbe andare sulla Cittadella, tutta contornata di caserme, dove tre o quattro ritirate suonavano assieme mentre i soldati si raccoglievano d’ogni parte. Decide però che dei ricordi non è bene abusare.
Note.Nel 1909 c’era dunque una caserma anche in via Prevostura. Baldini aveva lasciata Piacenza sulla fine di ottobre, dopo che il consiglio comunale aveva deliberato (16 ottobre) la soppressione di via del Vescovado per dedicarla a Francisco Ferrer, un pedagogista anarchico fucilato in Spagna per volere dei gesuiti (così diceva la sinistra rivoluzionaria e anticlericale) Baldini non poteva quindi sapere che la deliberazione del Comune venne annullata il 26 novembre dal Prefetto e la dedicazione-posticcia-a Francisco Ferrer non divenne mai effettiva. Forse anche per questa vicenda, egli ricorda i piacentini come radicali anticodini, tuttora legati a Felice Cavallotti (morto del 1898), più volte eletto al parlamento in collegi del piacentino. Ancora nel secolo ventesimo-attesta Baldini-molte strade di Piacenza sono solitarie nonostante il gran numero di caserme e soldati. San Sisto gli appare come la chiesa più luminosa d’Italia, alta sulla sua rocca, e non immeschinita da ogni lato, come invece è purtroppo ridotta. Dal bastione di Campagna lo sguardo spaziava sulla sconfinata pianura. Ahonoi, oggi si ferma al profilo del raccordo autostradale..
Noto elzevirista del Corriere della Sera, Antonio Baldini fu scrittore, saggista e critico della letteratura. Morto a Roma nel 1962, Baldini aveva trascorso tre mesi di servizio militare a Piacenza nel 1909 (agosto-ottobre). Da una visita-vent’anni dopo-nella nostra città trasse un articolo rievocativo con osservazioni di confronto fra la Piacenza del 1909 e un giorno d’ottobre del 1929.
L’aria era la stessa, le voci le stesse, i carri d’uva nelle strade coi pigiatori in piedi gli stessi. Rimbomba all’orecchio la voce della campana del duomo e il nostro visitatore si risente il coscritto di vent’anni prima. Ricorda quando, lungo la cancellata del Parco [il giardino Margherita], un l’ufficiale lo sorprese con le mani affondate nelle tasche e gli affibbiò la consegna. Prova quindi a ritrovare la strada della caserma. In una città di casermoni sconfinati, quella del III battaglione (25° reggimento) era una caserma a scartamento ridotto, adattata alla peggio in un certo stabile dalle parti del Duomo. Via della Prevostura. Un uomo va d’uscio in uscio con una sedia sfondata sulla spalla e grida cadreghé, cadreghé con voce lamentosa nella strada vuota. Preso il punto del bel campanile lombardo con in cima l’angelo di rame, al visitatore è facile riconoscere la porta della vecchia caserma in una gran parete chiusa e nuda come una prigione. Poggia l’occhio al buco della serratura. L’aria è d’abbandono e un uomo lì spuntato spiega che in tempi recenti c’erano acquartierati gli Arditi, poi più nessuno. Il visitatore si rivede a passeggiare attillato nella divisa dei cappellò insieme con gli altri militari in mezzo ai colombi di Piazza Cavalli, fra le verdi, tempestose statue equestri di Alessandro e Ranuccio Farnese e il composto monumento a Romagnosi in cappa magna. Fatto l’atto di presenza in Piazza, il soldato del tempo che fu scantonava subito per conto suo in strade solitarie. E in questo Piacenza lo serviva in larghezza.. Quel soldatino pensava, nelle sue libere uscite, a versi dove poteva starci dentro la malinconia di quelle strade fra cittadine e campestri, di quei palazzoni mezzi vuoti col verde in fondo ai portoni, di quei lunghi muri di cinta gualdrappati di verdura, di quelle chiese abbandonate, di quei luminosi boschetti sulle rive del grande fiume. Una malinconia affatturata dalla scarsissima simpatia che la popolazione di questa città-ancora ben cavallottiana-aveva per i militari. Senza letture di giornali, il giovane soldato viveva allora come fuori dal tempo, tuttavia il visitatore sapeva che era avvenuto un fatto, segno spiccatissimo dei tempi: via del Vescovado, una strada nei pressi della caserma dove passava ogni giorno, era divenuta via Francisco Ferrer, un anarchico anticlericale fucilato in Spagna.Vagando, il visitatore di nuovo trovò il gigantesco monumento al Pontiere in cò al ponte e ben poco d’altro. Ma lui cercava le belle chiese dove riparava quand’era stanco. San Sisto, la chiesa più luminosa d’Italia, con le sue finestre aperte sul cielo sul verde, di qua e di là d’ogni altare. Chiesa leggiadra, che conquista con la gioia della sua architettura. Né minor fascino aveva per me l’idea di quella famosissima Madonna di Raffaello, detta appunto Sistina, mancante da un secolo e mezzo all’altar maggiore e confinata nella galleria di Dresda, tanto bella che anche la sua assenza mi faceva compagnia. E quando poi, più anni dopo, l’andai a trovare, mi ci sentii in confidenza come uno dei pochi ch’era in grado di portarle notizie di casa.. Da San Sisto, per vie ritorte, il visitatore si porta nell’altra diletta chiesa: Santa Maria di Campagna e da lì sui polverosi bastioni da cui s’ abbraccia la sconfinata pianura. Vede automobili in corsa col loro corteggio di polvere segnare le strade che i soldati percorrevano allora al ritorno dal tiro a segno. Al tramonto, il visitatore rivede i rari fanali alonati dalla nebbia e risente lontano suonare la tromba della ritirata. Vorrebbe andare sulla Cittadella, tutta contornata di caserme, dove tre o quattro ritirate suonavano assieme mentre i soldati si raccoglievano d’ogni parte. Decide però che dei ricordi non è bene abusare.
Note.Nel 1909 c’era dunque una caserma anche in via Prevostura. Baldini aveva lasciata Piacenza sulla fine di ottobre, dopo che il consiglio comunale aveva deliberato (16 ottobre) la soppressione di via del Vescovado per dedicarla a Francisco Ferrer, un pedagogista anarchico fucilato in Spagna per volere dei gesuiti (così diceva la sinistra rivoluzionaria e anticlericale) Baldini non poteva quindi sapere che la deliberazione del Comune venne annullata il 26 novembre dal Prefetto e la dedicazione-posticcia-a Francisco Ferrer non divenne mai effettiva. Forse anche per questa vicenda, egli ricorda i piacentini come radicali anticodini, tuttora legati a Felice Cavallotti (morto del 1898), più volte eletto al parlamento in collegi del piacentino. Ancora nel secolo ventesimo-attesta Baldini-molte strade di Piacenza sono solitarie nonostante il gran numero di caserme e soldati. San Sisto gli appare come la chiesa più luminosa d’Italia, alta sulla sua rocca, e non immeschinita da ogni lato, come invece è purtroppo ridotta. Dal bastione di Campagna lo sguardo spaziava sulla sconfinata pianura. Ahonoi, oggi si ferma al profilo del raccordo autostradale..
la via felice cavallotti nel 1908
Appendice:la misteriosa fontana di Giulio Cesare.
Alcuni viaggiatori la videro. Altri ne riferirono vagamente. Chi alfine la cercò attentamente disse di non averne trovato traccia. Parliamo della fontana di Giulio Cesare (o di Augusto), comparsa nelle guide dei viaggiatori passati per Piacenza sul finire del ‘600 e sparita definitivamente in quelle compilate dopo la metà ‘700. La videro Jordan, Deseine, De Rogissart, La Porte. Non la vide D’orbassan e nemmeno Jakob Adler che la cercò con teutonico scupolo (nel 1782) senza trovarne “vestigia alcuna”.
il canale fodesta
Considerazioni.Fra le visite di La Porte (che la vide) e Adler (che la cercò invano) vengono stampate le “Memorie storiche di Piacenza”, opera monumentale di Cristoforo Poggiali, prevosto di Sant’Agata. Egli liquida la questione della fontana come una favolaccia costruita sulle millanterie di vetturini e garzoni d’osteria, avvallata da cronisti nostrani di poco scrupolo. Questi ultimi avrebbero scambiata la fossa o canale di Fodesta per una fantasiosa Fons Augusta. Poggiali ammette di essere a conoscenza di un documento dell’imperatore Lodovico II, prodotto dal Campi e attribuito all’anno 852, ove si fa menzione di certi antichi acquedotti “defluentes a fluvio Trebiae usque in Fontem Augustam”. Ma lo storico se ne libera mettendo in dubbio la sincerità di quel documento, ipotizzando che il Campi abbia letto Fontem per Fossam. Insomma di una cloca doveva trattarsi, altro che meravigliosa fontana! Ma il ragionamento del Poggiali mostra la corda. Egli parte dalle bugie dei vetturini e dei garzoni d’osteria per arrivare a dar dell’ignorante a un dotto come il Campi, che non sa leggere i documenti e prende Fonte per Fossa. Eppure lo stesso Poggiali, così determinato nel negare la fontana di Giulio Cesare, lamenta la perdita di tantissime memorie storiche piacentine “per l’ingiuria del tempo e le barbarie degli uomini”. Non solo, il Poggiali dice che un colpo mortale alla conservazione di quelle poche memorie storiche salvate dal tempo e dagli uomini lo diede duca Ranuccio II nell’anno 1683. L’idea era commendevole: raccoglierle tutte nel Forte di Fodesta e collocarle quindi in un museo. Invece-son parole del Poggiali-i reperti “finirono abbandonati alla discrezione de’ custodi e si perdettero bel bello, andando a finire, non saprei dire dove”. Ma guarda un po’. E non potrebbe essere che i manufatti della Fons Augusta siano stati riposti-con le migliori intenzioni-nel Forte di Fodesta e, una volta morto il duca (nel 1694), abbiano preso il volo? Messi così gli equivoci nominalistici ci sembrano più comprensibili e i garzoni d’osteria, per quanto ignoranti di latino, molto meno fantasiosi. Del resto, sul piano logico, c’è materia per discutere. Cesare guerreggiò in Gallia transalpina, Britannia e Germania per un intero decennio, dal 59 al 49 avanti Cristo. Ma faceva il part time. All’approssimarsi della cattiva stagione si ritirava a sud delle Alpi, nella Gallia togata. Vale a dire dalle nostre parti. Non poteva fare altrimenti, perchè–son parole sue–quando cominciavano le piogge insistenti le tende di pelli s’infradiciavano ed era impossibile garantire ai soldati un riparo asciutto. Poichè anche da noi d’autunno piove (e pioveva) parecchio, si deve dedurre che Cesare accasermasse i suoi uomini in locali stabili, di mattoni e legno. Del tutto ovvio che servisse i casermaggi con un acquedotto, dal momento che i romani erano maestri in quelle opere. L’acqua della Trebbia era pulita, abbondante e poco distante (tanto che sfociasse a oriente come a occidente della città). Da non scordare, che a Piacenza Cesare aveva addirittura preso moglie (la terza, figlia di Lucio Calpurnio Pisone Cesonino). Tornavano–abbiam visto–le legioni dalla Gallia all’inizio della stagione piovosa e, guarda caso, la festa che ricorreva in quel periodo dell’anno (13 ottobre) erano le Fontanalia in onore di Fons (o Fontus), dio delle scaturigini, figlio di Giano e della ninfa Giuturna. Quale migliore occasione per dare ai soldati un giorno di allegria? Né si poteva onorare Fons senza una fonte esteticamente degna. Ecco dunque che la misteriosa fontana di Giulio Cesare in Piacenza aveva molte buone ragioni pratiche, religiose, militari-addirittura familiari-per esistere davvero. Se invece fu invenzione dei vetturini e dei garzoni d’albergo, beh, allora vuol dire che gli alberghi piacentini, un tempo, potevano contare su promotori turistici d’eccezione. (di Cesare Zilocchi, edito da Banca di Piacenza 2006).
Alcuni viaggiatori la videro. Altri ne riferirono vagamente. Chi alfine la cercò attentamente disse di non averne trovato traccia. Parliamo della fontana di Giulio Cesare (o di Augusto), comparsa nelle guide dei viaggiatori passati per Piacenza sul finire del ‘600 e sparita definitivamente in quelle compilate dopo la metà ‘700. La videro Jordan, Deseine, De Rogissart, La Porte. Non la vide D’orbassan e nemmeno Jakob Adler che la cercò con teutonico scupolo (nel 1782) senza trovarne “vestigia alcuna”.
il canale fodesta
Considerazioni.Fra le visite di La Porte (che la vide) e Adler (che la cercò invano) vengono stampate le “Memorie storiche di Piacenza”, opera monumentale di Cristoforo Poggiali, prevosto di Sant’Agata. Egli liquida la questione della fontana come una favolaccia costruita sulle millanterie di vetturini e garzoni d’osteria, avvallata da cronisti nostrani di poco scrupolo. Questi ultimi avrebbero scambiata la fossa o canale di Fodesta per una fantasiosa Fons Augusta. Poggiali ammette di essere a conoscenza di un documento dell’imperatore Lodovico II, prodotto dal Campi e attribuito all’anno 852, ove si fa menzione di certi antichi acquedotti “defluentes a fluvio Trebiae usque in Fontem Augustam”. Ma lo storico se ne libera mettendo in dubbio la sincerità di quel documento, ipotizzando che il Campi abbia letto Fontem per Fossam. Insomma di una cloca doveva trattarsi, altro che meravigliosa fontana! Ma il ragionamento del Poggiali mostra la corda. Egli parte dalle bugie dei vetturini e dei garzoni d’osteria per arrivare a dar dell’ignorante a un dotto come il Campi, che non sa leggere i documenti e prende Fonte per Fossa. Eppure lo stesso Poggiali, così determinato nel negare la fontana di Giulio Cesare, lamenta la perdita di tantissime memorie storiche piacentine “per l’ingiuria del tempo e le barbarie degli uomini”. Non solo, il Poggiali dice che un colpo mortale alla conservazione di quelle poche memorie storiche salvate dal tempo e dagli uomini lo diede duca Ranuccio II nell’anno 1683. L’idea era commendevole: raccoglierle tutte nel Forte di Fodesta e collocarle quindi in un museo. Invece-son parole del Poggiali-i reperti “finirono abbandonati alla discrezione de’ custodi e si perdettero bel bello, andando a finire, non saprei dire dove”. Ma guarda un po’. E non potrebbe essere che i manufatti della Fons Augusta siano stati riposti-con le migliori intenzioni-nel Forte di Fodesta e, una volta morto il duca (nel 1694), abbiano preso il volo? Messi così gli equivoci nominalistici ci sembrano più comprensibili e i garzoni d’osteria, per quanto ignoranti di latino, molto meno fantasiosi. Del resto, sul piano logico, c’è materia per discutere. Cesare guerreggiò in Gallia transalpina, Britannia e Germania per un intero decennio, dal 59 al 49 avanti Cristo. Ma faceva il part time. All’approssimarsi della cattiva stagione si ritirava a sud delle Alpi, nella Gallia togata. Vale a dire dalle nostre parti. Non poteva fare altrimenti, perchè–son parole sue–quando cominciavano le piogge insistenti le tende di pelli s’infradiciavano ed era impossibile garantire ai soldati un riparo asciutto. Poichè anche da noi d’autunno piove (e pioveva) parecchio, si deve dedurre che Cesare accasermasse i suoi uomini in locali stabili, di mattoni e legno. Del tutto ovvio che servisse i casermaggi con un acquedotto, dal momento che i romani erano maestri in quelle opere. L’acqua della Trebbia era pulita, abbondante e poco distante (tanto che sfociasse a oriente come a occidente della città). Da non scordare, che a Piacenza Cesare aveva addirittura preso moglie (la terza, figlia di Lucio Calpurnio Pisone Cesonino). Tornavano–abbiam visto–le legioni dalla Gallia all’inizio della stagione piovosa e, guarda caso, la festa che ricorreva in quel periodo dell’anno (13 ottobre) erano le Fontanalia in onore di Fons (o Fontus), dio delle scaturigini, figlio di Giano e della ninfa Giuturna. Quale migliore occasione per dare ai soldati un giorno di allegria? Né si poteva onorare Fons senza una fonte esteticamente degna. Ecco dunque che la misteriosa fontana di Giulio Cesare in Piacenza aveva molte buone ragioni pratiche, religiose, militari-addirittura familiari-per esistere davvero. Se invece fu invenzione dei vetturini e dei garzoni d’albergo, beh, allora vuol dire che gli alberghi piacentini, un tempo, potevano contare su promotori turistici d’eccezione. (di Cesare Zilocchi, edito da Banca di Piacenza 2006).