da Buonaparte all’Incendio del Teatro Cittadella
La mattina del 7 maggio 1796 – un sabato – cinquemila granatieri e millecinquecento cavalieri erano sulla sponda del Po, rimpetto alla nostra città. Parte vi entrò per porta Borghetto, parte per porta Sant’Antonio. Appena entrati si condussero in castello. Ne tolsero due cannoni e li portarono sulla destra del Po, sull’opposta sponda del quale eran pronti due squadroni di Usseri tedeschi per contrastar loro il passo del fiume. Vano contrasto: i Repubblicani si gettarono parte sul porto, parte su battelli ed operarono la traversata, e la cavalleria tedesca, scaricati i moschettoni, ripiegò verso Fombio e Codogno. La mattina dell’8 il generale Buonaparte comandò ai generali Delamagne, Lanusse e Lannes di avanzarsi contro gli ottomila uomini che il generale imperiale Beaulieu, abbandonati precipitosamente i trinceramenti del Ticino, aveva condotti a Fombio per impedire, ma troppo tardi, ai Francesi di traversare il Po. L’attacco si sviluppò tra Fombio e Codogno. Gli Imperiali furono sconfitti, lasciando cinquecento tra morti e feriti, trecento cavalli e tutte le salmerie. La perdita sarebbe stata anche maggiore se la valorosa cavalleria napoletana, comandata dal colonnello Federici, non fosse riuscita a proteggere, con impeti di italico valore, la ritirata degli Austriaci. La notte seguente vi fu nuovo cozzo tra Francesi e Imperiali a Codogno. Prima l’ebbero i Repubblicani, poi gli Austriaci, il generale francese Laharpe fu ucciso: e lo sgomento dè suoi per tal morte sarebbe stato fatale se non fosse sopraggiunto il generale Berthier. Al suo comparire gli Imperiali sloggiarono e colla bajonetta alle reni, furono respinti fino a Lodi, sempre protetti dal coraggio della cavalleria napoletana. Quando i piacentini videro fra le loro mura i vincitori, li occupò un senso di curiosità e di stupore. Quei granatieri erano laceri, malconci, stremati dalle inaudite fatiche. Le zazzere ed i baffi penziglianti dei soldati di cavalleria erano pura una non mai più veduta novità. Pareva a tutti impossibile che quella gente male in arnese e dall’aspetto così infelice, avesse potuto riportare sulle agguerrite falange Imperiali così splendide e clamorose vittorie. Evidentemente i padri nostri ignoravano che a quei valorosi teneva luogo di tutto l’amore sviscerato alla patria e alla libertà.
il passaggio del Po a piacenza
La sera del 7 maggio il generale Bonaparte entrava pur esso in Piacenza: e la mattina dell’8 passò anch’egli il Po, e sulla sua sinistra badava a scaramucciare contro i tedeschi in ritirata, mentre nella città nostra il rappresentante del popolo francese, Cristoforo Saliceti, che seguiva in qualità di commissario l’esercito repubblicano, eseguiva uno spaventevole repulisti, un vero saccheggio della pubblica ricchezza. I suoi seguci non solo depredavano il denaro nelle casse degli istituti pii, ma bottinavano altresì i libri delle rispettive contabilità. Quattro soldati di cavalleria scortarono un delegato del commissario nel Monte di Pietà e vi sequestrarono una somma equivalente ad oltre 26000 lire italiane proprie dell’istituito, ed un’altra somma rappresentante più di 42000 lire di stessa moneta appartenenti a privati, che in quei momenti di guerresco terrore, avevano creduto porre sostanze loro al sicuro presso l’opera del Monte. Non bastò ancora. Ammesso nella sala degli oggetti di valore, il delegato francese, abbagliato alla vista di tutti quei tesori ed avendo vera stoffa da ladro di genio, chiede con biglietto a Saliceti e ne ottiene sull’atto di licenza di rubare anche tutti quei preziosi, sui quali il monte aveva prestato ai depositanti una somma collettiva, che oggi si ragguaglierebbe ad oltre 85000 lire, e che certo ne valeva un terzo di più. In una parola la jattura subita quel dì dal monte di Piacenza superò una somma capitale che ora significherebbe più di 15000 lire! Era la seconda volta che i francesi spogliavano il nostro monte. Lo ricorda il cronista Guarino, raccontando che nel 1521 le soldatesche francesi del lautrec –malignae quam diabolus- s’eran fatte mantenere nella città nostra coi denari del Monte. Ed anche in quella bisogna fu un italiano che le aiutò nel leggittimar rapina, cioè il conte Girolamo Trivulzio, vice governatore di Piacenza per la Francia: il quale, dopo rubati i denari del Monte, rubò anche il vino dell’ospedale. Il buon Guarino scriveva: manus mea tremat in scribendo.. nos invidiebamus mortuis. Invidiamo i morti, nel 1521! Ma c’era da invidiarli anche nel 1796: poiché Cristoforo Saliceti si lasciava addietro anche i rapacissimi fasti di Girolamo Trivulzio. Terrificati gli amministratori del Monte per tanto abbominio, inviarono il conte Cristoforo Landi al rappresentante Saliceti, affinchè restituisse al Monte gli oggetti preziosi, non compresi nel primo comando di sequestro, eppure medesimamente rubati. Il Saliceti – che abitava in casa del Conte Ignazio Rocca – fissò al messo del Monte un colloquio per la mattina – ore 8 del giorno appresso. Ma quando, il Conte Landi, pronto all’invito, vi ritornò all’ora indicata, il Saliceti, con basso e grossolano artificio, erasene già partito dalla città nostra. Simultaneamente, il duca Ferdinando, a mezzo del residente di Spagna, il marchese Valparaiso, venuto a Piacenza, firmava un armistizio col Buonaparte. In quindici giorni gli sarebbero consegnati due milioni di franchi, diecimila quintali di grano, cinquemila paia di scarpe, milleduecento cavalli e duemila buoi. Si sarebbero allestiti due ospedali militari con tutto l’opportuno arredamento. Il generale avrebbe scelto venti quadri fra i quali i due grandi laterali del nostro Duomo: opera di Lodovico Carracci.
incoronazione della vergine di carracci e procaccini
Frattanto il general Buonaparte, lasciata la città nostra, era già alla testa dè suoi soldati inseguente il nemico a Lodi. Egli sapeva che il grosso dell’esercito austro-napoletano si ammassava al di là dell’Adda. Savanza colla rapidità, i suoi battaglioni passano sul ponte come l’uragano e lo sterminio degli alleati è cominciato. Essi fuggono e abbandonano artiglieria, bagagli, prigionieri e tutto. La repubblica francese ha in pugno le sorti di Lombardia. Il Buonaparte fa il suo solenne ingresso in Milano. Per i piacentini cominciarono altre tribolazioni. Le vessazioni inaudite del Commissario francese Flach, il quale ad ogni altro dì imponeva una nuova angheria sul Comune. L’altro funzionario francese Boudrand, che dirigeva l’ospedale militare di Sant’Agostino, voleva per amore o per forza tutto quanto vi abbisognava. Le stranezze del Comune colpito e ricolpito dalle domande dei francesi, che mai si stancavano di chiedere, aumentavano le spese per adattare le più monumentali chiese della città, come San Sepolcro, ad ospedale. Del resto non potevamo aspettarci dai francesi trattamento diverso, sapevamo che saremmo stati trattati così. E così fummo. Ai 5 di novembre 1796 si sottoscrissero in Parigi i sedici articoli del trattato di pace fra la Repubblica e il Duca di Parma. Uno dei paragrafi impegnava il Duca a non permettere nel suo stato dimora ad emigrati francesi. Si regolava lo scambio di ogni derrata e si prometteva che durante la guerra non avrebbero somministrato armi, viveri, denaro. Al 10 di novembre però i Cisalpini uniscono alla loro repubblica l’Oltrepò piacentino. Forte dei trattati il Governo del Duca protesta questa usurpazione. Ma l’atto rimane lettera morta. Da quel dì l’Oltrepò nostro divenne e si conservò sempre lombardo. In quell’anno Piacenza nostra era ridotta, come del resto lo è sempre, a poco più di una grande caserma.
chiesa e caserma di s. agostino
In quel del 1798 noi e la miseria eravamo sempre e più che mai in rapporti diretti. I bisogni dello stato facevansi viepiù urgenti. Il povero Don Ferdinando non sapeva più dove dar del capo. Si pensò allora che i ricchissimi canonici Lateranensi di Sant’Agostino eransi ridotti a numero assai esiguo e che i loro beni sarebbero stati eccellenti per rimediare alla inopia dell’erario. Ne luglio si soppresse la loro corporazione ed i beni della celebre Canonica pervennero per tal modo alle mani del fisco. Così andò guasto e perduto l’amplissimo e bellissimo chiostro, il quale subito cominciò a servire da quartiere per i soldati: destinazione cui anche adesso inserve, ogni anno aumentato di nuove costruzioni. Lo Stato trasse poco vantaggio da tale soppressione e nessuno Piacenza. Infatti tutte le ricchezze dei Lateranensi furon attribuite in dote all’’Ospedale di Parma, ingiustamente privandone il nostro che ben maggior diritto aveva, comechè quella dovizia provenisse in origine da legati e donazioni di Piacentini all’antichissimo Ospedal di Cadeo. Così gli avi nostri avranno nell’occasione dovuto ripetere il virgiliano “sic vos non vobis”. Vogliamo ricordare l’arrivo fra noi il 29 di settembre 1798 del generale Victor, alla testa di dodicimila uomini: e l’incendio la sera del 24 dicembre del teatro ducale di Cittadella, incendio nel quale, si vociferò, potesse avere avuto mano nientemeno che il Governo, comechè temesse vi si tenessero quelle che oggi si direbbero” dimostrazioni popolari” contro il Duca e i suoi ministri. Registriamo beninteso il si dice per dovere di esatti cronisti. (storia di piacenza di francesco giarelli 1890, librajo editore vincenzo porta).
teatro ducale dei farnese