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il Circo a Piacenza


Il campo giochi Daturi venne inaugurato intorno agli anni ’60 su un’ampia area situata sul fianco nord di Palazzo Farnese. Quel terreno, di parecchi metri al di sotto del livello del palazzo stesso e dell’adiacente viale Risorgimento era semi abbandonato da anni. Nei primi anni ’50 era il luogo deputato per le nostre scorribande pomeridiane dopo la scuola. Lì si consumavano i nostri fanciulleschi riti sportivi. Per quanto sconnesso e sporco quel terreno era il nostro venerato campo di calcio. Le porte non esistevano, provvedevamo noi a crearle togliendoci i cappotti nella stagione fredda e ammucchiandoli su due lati a formare degli immaginari paletti. In estate portavamo le cartelle con la merenda per adibirle alla stessa funzione. A me piaceva giocare a calcio ma ero una schiappa nelle attività sportive per cui spesso facevo l’arbitro o il portiere quando non mi cacciavano via dalla disperazione. Tra i compagni delle elementari ricordo che uno dei più dotati era Sergio Pagani, titolare oggi di due avviati negozi di ottica cittadini. Con Sergio centravanti qualche volta osavo cimentarmi anch’io sul campo come attaccante poiché tra noi c’era una certa intesa. Anche all’epoca delle medie continuammo a frequentare quello spiazzo per le nostre partite. Ma quell’area era da bonificare poiché col tempo era diventata luogo di incontri mercenari nelle ore notturne e regno incontrastato di toponi e pantegane che anche di giorno si aggiravano indisturbate sotto lo sguardo sbigottito dei passanti. Così quando finalmente si decise di ripulirlo e trasformarlo in un campo adibito alle più varie attività sportive la decisione venne accolta con giustificata soddisfazione da parte di molti. Io però pensavo con un pò di tristezza che lì non avrei più rivisto il grande tendone del circo, le roulotte e i carrozzoni con le gabbie degli animali feroci che tante volte da ragazzino avevo ammirato. Infatti ogni volta che un circo visitava Piacenza era lì che piantava le sue tende data la comodità di essere non lontano dal centro città e su un’area dove poteva sistemarsi con ogni comodità.


veduta del campo Daturi

A quell’epoca amavo il circo, mi affascinava quel mondo favoloso di acrobati, di belle donne velate in costumi discinti, di sfavillanti coreografie allietate negli intermezzi da esilaranti clown e buffoni squinternati. Ma erano i domatori il pezzo forte di quegli spettacoli: le belve entravano nella grande gabbia centrale attraverso corridoi di robuste sbarre, accompagnati dalle note trionfali dell’Aida eseguite dalla banda circense. Il domatore, vestito da far invidia a un torero, le addomesticava con una lunga frusta che faceva schioccare per sottolineare i comandi che impartiva alle belve. Esse salivano su alti e larghi sgabelli ed eseguivano numeri accompagnati dall’ovazione dei presenti. A me già allora facevano un pò pena quelle tigri e quei leoni tenuti in cattività e ridotti a zimbello di un pubblico insensibile e avido di emozioni. Preferivo gli acrobati che spesso eseguivano evoluzioni da brivido. Io che soffrivo di vertigini se soltanto salivo tre gradini di una semplice scala ero affascinato dall’audacia dei numeri eseguiti a molti metri d’altezza con attrezzi che volavano per il cielo e sui quali con perfetta sincronia si lanciavano quegli audaci. Un errore poteva costare caro anche se poi vennero poste sempre più spesso delle reti a proteggere eventuali cadute. Ma queste furono sempre rare poiché quella gente del circo era preparatissima ed io pensavo alle estenuanti prove a cui si era sottoposta per raggiungere simili eccellenze. A parte gli spettacoli, a cui spesso assistetti con mio padre, pure lui amante del circo, mi piaceva visitare le gabbie con gli animali esotici di quegli strani zoo viaggianti. Ricordo che si poteva di mattina, ad una certa ora, entrare nella zona delle gabbie contenenti gli animali previo rilascio di un biglietto per una modica spesa. I circhi grandi si facevano annunciare da depliand illustrati con indicazioni dei giorni di visita agli animali, di date e orari degli spettacoli e del periodo di permanenza in città. Erano quasi sempre gli stessi ed appartenevano a poche storiche famiglie che già da decenni esercitavano l’attività circense: il circo Palmiri, quelli dei Togni, di Moira Orfei o della cugina Liana, il Circo Medrano. Di quest’ultimo ricordo bene gli enormi pachidermi, tenuti fermi da una grossa catena di ferro alle zampe che mi colpirono per quella pelle durissima e squamata che avevano e per le grandi zanne d’avorio quasi totalmente segate. Ma vidi spesso anche piccoli circhi a conduzione famigliare che s’accampavano nel futuro campo Daturi per qualche giorno. I loro carrozzoni erano pochi, piccoli e meno appariscenti. Spesso il tendone era rattoppato e la pista assai stretta. Costoro più che artisti circensi parevano zingari, il loro unico patrimonio zoologico era spesso un vecchio leone semi cieco, qualche cavallo denutrito e poche scimmiette spelacchiate. I loro numeri erano limitati a qualche esercizio ginnico, al lancio di coltelli e a certi grotteschi clown dalla battuta scurrile. Erano assai simili a quei patetici personaggi che Fellini, affascinato da quel mondo un po’ crepuscolare, ha immortalato nella celebre pellicola “Le notti di Cabiria” e più tardi ne “I clown”, con gli Orfei tra i protagonisti. Questi circhi erano davvero un microcosmo a parte, con le sue regole e i suoi rituali. Proprio in quegli anni era uscito un filmone hollywoodiano di Cecil B. de Mille con grandi star come Charlton Heston, James Stewart, Dorory Lamour che mostrava come doveva essere la vita all'interno di un grande circo: “rivalità, trionfi, incidenti, passioni, allenamenti, colpi di scena”. Anche questo aveva contribuito ad accrescere la mia passione per “Il più grande spettacolo del mondo”, tale era infatti il titolo italiano di quel film che ebbe anche due Oscar. Una celebre frase pronunciata dallo spiker del film, così recitava. “Ma tutti tornerete a rivedere il Circo. Piccoli e grandi, uomini e donne! Potrete scuotere la segatura dai vostri piedi ma non la toglierete dai vostri cuori perché questo è il più grande spettacolo del Mondo, e voi ci tornerete!"


Opilio Faimali, il grande domatore piacentino

A Piacenza il circo vantava illustri presenze. Piacentino fu, tra l’altro, uno dei più celebri domatori dell’ottocento, quell’Opilio Faimali, nativo di Gropparello, che divenne una vera leggenda tra la gente del circo, primo ad entrare nella gabbia delle bestie feroci senza armi o frusta. Oltre ai già citati grandi circhi, agli inizi del novecento, nell’aprile del 1906, in un’area prossima a via Castello, dove allora non era sorto ancora l’Arsenale militare, pose le sue tende il celebre circo equestre di Buffalo Bill, “Wild West”, (500 uomini e circa 1000 cavalli) con tanto di pellerossa autentici e cowboy esperti negli spettacolari rodei. Conservo un raro opuscolo dell’epoca che illustra le imprese semi circensi del colonnello Cody e dei suoi altrettanto celebri colleghi approdati dal selvaggio west americano fino alle città europee in un tour che, a detta dei cronisti d’allora, risultò alquanto sfortunato. Ma a Piacenza l’evento ebbe ampia risonanza facendo accorrere una folla straordinaria dalla Provincia e dalle vicine città.


copertina illustrata del Circo di Buffalo Bill

In quel libretto che costava 50 centesimi a che si poteva acquistare agli sportelli del circo, veniva fatta una storia succinta delle imprese del Colonnello Cody e degli esercizi che si sarebbero eseguiti durante lo spettacolo. Era abbondante in esso la presenza di quelli che oggi chiameremmo sponsor, segno che già allora la pubblicità la faceva da padrona. Fa comunque una certa impressione, scorrendo le pagine di quell’antico opuscolo, vedere accostate le mitiche imprese degli eroi del west con la pubblicità di una fabbrica di gomme o di una nota casa produttrice di amari. Sono del parere che la commercializzazione di certi miti nuoccia loro grandemente come avvenne per l’indomito eroe americano. Ma certo mi sarebbe piaciuto poter assistere a quello spettacolo che fu sicuramente un grande evento per la nostra piccola città. Mi immagino che qualche parente di mia madre, forse mio nonno stesso, vi abbia assistito poiché quell’opuscolo me lo diede proprio lei ed era conservato gelosamente tra i cimeli di famiglia. (Giorgio Vecchi).