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Piacenza prima di Placentia

“Ambiente e Insediamento Umano”

Quello che segue, non é un trattato scientifico. E’ solo un racconto fantastico, dove le premesse geografiche (probabilmente veritiere) ne determinano la trama, incanalandola su binari obbligati. Malgrado il suo volo di fantasia, questo racconto potrebbe tuttavia contenere molti elementi di verità, e molti spunti per ricerca scientifica e riflessione. Buona lettura. Dott. Giulio Zanelli.

Negli 8 secoli che precedettero la fondazione di Piacenza, l'aspetto della pianura padana era molto diversa dall'attuale. Salvo poche e limitate aree disboscate per una rudimentale agricoltura, la pianura padana era coperta da una intricata foresta di decidue, con un fittissimo sottobosco. Questa foresta era in diretta continuità con quella collinare e montana, ma flora e fauna erano sostanzialmente diverse. Per capire come, dobbiamo prima prendere in considerazione il Po e la Trebbia, le cui caratteristiche erano sostanzialmente differenti da quelle odierne, e che risultarono fondamentali perché Piacenza sorgesse proprio lì, dove ancora oggi si trova. Innanzi tutto, Po e affluenti godevano di una portata d'acqua molto superiore all'attuale, perchè i ghiacciai alpini erano molto, molto più estesi di oggi, e anche fra gli Appennini persistevano diversi pur limitati ghiacciai. Molto noti sono in alta Val Nure i ghiacciai che un tempo riempivano le conche del Lago Nero, Lago Moo, Lago Bino, Prato bagnato. Mutatis mutandis, ve ne erano diversi ed estesi anche in alta Val Trebbia e Val D'Aveto. Tornando al Po, esso era ampiamente navigabile dal delta fino a Pavia (la cito come riferimento, ancora non era stata fondata), anche da parte delle navi provenienti dall'Adriatico, che avevano fondo piatto, e in mare navigavano di regola strettamente vicino alle coste. L'alveo del fiume, molto più largo dell'attuale, permetteva alla corrente di essere molto lenta, e quindi il fiume poteva essere risalito a forza di remi. Anche la Trebbia aveva in tutto e per tutto le caratteristiche di un fiume perenne, e non di torrente come oggi, ed era probabilmente navigabile almeno fino a Rivergaro, se non a Travo, dove forse esisteva un approdo almeno per le barche o piroghe in corrispondenza dell'insediamento neolitico scoperto recentemente.


esondazione del Po nella pianura

Il Po era allo stato naturale, senza argini. Durante le piene stagionali (autunno – primavera) poteva esondare liberamente nella pianura circostante, con diverse conseguenze: l'acqua rimaneva comunque bassa, e la corrente lenta, sia al centro dell'alveo, sia nei terreni esondati, dove, dalle nostre parti, l'acqua poteva arrivare a lambire la base delle nostre prime colline, sia pure con pochi centimetri di profondità. Quindi, due volte all'anno la nostra pianura si trasformava in una estesa palude, che poteva impiegare parecchio tempo ad asciugare, mentre permanevano numerosi stagni, la dove il terreno presentava qualche leggera depressione. Le conseguenze sulla flora e la fauna sono immaginabili, entrambe tipiche dei terreni umidi, se non palustri. L'ambiente era tutto sommato malsano (le zanzare prosperavano, anche se non si ha notizia della presenza in loco della malaria). Per questo motivo le popolazioni preferivano vivere in luoghi più salubri, cioè sulle colline, ma abbastanza vicino alla pianura da poter andare a caccia e a pesca negli stagni e nel fiume, e per i loro traffici commerciali con le genti che popolavano l'altra riva del Po. Facevano eccezione gruppi numerosi che, incuranti delle zanzare, dei serpenti e quant'altro, del Po e sul Po ci vivevano e prosperavano. Questi gruppi abitavano sulla riva o nelle immediate vicinanze, su villaggi di palafitte (resti a Mortizza, Caorso e Monticelli): come si è detto le piene del grande fiume si risolvevano solo in un allagamento esteso, senza che l'acqua salisse più di tanto e che la corrente diventasse vorticosa. Sulle palafitte, le popolazioni erano perfettamente all'asciutto e al sicuro. A volte i villaggi di palafitte venivano circondati da un terrapieno di protezione, al cui interno comunque l'acqua veniva tenuta alta, grazie ad un sistema di canali, anche quando il Po era in magra. Questo tipo di villaggio, chiamato terra-mare, era piuttosto comune lungo le rive di tutto il corso del grande fiume; esso garantiva la massima protezione possibile dai predoni terrestri e dai pirati di fiume. L'incontro – scontro delle grandi correnti del Po e di quella della Trebbia, che trasportavano enormi quantità di terra e detriti ghiaiosi, in particolare durante le grandi piene primaverili e autunnali, generò nei millenni due eventi che avrebbero avuto una straordinaria importanza per la storia degli uomini. Lo scontro delle correnti, rallentando notevolmente entrambe, provocò il formarsi di enormi depositi di terra e ghiaia trasportate dai due fiumi, in particolar modo dalla Trebbia..


veduta di un antico villaggio palafitticolo

La prima conseguenza fu un netto innalzamento del letto del Po, proprio in corrispondenza della foce del Trebbia: si formò così un guado sicuro, che risultò poi l'unico esistente per centinaia di Km del corso del grande fiume. Per un motivo molto semplice : nessuno degli altri affluenti di destra del Po, aveva una portata d'acqua paragonabile alla Trebbia, mentre i grandi fiumi affluenti di sinistra (Ticino, Adda, Oglio, Mincio) avevano già scaricato nei grandi laghi del Nord, allora molto più vasti ed estesi di come sono oggi, e quindi giungevano al Po già “depurati” dei loro sedimenti. La seconda conseguenza, fu che a partire da alcuni km prima di immettersi nel Po, la Trebbia depositò all'interno del suo corso enormi ed estesi cumuli di detriti, vere e proprie isole, capaci di raggiungere in alcuni punti l'altezza di 10 mt. sul normale livello del fiume, con una altezza media di circa 7 mt. Questi grandi isolotti provocarono un notevole allargamento della foce del Trebbia, che risultò spezzettato in diversi rami secondari, in una sorta di delta. Ma da un vero delta, in realtà differiva parecchio : ce lo rivelano rilevamenti topografici eseguiti dagli aerei. Da essi si vede come il Trebbia nel suo corso di pianura, abbia formato un gigantesco cono con vertice nei pressi di Ancarano. La base (corrispondente al corso del Po, allora forse più lineare di oggi) si estendeva da Calendasco (ramo secondario più a Ovest) fino a Mortizza (ramo secondario più a Est, quest'ultimo si fondeva nell'ultimo tratto con il corso del Nure). Nel mezzo, come si è detto, vaste isole di ghiaioni e terra, soprelevati in media di circa 7 metri, e fra una e l'altra isola, più o meno estesa, vari rivi secondari a dividerle. Chi frequentava la zona per vari motivi, non tardò ad accorgersi che sulla sommità di questi isolotti (presto coperti di rigogliosa vegetazione) si rimaneva con i piedi all'asciutto anche durante i periodi di piena del Trebbia e del Po. L'acqua pulita non mancava, così come i pesci; e la selvaggina prosperava in questo habitat. Si era formato, insomma, un sito particolarmente adatto ad un insediamento umano stabile, e quando fu scoperta la concomitante presenza di un guado agevole e sicuro nel Po, l'unico del Nord Italia, fu inevitabile che questo insediamento si verificasse.


sentiero sull’appennino ligure emiliano

Ed ecco come. Dagli insediamenti sulla costa ligure, già forse dal neolitico partivano traffici commerciali diretti oltre l'appennino ligure – emiliano. Cosa si commerciava? Tutto quello che veniva prodotto sulla costa, dal pesce salato, ai prodotti della agricoltura, fra i quali il vino e l'olio d'oliva; merci provenienti perfino dalla Grecia (vasellame) e dall'oriente (prodotti tessili), metalli come lo stagno, introvabile sull'appennino ma indispensabile per forgiare manufatti di bronzo; tutte merci giunte via nave anche da lontano; ma sopra tutto il sale, indispensabile al tempo, e fino ad epoche recenti, per la conservazione del cibo. Nell'attraversare l'appennino, essendo impraticabili i fondovalle (scoscesi e ricchi di ostacoli naturali), le vie carovaniere, ve n'erano molteplici, seguivano il crinale dei monti, per poi ridiscendere nella pianura padana meridionale, a rifornire gli insediamenti su palafitte o terramare che si erano sviluppati lungo la sponda destra del Po. Qui generalmente ci si fermava. E' probabile che qualche merce o manufatto proseguisse oltre il corso del fiume, trasportato su barche o zattere, nella pianura padana settentrionale, ma si trattava di un commercio molto limitato. Poi però fu scoperto il guado del Po in corrispondenza della foce del Trebbia. Un guado facile e sicuro almeno al di fuori delle stagioni delle grandi piogge. Rapidamente, tutte le vie carovaniere provenienti dalla costa ligure vi si diressero, e qui si incontrarono con le vie carovaniere provenienti da Nord. Le carovaniere del Nord, iniziavano per lo più nella profondità delle selve che coprivano l'Europa Centrale, ma alcune traevano origine addirittura dalle rive orientali del Mare Baltico. Spingendosi verso Sud, queste carovaniere valicavano le Alpi attraverso i passi che ancora oggi sono usati, arrivavano nella pianura padana settentrionale, per dirigersi poi verso la costa adriatica e i suoi insediamenti. Almeno per molti secoli. Cosa trasportavano? Possiamo solo ipotizzare: pellami e pellicce conciate; metalli non facilmente reperibili in Italia, fra i quali l'oro grezzo o lavorato in finissimi monili (i celti dell'Europa centrale erano maestri in questa arte); anche l'ambra, preziosissima, molto apprezzata. Poichè l'ambra in tutto il mondo la si ritrova solamente nelle sabbie delle spiagge del Baltico orientale (oggi aree interdette al pubblico), il ritrovamento di monili d'ambra in siti archeologici del neolitico e dell'età del bronzo testimonia quanto lunghe ed estese erano queste carovaniere settentrionali preistoriche. Quando si seppe della presenza del guado settentrionale del Po alla foce del Trebbia, diverse carovaniere settentrionali deviarono dall'itinerario consueto e, in cerca di nuovi mercati, vi si diressero, saldandosi proprio qui, con le carovaniere provenienti dalla costa ligure. Quando parliamo di carovaniera, non possiamo certo pensare che una sola carovana di mercanti, con le loro bestie da soma (somari, muli) e le loro mercanzie viaggiasse dalle rive del Baltico fino alla costa ligure, percorrendo un itinerario che fra andata e ritorno era lungo circa 6000 Chilometri, valicando monti, superando foreste e grandi fiumi, in assenza completa di strade! Certamente funzionava in modo diverso: ogni mercante con la sua carovana portava le sue merci fino a una distanza massima di circa 50 Km; qui incontrava qualche suo collega, con il quale effettuava un ampio baratto, poi tornava indietro alla sua base tutto soddisfatto. Se 50 Km era il probabile raggio d'azione di ogni singolo mercante, la merce tuttavia viaggiava, lungo la carovaniera. Di baratto in baratto, anche mettendoci anni, essa tuttavia riusciva a percorrere l'intero itinerario, fino al punto di origine più lontano. Alcuni anni fa, un gruppo di archeologi in Sardegna disseppellì un nuraghe sconosciuto, che era appena affiorato dal terreno sabbioso nel quale era stato nascosto e dimenticato da 2800 anni almeno. Scavando, al suo interno vennero rinvenute alcune sepolture. Una di esse apparteneva ad una giovane donna sardanha, nobilissima, come testimoniava il prezioso monile che portava al collo. E il monile era un grosso manufatto di ambra! Tenendo presente l'unico terreno dove si può trovare l'ambra, risulta evidente che questo suo cospicuo frammento, raccolto sulle spiagge della odierna Lituania, aveva viaggiato per anni attraverso l'Europa e aveva valicato le Alpi; giunto nella pianura padana, aveva passato il Po quasi certamente nel guado di Piacenza (che ancora non esisteva). Superato infine l'Appennino, era giunto sulla costa ligure, da dove una nave lo aveva trasportato fino in Sardegna. E qui, un Nobile Sardanha decise di acquistarlo per farne dono alla sua amata, spendendo una fortuna (in oro). Ahimè, la fanciulla era destinata a una breve vita, morì giovane, e fu sepolta con il suo amatissimo ornamento, così come si conveniva al suo alto rango.


capanne neolitiche fatte di tronchi, frasche e paglia

Perché siamo abbastanza certi che esso sia transitato attraverso il guado del Po presso Piacenza? Perché le possibili alternative sono improbabili. Mettiamo che fosse giunto sulla riva adriatica e si sia imbarcato su una nave greca, fenicia, o etrusca: difficilmente avrebbe circumnavigato la penisola per approdare in Sardegna. Quasi certamente si sarebbe diretto verso il ricco mercato di Creta, o quello ancora più ricco del Libano (Fenici) per prendere poi la strada dell'Impero Babilonese - Persiano, dove ogni satrapo amava circondarsi di un lusso esagerato. Ugualmente improbabile l'altra alternativa possibile, quella che dall'Europa centrale abbia proseguito verso la Francia centro-meridionale, per poi piegare verso la Costa Azzurra. A parte il fatto che qui non vi era mercato, i Greci dovevano ancora fondare le loro colonie di Nizza e Marsiglia, il tragitto da percorrere sarebbe risultato notevolmente allungato, senza però risultarne decisamente facilitato. No: quel pezzo di ambra dev'essere entrato in Italia decisamente o dal valico del Tarvisio (difficile e scosceso) o più probabilmente dal più agevole Brennero. Sceso poi nel territorio di Trento, sulla riva del Garda, deve avere proseguito via d'acqua fino a Mantova, da qui a Cremona e poi al guado di Piacenza. Dove è passato di mano (per l'ennesima volta). Da qui ha preso la carovaniera appenninica ed è arrivato sulla costa ligure, dove poi è stato imbarcato per la Sardegna. Dunque, il guado del Po divenne il punto di incontro di alcune delle principali vie carovaniere del Nord Italia. Sui ghiaioni e isolotti formati alla foce del Trebbia, dove si stava bene all'asciutto, sorsero di conseguenza ripari per i viaggiatori, le loro merci, e recinti per custodirvi i loro animali da soma. Dapprima erano ricoveri di fortuna, fatti di frasche; poi qualcuno decise di volere maggiore comfort, e costruì vere e proprie capanne di legno con tetto di paglia. Abbandonate dopo che una carovana era transitata, venivano presto occupate da una in arrivo, che nel caso, provvedeva a rimetterle in sesto. Probabilmente qualcuno sentì l'esigenza di costruire anche un vero e proprio capannone (eufemismo) dove poter trattare gli affari (cioè i baratti) al coperto, con più comodità e tranquillità. Andò a finire che, a questo punto, qualcuno venne lasciato di guardia per preservare le costruzioni, effettuarne la manutenzione e renderle più confortevoli; che qualcun'altro decise di fermarsi lì, e di fornire servizi (riparo al coperto, cibo, vino, donne, animali da soma freschi) ai mercanti in arrivo e in partenza e ai loro uomini, l'embrione di una rudimentale locanda; e qualcun'altro ancora decise di commerciare stabilmente lì, accumulando merce in arrivo in appositi magazzini (anche qui uso un eufemismo) per scambiarla con altra merce : una sorta di intermediario, magari capace anche di fare da interprete fra celti e liguri e poi etruschi (che parlavano tutti idiomi diversi). Sì, perché i mercanti etruschi non avevano tardato a venire a conoscenza che era sorta una stazione di Posta in corrispondenza del guado occidentale del Po. E avevano cominciato a frequentarla assiduamente. In definitiva già fra l'VIII° e il VI° secolo, si era formato un agglomerato abitato stabile, che con gli anni si era piuttosto ingrandito, acquisendo una notevole importanza commerciale, per quei tempi. Poiché serviva ad almeno tre popoli diversi, nessuno si sognò di attaccarlo per saccheggiarlo. Quale il nome dato a questo centro abitato dai liguri? Dai Celti? Dagli Etruschi? Non lo sapremo mai, Liguri e Celti non conoscevano la scrittura, tramandavano le loro tradizioni oralmente. Assorbiti secoli dopo dai Romani, la loro lingua si perse nelle nebbie del tempo, sopravvivendo solo in qualche termine dialettale (dell'età romana). Chissà se qualcosa sopravvive anche oggi? Magari in uno dei diversi dialetti delle nostre vallate, ognuna delle quali aveva il suo, ed anche più di uno, a seconda che si consideri la bassa, la media o l'alta valle. E comunque oggi vengono parlati solo da poche persone molto anziane. Peccato non aver fatto una ricerca linguistica comparativa per tempo, cioè prima dell'avvento della televisione, quando nel diffuso analfabetismo tutti parlavano quasi esclusivamente in dialetto. Forse avremmo potuto trovare tracce etnologiche molto interessanti. Adesso è troppo tardi. Gli Etruschi, invece conoscevano la scrittura. La loro lingua è stata decifrata soltanto da pochi anni, ma questo popolo misterioso lasciò solo iscrizioni funerarie che si possono osservare all'interno delle loro necropoli. Di loro non ci sono pervenuti né documenti, né opere letterarie. Almeno nel Lazio, loro assimilazione da parte dei Romani (e dei Latini loro “comites”) fu rapida e completa, tanto che essi scomparvero quasi all'improvviso, come popolo, come lingua e come cultura. Eppure avevano dato gli ultimi tre Re a Roma stessa, poi, con l'avvento della Repubblica Romana, …puff! Gli Etruschi svanirono. Gli Etruschi di Toscana, invece durarono un poco più a lungo, si sa che aiutarono spesso i Galli nei loro periodici tentativi di scorribanda nell'Italia centro-meridionale. Finch'é vennero anch'essi completamente Romanizzati nel II° secolo. No, non sapremo mai come Liguri, Celti ed Etruschi chiamassero la “nostra” stazione di Posta. Sospetto, tuttavia, che il nome potesse essere tradotto in Latino, con il termine di..“Placentia”!.


antico insediamento romano

una Brutta Avventura

Un giorno, nel primo pomeriggio, un viandante arrancava nel folto della foresta pluviale. Era partito dalla stazione di Posta vicino al guado, alle prime luci dell'alba, ed era diretto alla collina più vicina, dove sapeva esistere un piccolo villaggio. Lo avrebbe raggiunto sul far della sera, se tutto andava bene, e avrebbe prestato la sua opera di indovino da strada, in cambio di una buona cena e di qualche scorta di cibo per continuare il suo peregrinare verso il mare, al di là della corona dei monti. I suoi abiti, piuttosto logori dopo tanto vagabondare, così come il suo strano copricapo, erano tuttavia ancora riconoscibili come di foggia etrusca; sulla spalla destra reggeva una sacca di pelle altrettanto logora, che conteneva le sue poche cose, fra queste, alcuni strumenti del suo mestiere. Saltabeccando qua e là per non bagnarsi i piedi, l'aruspice superò un piccolo acquitrino, residuo di una recente esondazione del vicino torrente, poi, facendosi largo fra cespugli di rovi e una macchia di grandi olmi, si ritrovò in una piccola radura, e qui si immobilizzo di colpo. Non era solo, ed era in grave pericolo! In mezzo alla radura, un enorme cinghiale grufolava cercando tuberi nel terreno. L'uomo restò immobile nell'ombra, sperando di non farsi notare; ma fu inutile. Il cinghiale lo fiutò, si volse verso di lui e partì alla carica. Con il cuore in gola, il vagabondo si girò per cercare scampo in una improbabile fuga, ma nella concitazione dopo pochi passi inciampò in una grossa radice che affiorava dal terreno, e cadde lungo disteso. In effetti fu la sua salvezza: miope come tutti i suoi simili, il cinghiale lanciato alla carica non vide l'uomo, steso sul terreno, parzialmente coperto dai rovi, e continuò diritto la sua folle corsa, perdendosi nel folto della foresta. Dopo alcuni momenti, superato lo spavento e ormai certo che il pericolo si era allontanato, il viandante etrusco si rimise in piedi, si rassettò le vesti e andò a recuperare pochi metri più avanti, copricapo e sacca che aveva lasciato cadere durante il suo maldestro tentativo di fuga. Copricapo in testa e sacca di nuovo in spalla, l'uomo si girò controllando intorno, timoroso di un ritorno della bestia; ma tutto sembrava tranquillo e lui riprese a camminare per continuare il suo viaggio. Solo a tarda sera, quando senza altri problemi fu giunto al villaggio che era la sua meta di quel giorno, solo allora controllò il contenuto della sacca, e si rese conto che nell'incidente con il cinghiale aveva perduto il più prezioso dei suoi strumenti da lavoro. Si trattava di un piccolo oggetto di bronzo, sagomato a forma di un fegato di pecora, sulla cui superficie il suo maestro e mentore aveva inciso molti anni prima le rune con i diversi significati divinatori. Una sorta – diremmo noi – di manuale tascabile dell'indovino. Sconsolato, l'Etrusco pensò di ritornare l'indomani sui suoi passi per cercarlo, ma poi capì che nell'intrico della foresta che aveva percorso, il suo prezioso strumento divinatorio era perduto per sempre.

E invece no! 2500 anni circa più tardi, lo trovò un bracciante che zappava in un fondo agricolo vicino a Caratta (che è una frazione di Gossolengo). Oggi di trova nel nostro museo civico: il famoso “Fegato Etrusco”. (Dott. Giulio Zanelli).


il fegato in bronzo di Piacenza