penna

il monumento ai caduti del 65° Fanteria

nella caserma De Sonnaz

di Filippo Lombardi

Alla fine del settembre scorso il Comune di Piacenza ha firmato a Roma, presso l’Agenzia del Demanio, un protocollo d’intesa per la valorizzazione di alcuni immobili pubblici sul territorio comunale. Questo “Programma unitario di valorizzazione territoriale” ha l’obiettivo di “attivare un iter organico di razionalizzazione, ottimizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico presente nella città, in coerenza con le strategie di sviluppo territoriale, con gli indirizzi di programmazione comunali e con la pianificazione urbanistica avviata, in particolare rispetto al Piano strutturale comunale”; si cerca sostanzialmente, di dare un senso alle numerose aree abbandonate di Piacenza. Fra i dodici beni di proprietà dello stato che saranno inseriti in questo programma c’è la caserma De Sonnaz , ubicata in via Castello in quello che fu un palazzo dei Conti Scotti di Sarmato, trasformato in caserma dopo il 1860. In attesa di capire cosa sarà di questo immensa costruzione, vogliamo porre all’attenzione di tutti una riflessione su un’opera d’arte che è situata all’interno del complesso, e che rischia di andare perduta in assenza di manutenzione e di una adeguata collocazione: stiamo parlando del monumento ai caduti del 65° reggimento di Fanteria. Il 65° reggimento fanteria, appartenente alla Brigata Valtellina, venne inviato di stanza a Piacenza all’inizio degli anni ’20, al termine della prima guerra mondiale alla quale aveva partecipato versando un generoso contributo di sangue: fra ufficiali, graduati e soldati il reparto ebbe nella Grande Guerra 1485 morti, oltre 1000 dispersi e circa 6000 feriti. Non stiamo parlando propriamente, quindi, di uno dei reparti ”storici” di Piacenza, ma con la città si sviluppò da subito uno stretto legame, suggellato dal fatto che i militari intervennero spesso in aiuto della popolazione in occasione delle frequenti piene del Po.


copertina del fascicolo dedicato al 65° fanteria stampato a piacenza
La genesi del monumento. Il monumento nacque nel pieno periodo del cosiddetto “fervore monumentalista” che vide, dopo la fine della prima guerra mondiale, sorgere in ogni piazza un ricordo di chi aveva sacrificato la propria vita. Il monumento ai caduti della piazza di un paese, assumendo in sé il compito di cicatrizzare le ferite morali, diventava, oltre che luogo di commemorazione, anche luogo di aggregazione sociale, specificità che oggi è andata perduta sostituita da finte piazze all’interno di posticci centri commerciali. In realtà la prima forma di ricordo fu la realizzazione dei Viali o Parchi della Rimembranza, ponendo a dimora alberi dedicati personalmente ad un caduto la cui cura era affidata agli alunni delle scuole; ma i Viali o i Parchi furono una scelta minoritaria rispetto alla scelta della maggior parte delle municipalità, ovvero la realizzazione di veri e propri monumenti. I monumenti ai caduti della prima guerra mondiale sono quasi tutti caratterizzati da un tono nettamente scultoreo, con un vasto repertorio di obelischi, vittorie alate, stelle, fanti all’attacco, fanti morenti, fanti nella braccia della madre o dell’Italia, colonne, tutte opere in pietra o bronzo spesso ispirate allo stile liberty. Si cominciò con iniziative spontanee ma in breve si assistette al sorgere di un autentico movimento architettonico che si sviluppò con un vero e proprio dibattito culturale attraverso il coinvolgimento, sulle riviste specializzate, dei migliori esperti del settore urbanistico. Bisogna poi ricordare che ai tanti monumenti sorti in quel periodo corrispondono altrettanti scultori, professionisti e dilettanti, che per anni ebbero come attività quella di partecipare ai concorsi presentando i loro bozzetti e i loro progetti. Ai concorsi dotati di cospicue dotazioni finanziarie, come era il caso delle grandi città capoluogo di provincia, partecipavano illustri personaggi, che avevano alle spalle una solida formazione culturale e artistica; ma al diminuire della disponibilità economica corrispondeva spesso anche una diminuzione della capacità concettuale, soprattutto per la presenza di modesti plastificatori e scalpellatori, veri e propri mestieranti estemporanei, per i quali la realizzazione di un monumento ai caduti rappresentava l’unica, o quasi, occasione della vita. Questa variabile umana ci rende ragione della estrema varietà estetica e della diversità delle dimensioni dei monumenti che riempiono le piazze dei nostri paesi: ma tutte le località italiane ci tenevano ad averne uno e i comuni che non avevano abbastanza denaro per costruirlo murarono una lapide sul Municipio o sulla Chiesa. Il monumento della caserma De Sonnaz si discosta da questo movimento per una sua specifica caratteristica storica: non fu infatti originato da un concorso pubblico indetto da un municipio, non fu caldeggiato e sostenuto da un comitato di cittadini, di feriti, di parenti dei caduti o di reduci. La sua genesi e la sua realizzazione sono tutte militari: l’iniziativa fu lanciata sul finire del 1921 dal comandante del reggimento, il colonnello cav. uff. Gioacchino Parenzo, che raccolse l’adesione di ufficiali, sottufficiali e soldati in servizio. L’opera fu voluta e creata esclusivamente dai commilitoni del reparto senza alcun concorso estraneo; anche il suo pagamento fu effettuato con il contributo dei militari di leva, che versarono un soldo per ogni cinquina per raggiungere, insieme alle cifre più cospicue messe a disposizione dagli ufficiali, la somma necessaria al suo pagamento. Infine, anche lo scultore che lo realizzò, il cavalier Riccardo Monti, viene indicato da alcune fonti come ex del reggimento.


il monumento al 65° Fanteria

L’autore. Francesco Riccardo Monti nacque nel 1888 a Cremona, ultimo di una dinastia di scalpellini e scultori. Seguì una scuola di decorazione per le arti ornamentali e meccaniche, e studiò poi scultura all’Accademia di Brera, dove a conclusione del corso ottenne il massimo dei voti. La sua prima attività artistica si svolse a fianco del padre per la realizzazione di numerosi monumenti funebri di carattere familiare collocati nei cimiteri del Cremonese e delle zone limitrofe. Nel 1910, con la statua intitolata Veritas, vinse la medaglia d’oro alla Prima Esposizione d’arte cremonese, e l’anno successivo realizzò un medaglione in bronzo con il ritratto di Garibaldi posto a Medole in provincia di Mantova. In occasione del centenario della nascita di Giuseppe Verdi, nel 1913, realizzò a Busseto la lapide con medaglione in bronzo raffigurante il maestro collocata sulla facciata delle scuole di S. Agata. L’anno successivo vinse il concorso per la realizzazione della statua in bronzo del senatore Giuseppe Manfredi, elemento principale del monumento inaugurato a Cortemaggiore in suo onore. Con lo scoppio della prima guerra mondiale Monti venne mobilitato il 21 maggio 1915, venne ferito in battaglia a un occhio e fu in convalescenza a Piacenza. Tornato al fronte nel febbraio 1916, ricevette il grado di caporale.

Dopo la fine del conflitto realizzò, tra il 1919 e il 1923, una serie di monumenti e targhe marmoree dedicate ai caduti della Grande Guerra: a Monticelli d’Ongina (1920), Casalbuttano (Cremona, 1921), Acquanegra (Cremona, 1922), Stagno Lombardo (Cremona, 1923). Sul finire del 1924 fu insignito dell’onorificenza di cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia e nel 1926 realizzò il Monumento al fante di cui ci stiamo occupando. Il 1928 fu contrassegnato da una grande delusione per lo scultore il quale, dopo aver partecipato a un concorso promosso dalla sua città natale per la realizzazione del Monumento ai caduti austro-ungheresi, venne a sapere che la commissione, pur avendo preferito il suo bozzetto, aveva dovuto far vincere un altro artista. L’idea del monumento non ebbe poi seguito ma egli, segnato profondamente da questo episodio, nel 1929 decise di partire e il suo peregrinare lo portò infine a Manila. Nel 1930 vendette la casa e lo studio e, con la famiglia, si trasferì definitivamente nelle Filippine. Qui realizzò numerose opere fra le quali vanno ricordate l’apparato scultoreo esterno e interno del Metropolitan Theater, andato distrutto nella seconda guerra mondiale, un grande gruppo scultoreo in bronzo raffigurante l’eroe nazionale filippino Andrés Bonifacio, la statua di Maria Vergine nella chiesa di S. Spirito e la statua di Nostra Signora del SS. Sacramento per la chiesa di S. Croce. Nel 1934 ad Hong Kong realizzò una grande statua in bronzo dedicata al generale Tan. Durante l’occupazione giapponese fu accusato di collaborare con la resistenza filippina e venne incarcerato; condannato alla fucilazione, si salvò dal plotone di esecuzione solo per intercessione del delegato apostolico monsignor Guglielmo Piani. Nel dopoguerra fu incaricato di scolpire numerose statue allegoriche da collocare nell’edificio maggiore dell’università Santo Tomas di Manila tra le quali si ricordano, in particolare, quelle raffiguranti la Fede, la Speranza e la Carità situate accanto al gigantesco orologio della facciata. In questa stessa università fu nominato professore di scultura nella facoltà di architettura e belle arti, della quale, nel 1952, divenne direttore. Morì il 12 agosto 1958 per le conseguenze dovute a un incidente automobilistico, e venne sepolto nel cimitero di San Filippo Neri a Mandaluyong, nei sobborghi di Manila.


francesco riccardo monti

Il monumento. Il monumento fu inaugurato la mattina del 25 luglio 1926 dal successore del colonnello Parenzo, il colonnello cav. Antonio Gallina, con una semplice cerimonia svoltasi all’interno della caserma. Si rinunciò al fasto e alla cerimoniosità che accompagnano abitualmente le inaugurazioni e si celebrò una manifestazione austera, contenuta, per dare maggior significato al motto del reggimento. Si racconta infatti che un veterano, dopo avere ascoltato il retorico discorso di un generale sedentario che non aveva partecipato alle azioni di guerra, scrisse con il gesso la frase “Non vogliamo encomi”, che d’Annunzio rese poi a suo modo in latino con il motto “Per se fulget”, di cui si fregiarono i fanti del 65°. Il monumento è molto alto: sopra un basamento di pietra si ergono le figure di due soldati: uno è steso a terra e nel momento della morte lancia uno sguardo all’altro che, fieramente, impugna il Tricolore. Ma per meglio capire ciò che significarono la cerimonia e il monumento in quel momento storico è necessario calarsi nel clima dei tempi, e scorrere le righe con le quali veniva presentato il monumento. Sono parole oggi difficili da leggere e da comprendere, scritte in tempi diversi dai nostri, come diverso era il sentire di allora; tempi in cui, per il rispetto dovuto ai morti della Grande Guerra e ai sacrifici sopportati da chi era tornato, la parola Fante veniva scritta con la F maiuscola.

“Rocce di marmo sarnico elevano, sulla loro vetta, un fiero Fante. Forte, vigoroso, saldamente costrutto nella piena modellazione di una perfetta linea maschia. Il corpo eretto, proteso in avanti, con la destra, dislacciata la giubba, in fiero gesto di sublime offerta, protende il possente e vigoroso petto nudo, baluardo leale e intangibile alla difesa del Tricolore che cinge stretto al suo braccio sinistro come cosa la più cara e sacra, sopra la sua esistenza. Sotto l’elmetto, il maschio volto sereno, fiero della sua offerta, lancia impetuoso il canto gagliardo, ben noto all’umile Fante, raccolto nella semplice parola Dovere. Sui massi, ai piedi dell’offerta del Fante, un altro soldato è riverso, esanime, colpito mortalmente: i suoi occhi si sono volti verso il Tricolore, per l’ultimo addio, e si sono spenti sereni con la visione radiosa della Patria grande. E il corpo vigoroso è rimasto accasciato, inerte nella sua alta significazione del sacrificio, olocausto prezioso per il dovere compiuto! Il contrasto calmo ed efficace delle due figure trova in una armonia di composizione scultorea la più immediata espressione comunicativa. Assurge il senso nobilissimo del dovere sul sacrificio; sovrasta lo spirito vigoroso del Fante ardimentoso sulla triste serenità del caduto.”

Le due figure, come spesso accadeva all’epoca, furono fuse col bronzo di cannoni austriaci catturati e il loro peso raggiunge circa 22 quintali. Negli stessi giorni della inaugurazione per i tipi dell’editore Mario Casarola di Piacenza fu pubblicato il libro “Cenni storici del 65° reggimento fanteria” che fu preparato, anche se sul volume non c’è indicazione dell’autore, dal maggiore Antonino Mori. Sono passati 86 anni, e da allora il monumento al 65° veglia nella caserma De Sonnaz, che in anni successivi è divenuta poi sede del Distretto Militare di Piacenza: ha visto sfilare tante generazioni di diciottenni piacentini che si avviavano alla visita di leva, e alla sua ombra tanti ragazzi, provenienti da tutta Italia, hanno dato un anno di servizio al nostro paese.

Oggi. Ora il monumento, con la chiusura della caserma avvenuta nel 1996, si trova in uno stato di abbandono, al centro del giardino del grande palazzo. Non è del tutto dimenticato, come provato dal fatto che periodicamente sulla stampa di parla di lui. Ai primi di luglio 2008 la stampa di Piacenza dà notizia di un interessamento del Comando Pontieri, che vorrebbe recuperare un’opera “cara all’istituzione militare” per darle nuovamente una degna collocazione, che sia consona alla sua storia, ai suoi significati e all’importanza del suo autore. Questa volontà si scontra con problemi tecnici ed economici, in quanto per spostare il monumento la Sovrintendenza ai beni architettonici e artistici delle provincie di Parma e Piacenza chiede vengano prodotti numerosi complicati documenti e relazioni tecniche, che l’Esercito Italiano non è in grado di produrre né, stante le difficoltà di bilancio, di commissionare.


la caserma de sonnaz in via castello ex sede del distretto militare
A seguito di questo articolo, alcuni giorni dopo si legge una notizia “choc”: il Comune di Caorso manifesta l’intenzione di richiedere ufficialmente il monumento. La giunta comunale infatti approva all’unanimità il progetto di chiedere la statua per collocarla all’interno di un parco, di futura realizzazione, dedicato ai caduti di tutte le guerre. Si tratta di una iniziativa che sembra non aver avuto poi seguito in quanto nell’anno successivo, il 2009, una mozione della Circoscrizione I chiede al Comune il recupero del monumento ma da Palazzo Mercanti, come ricordano più tardi i sottoscrittori della mozione, non giunge alcuna risposta. Al marzo 2010 risale una ulteriore mozione mirata alla sistemazione del monumento e sulla stampa, che ricorda che oltre alla candidatura di Caorso sembra sia stata avanzata anche una richiesta da Torino, compare l’ipotesi che il monumento venga collocato al Polo di Mantenimento Pesante, l’ex arsenale di viale Malta. Una collocazione concertata con le autorità militari, che anche se non prevede una fruizione pubblica dell’opera ne permetterebbe comunque una certa valorizzazione. Anche questa possibilità sembra esaurirsi senza lasciare traccia, e passa un altro anno senza che si parli del gruppo bronzeo.

Del marzo 2011 è infatti l’appello dell’UNUCI, l’Unione Nazionale degli Ufficiali in Congedo, che alza la voce al sentore che ci siano altre città disposte ad ospitare il monumento e a compiere quindi passi ufficiali per chiederne lo spostamento. Si chiede un interessamento del Comune per intervenire sul Demanio e spostare la statua in una piazza, in un giardino, in una rotonda, in una situazione che possa renderla fruibile a tutti e permetta di inserirla nelle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia. Tante voci, tante richieste, ma al momento il monumento rimane solo nel giardino della grande caserma vuota.

piacenza, deposito 65° reggimento fanteria

Bibliografia. Cenni storici del 65° reggimento fanteria, Mario Casarola Editore, Piacenza 1926. Filippicci Bonetti Anna, L’orto dei marmi: Francesco Riccardo Monti scultore 1888-1958, Fantigrafica, Cremona 2003. Libertà, quotidiano di Piacenza, annate varie. Niglio Olimpia, L’opera di Francesco Riccardo Monti, in Tecnologos n. 19, 2005.(testo dalla rivista l'Urtiga per gentile concessione di LIR edizioni).