il Cappotto dello zio Gigi
di giorgio vecchi
l’era bell al marsinon ad mé ziu, ma ‘l ma fäva un pò impression
l’era bell al marsinon ad mé ziu, ma ‘l ma fäva un pò impression
Zio Gigi prima di andarsene a far l'autotrasportatore in Somalia incontro al suo terribile destino possedeva un pesante cappotto sportivo grigio a resca di pesce con maniche alla raglan. Probabilmente ritenne superfluo quel capo d’abbigliamento per il clima africano, fatto sta che esso rimase per qualche tempo appeso in un armadio nella Casa dei Tinelli in via Sopramuro e successivamente fu portato a Bettola quando nonna Linda vi si stabilì con zia Iucci. Quest'ultima aveva infatti avuto la condotta di ostetrica comunale in quella località. Passarono gli anni, scoppiò la guerra, zio Gigi fu militarizzato e non poté far ritorno in patria. Come ho già narrato altrove, dopo la sconfitta italo tedesca in terra africana venne fatto prigioniero dagli inglesi e internato a Nairobi in Kenia ove rimase in campo di concentramento fino alla fine del conflitto.
La sua morte per infarto, quando la nave che lo riportava in patria stava per approdare a Napoli, fu il più crudele degli eventi che colpirono la famiglia Tinelli, già duramente provata da altre catastrofi familiari. La mia infanzia fu caratterizzata da quella tragica vicenda e la figura dello zio s’ingigantì ai miei occhi di bambino. La venerazione che mia madre professava alla memoria del fratello, inoltre, ebbe certamente un peso non indifferente su di me riflettendosi più tardi sulla mia sensibilità e fantasia. Il mio sfortunato congiunto mi pareva poco meno che un martire strappato alla vita da una sorte spietata.
La sua morte per infarto, quando la nave che lo riportava in patria stava per approdare a Napoli, fu il più crudele degli eventi che colpirono la famiglia Tinelli, già duramente provata da altre catastrofi familiari. La mia infanzia fu caratterizzata da quella tragica vicenda e la figura dello zio s’ingigantì ai miei occhi di bambino. La venerazione che mia madre professava alla memoria del fratello, inoltre, ebbe certamente un peso non indifferente su di me riflettendosi più tardi sulla mia sensibilità e fantasia. Il mio sfortunato congiunto mi pareva poco meno che un martire strappato alla vita da una sorte spietata.

Un giorno, quando da poco avevamo lasciato il vecchio Albergo Roma, mia madre mi disse che tra gli abiti della nonna, morta qualche mese prima, le due figlie avevano rinvenuto anche il famoso cappotto dello zio e, con il consenso della sorella, mia madre l’aveva portato a Piacenza. Volle mostrarmelo a tutti i costi; il cappotto era ancora in buono stato sebbene il grigio avesse assunto una tonalità giallastra a causa degli anni ormai trascorsi. Mia madre a un certo punto mi confessò che le sarebbe piaciuto che me lo provassi. La cosa non mi entusiasmava ma per farla contenta lo indossai. Avevo allora circa quattordici anni ma ero piuttosto alto per la mia età. Con mia grande sorpresa il cappotto non era troppo sproporzionato per la mia corporatura. Zio Gigi era d'altezza media e piuttosto tarchiato, almeno da quel che si evince dalle numerose foto giovanili che ci sono rimaste. Mia madre mi disse emozionata che il capo non mi stava affatto male e che avrebbe desiderato che lo portassi in ricordo del suo sfortunato fratello. Obiettai che la lunghezza del capo era eccessiva e anche le maniche risultavano abbondanti dato che mi cadevano quasi a metà mano. Lei rispose che con qualche abile ritocco del nostro sarto Perinetti si sarebbe potuto facilmente ovviare alla cosa. Ribattei che per il momento non era il caso di rovinare l’indumento e le assicurai che in futuro avrei certamente potuto indossarlo senza alcun bisogno di modifiche.
In realtà l’avevo detto tanto per guadagnar tempo, non avendo nessuna intenzione di andarmene in giro con un cappottone vecchio e fuori moda. E poi in qualche modo l’idea che l’avesse indossato mio zio mi dava una strana sensazione non facilmente spiegabile. Mi pareva quasi una profanazione, uno sgarbo alla sua memoria mentre per mia madre probabilmente assumeva un significato esattamente opposto. Passarono ancora un paio d’anni senza che il cappotto venisse riscattato dall’armadio in cui mamma l’aveva sistemato. Quando ci trasferimmo nell’appartamento che ci era stato riservato nel nuovo Albergo Roma il cappotto rivide la luce e mia madre si rammentò della mia antica promessa. Volle che di nuovo lo indossassi e questa volta devo dire che il risultato era molto più soddisfacente di prima. Ero cresciuto ancora di una spanna e ormai il difetto nelle braccia era pressoché sparito. Un bel guaio per me che non avevo più scuse da accampare. Purtuttavia feci notare alla mamma che, mingherlino com’ero, mi sentivo scomparire tra le pieghe di quel cappottone certo adatto a un fisico più abbondante del mio. Lei fu d’accordo ma disse che il sarto avrebbe sicuramente provveduto a restringerlo senza che si notasse alcunché. Riuscii a convincerla di attendere ancora un anno poiché forse crescendo di peso avrei potuto portarlo così com’era. Lei non era molto d’accordo ma alla fine acconsentì.
Avevo di nuovo rimandato la faccenda ma compresi che essa stava prendendo una piega a me assai poco favorevole e che presto o tardi quel cappottone, volente o nolente, avrei dovuto indossarlo. L’inverno appresso infatti mia madre tornò alla carica. Un giorno che c’era pure zia Iucci in visita lei se ne uscì dicendo che aveva una sorpresa per la sorella. Mi chiamò nella sua camera e mi fece indossare il famoso cappotto che sembrava sfidare gli anni e le tarme. Lo feci con una certa riluttanza riconoscendo che ormai mi andava quasi a pennello, era solo leggermente abbondante in larghezza ma essendo un capo sportivo la cosa non era poi tanto grave. Zia Iucci rimase fortemente turbata quando mi vide con l’indumento del fratello. Lei sosteneva che c’era anche una certa somiglianza fisica tra me e il defunto zio. Finì che le due sorelle quasi scoppiarono in lacrime ed io che avevo sperato di convincerle a desistere dal farmelo portare non seppi più che dire. L’indomani mia madre portò il cappotto in lavanderia per rinfrescare la stoffa e toglierle, nei limiti del possibile, la patina giallastra che lo penalizzava.
Pochi giorni dopo, una mattina mentre facevo una frettolosa colazione prima di dirigermi a scuola, la mamma mi si presentò con in braccio il cappotto e porgendomelo mi disse che era arrivato il momento di sfoggiarlo. Abbozzai un sorriso che voleva sembrare di moderata soddisfazione e lo indossai. Poiché i risvolti dell’indumento erano piuttosto aperti mi misi una sciarpa bianca -non avevo altro sottomano- e uscii di casa diretto a scuola.
In realtà l’avevo detto tanto per guadagnar tempo, non avendo nessuna intenzione di andarmene in giro con un cappottone vecchio e fuori moda. E poi in qualche modo l’idea che l’avesse indossato mio zio mi dava una strana sensazione non facilmente spiegabile. Mi pareva quasi una profanazione, uno sgarbo alla sua memoria mentre per mia madre probabilmente assumeva un significato esattamente opposto. Passarono ancora un paio d’anni senza che il cappotto venisse riscattato dall’armadio in cui mamma l’aveva sistemato. Quando ci trasferimmo nell’appartamento che ci era stato riservato nel nuovo Albergo Roma il cappotto rivide la luce e mia madre si rammentò della mia antica promessa. Volle che di nuovo lo indossassi e questa volta devo dire che il risultato era molto più soddisfacente di prima. Ero cresciuto ancora di una spanna e ormai il difetto nelle braccia era pressoché sparito. Un bel guaio per me che non avevo più scuse da accampare. Purtuttavia feci notare alla mamma che, mingherlino com’ero, mi sentivo scomparire tra le pieghe di quel cappottone certo adatto a un fisico più abbondante del mio. Lei fu d’accordo ma disse che il sarto avrebbe sicuramente provveduto a restringerlo senza che si notasse alcunché. Riuscii a convincerla di attendere ancora un anno poiché forse crescendo di peso avrei potuto portarlo così com’era. Lei non era molto d’accordo ma alla fine acconsentì.
Avevo di nuovo rimandato la faccenda ma compresi che essa stava prendendo una piega a me assai poco favorevole e che presto o tardi quel cappottone, volente o nolente, avrei dovuto indossarlo. L’inverno appresso infatti mia madre tornò alla carica. Un giorno che c’era pure zia Iucci in visita lei se ne uscì dicendo che aveva una sorpresa per la sorella. Mi chiamò nella sua camera e mi fece indossare il famoso cappotto che sembrava sfidare gli anni e le tarme. Lo feci con una certa riluttanza riconoscendo che ormai mi andava quasi a pennello, era solo leggermente abbondante in larghezza ma essendo un capo sportivo la cosa non era poi tanto grave. Zia Iucci rimase fortemente turbata quando mi vide con l’indumento del fratello. Lei sosteneva che c’era anche una certa somiglianza fisica tra me e il defunto zio. Finì che le due sorelle quasi scoppiarono in lacrime ed io che avevo sperato di convincerle a desistere dal farmelo portare non seppi più che dire. L’indomani mia madre portò il cappotto in lavanderia per rinfrescare la stoffa e toglierle, nei limiti del possibile, la patina giallastra che lo penalizzava.
Pochi giorni dopo, una mattina mentre facevo una frettolosa colazione prima di dirigermi a scuola, la mamma mi si presentò con in braccio il cappotto e porgendomelo mi disse che era arrivato il momento di sfoggiarlo. Abbozzai un sorriso che voleva sembrare di moderata soddisfazione e lo indossai. Poiché i risvolti dell’indumento erano piuttosto aperti mi misi una sciarpa bianca -non avevo altro sottomano- e uscii di casa diretto a scuola.

Avevo ormai un’età in cui si comincia ad essere un po’ ambiziosi in fatto di abbigliamento, anche se non erano ancora presenti tra i giovani le esasperazioni per la moda griffata che caratterizzano la società attuale. Io con quel cappotto addosso mi sentivo a disagio, sebbene il taglio sportivo non lo rendesse irrimediabilmente obsoleto. La stoffa era sicuramente di ottima qualità ma era molto pesante rispetto ai capi che solevo indossare. Inoltre si vedeva bene che non era nuovo nonostante la lavatura a secco a cui era stato sottoposto. Io non volevo assolutamente offendere mia madre ma neppure mi sentivo di andare in giro per tutto l’inverno con addosso quel reperto archeologico.
Qualche giorno dopo un compagno di scuola vedendomi così infagottato si fece beffe di me. Finì che ci scazzottammo senza cattiveria ma ormai avevo deciso di liberarmi del prezioso indumento nonostante sapessi che mia madre ne avrebbe sofferto. L’idea mi venne vedendo al cinema un vecchio film americano di gangster. Uno dei ceffi della pellicola indossava un cappottone anni trenta non molto diverso da quello di zio Gigi e di cui andava fiero. In uno scontro con la gang rivale gli toccò sacrificare l’indumento per avvolgervi un compare rimasto gravemente ferito che grondava sangue da ogni parte. Pensai che avrei potuto ideare qualcosa del genere per macchiare il cappotto e renderlo inservibile. Non che intendessi ferire chicchessia, per carità, solo dovevo trovare un liquido adatto. Un poco mi dispiaceva rovinarlo soprattutto considerando quel che esso rappresentava per le sorelle Tinelli ma non volevo diventare lo zimbello della classe. Decisi dunque di agire senza ulteriori esitazioni. Scesi nelle cantine dell’hotel deciso a scovare qualcosa che potesse servirmi per attuare il mio piano. In un angolo scorsi un barattolo di vernice nera, l’aprii e cosparsi con essa una piccola porzione del cappotto, appena sotto la spalla di destra. Il danno non era molto grande ma si notava subito. Poco dopo mi presentai a mia madre mostrandole la macchia e dicendole che non sapevo come avessi potuto farmela. Non sono certo che mi ritenesse del tutto estraneo all’incidente, tuttavia non disse nulla, prese l’indumento e lo ripose nell’armadio da cui l’aveva estratto. Non mi propose più di indossarlo, né di farlo ripulire, come temevo, forse aveva capito che il suo posto era in quel mobile che conservava altri cimeli di un tempo irrimediabilmente trascorso e il ricordo di un’epoca dolorosa che non era il caso di resuscitare. (al solit profesur).
Qualche giorno dopo un compagno di scuola vedendomi così infagottato si fece beffe di me. Finì che ci scazzottammo senza cattiveria ma ormai avevo deciso di liberarmi del prezioso indumento nonostante sapessi che mia madre ne avrebbe sofferto. L’idea mi venne vedendo al cinema un vecchio film americano di gangster. Uno dei ceffi della pellicola indossava un cappottone anni trenta non molto diverso da quello di zio Gigi e di cui andava fiero. In uno scontro con la gang rivale gli toccò sacrificare l’indumento per avvolgervi un compare rimasto gravemente ferito che grondava sangue da ogni parte. Pensai che avrei potuto ideare qualcosa del genere per macchiare il cappotto e renderlo inservibile. Non che intendessi ferire chicchessia, per carità, solo dovevo trovare un liquido adatto. Un poco mi dispiaceva rovinarlo soprattutto considerando quel che esso rappresentava per le sorelle Tinelli ma non volevo diventare lo zimbello della classe. Decisi dunque di agire senza ulteriori esitazioni. Scesi nelle cantine dell’hotel deciso a scovare qualcosa che potesse servirmi per attuare il mio piano. In un angolo scorsi un barattolo di vernice nera, l’aprii e cosparsi con essa una piccola porzione del cappotto, appena sotto la spalla di destra. Il danno non era molto grande ma si notava subito. Poco dopo mi presentai a mia madre mostrandole la macchia e dicendole che non sapevo come avessi potuto farmela. Non sono certo che mi ritenesse del tutto estraneo all’incidente, tuttavia non disse nulla, prese l’indumento e lo ripose nell’armadio da cui l’aveva estratto. Non mi propose più di indossarlo, né di farlo ripulire, come temevo, forse aveva capito che il suo posto era in quel mobile che conservava altri cimeli di un tempo irrimediabilmente trascorso e il ricordo di un’epoca dolorosa che non era il caso di resuscitare. (al solit profesur).