penna

un “Messicano” di Casa Nostra


di giorgio vecchi

Eugenio Civardi, detto dapprima “Gion il messicano” e poi da tutti semplicemente al Gion fu uno dei principali protagonisti delle allegre combriccole del vecchio Roma. Sulla quarantina, con occhiali dalle spesse lenti per una forte congenita miopia, il viso ampio, i capelli castani e ricci perennemente unti di brillantina, vestiva abiti sempre gualciti che non conoscevano frequenti stirature, camicie dall’orlo logoro, cravatte dai colori fantasiosi probabilmente comprate al magazzino UPIM di via XX Settembre. Bevitore moderato, mangiatore formidabile, era il fulcro della compagnia dei pëssgatt. Quasi ogni loro iniziativa aveva lui per promotore. Era inoltre un fedelissimo del loggione andando in compagnia degli amici alle prime del Municipale. A volte pareva un fanciullone mal cresciuto poiché narrava storielle ingenue su certe sue improbabili conquiste femminili ma quando si trattava di fare gli affari sapeva mostrarsi abile e scaltro come una volpe. Scapolo e soddisfatto di esserlo, viveva praticamente nel Roma. Occupava una stanza sul ballatoio del secondo piano accanto all’ appartamento ove viveva il padre Edoardo con la sua nuova famiglia. La sua attività principale consisteva nel noleggio e nella compravendita di autovetture usate. Soleva lasciarle parcheggiate nel cortile dell’hotel che fungeva un po’ da suo personalissimo autosalone. Mio padre non si opponeva anche perché allora il movimento delle auto era modesto e così Gion poteva mostrarle in tutta tranquillità ai possibili acquirenti. Per contraccambiare il favore era sempre a nostra disposizione fungendo un po’ da autista della casa. Come ho già detto zia Mariuccia lo comandava a bacchetta per farsi portare a spasso o per sbrigare le più svariate commissioni. Io stesso andavo a volte con lui a far qualche giro quando provava le vetture appena ritirate. In una certa occasione Gion insistette che zia ed io lo accompagnassimo: aveva appena acquisito una Topolino seminuova con tanto di autoradio (un lusso per quei tempi) che volle inaugurare con noi facendoci provare l’ebbrezza della velocità. Portò l’auto sulla circonvallazione che costeggia le mura, quasi all’altezza di Porta Borghetto, lanciando poi la vettura. Quando il tachimetro toccò i cento lui rise di gusto vedendo il mio sbigottimento e la paura dipinta sul viso della zia che gli gridava preoccupata: “Gion, fa no al luc va adasi, a vöt fag masà ?“.


Per Gion il concetto di proprietà era molto relativo: come non aveva difficoltà a prestare l’auto ad un amico così si sentiva autorizzato ad usare quelle degli altri a volte senza neppure consultarli. Accadde un giorno che Gaetano, il genero di Peppino Fariselli, il nostro ortolano, lasciasse la sua vettura in cortile. Gion in quei giorni era eccezionalmente a piedi. Dovendo recarsi in fretta in un luogo vide l’auto dell’amico incustodita con le chiavi nel cruscotto (allora era un’abitudine diffusa) e la utilizzò senza indugi. Poco dopo giunse il proprietario e seppe che Gion se n’era momentaneamente impadronito. Furibondo poiché l’auto gli serviva d’urgenza attese fremente il suo ritorno. Questo giovane era affetto da una leggera balbuzie che aumentava di molto quando s’arrabbiava. Accolse dunque Gion con male parole che però articolava con gran difficoltà balbettando tutto rosso in viso. Lui, serafico, lo guardò per un attimo senza scomporsi, poi gli disse “Lassa perd, sforzat mia, at ma’ l diré adman”.

La fama di Gion come mangiatore crebbe nel tempo assumendo contorni leggendari. Si raccontava di quando si recò con alcuni amici in un’osteria della città per una cena luculliana al termine della quale l’oste confessò che da tempo non vedeva un gruppo di clienti fare tanto onore alle sue specialità (probabilmente disse in piacentino qualcosa come “ho mäi vist di sbafadur cumpagn”) e scherzando aggiunse che sarebbe stato disposto a far credito a chi fosse stato in grado di ricominciare il pasto mangiando esattamente quel che aveva appena messo in pancia. Tra lo stupore generale Gion disse che per lui andava bene e si rimangiò davvero tutto quanto per cui l’incauto oste fu costretto ad abbonargli i due pasti. Probabilmente si tratta di una leggenda poiché udii narrare lo stesso aneddoto riferito invece al maresciallo Pisati, altro temibile mangiatore, a meno che entrambi non fossero stati presenti a quella memorabile cena, cosa non improbabile.

Mia madre un giorno propose a Gion di pranzare con me pensando che quella formidabile forchetta sarebbe forse stata in grado di risvegliare il mio sempre precario appetito. Gion accettò di buon grado (anche perché il pranzo era gratis) e per qualche tempo lo ebbi come inusuale compagno di tavola. La cosa parve funzionare poiché al termine del pasto il mio piatto era sempre vuoto. Mia madre occupata con il lavoro d’albergo non poteva controllarmi per cui credette davvero che l’”effetto Gion” avesse sortito quei buoni risultati. Eugenio sornione si limitava a dire: “A la vist, siüra Bruna, che cun me Giorgio al mangia?” In realtà le cose erano un po’ diverse poiché Gion ed io avevamo stipulato un patto segreto: lui si sarebbe mangiato anche la mia parte e tutti saremmo stati soddisfatti e felici. Prima di iniziare il pasto Gion, per salvar le apparenze, soleva dirmi mentre di malavoglia smuovevo con la forchetta i piccoli frammenti di una milanese che mia madre mi aveva tagliuzzato: “Sö, tasta un buccòn, ch’ienn bon..“ e al mio rituale rifiuto, accertatosi che mia madre non fosse in vista, arpionava fulmineo con la forchetta quanti bocconi poteva divorandoli in un batter d’occhio. Rivedo il suo faccione accanto al mio mentre esclama: “Guärda, cuiòn, e impära a mangiä!”. Solo parecchio tempo dopo confessai a mamma la verità e ne ridemmo insieme al buon Eugenio. L’episodio venne in seguito spesso rievocato e passò a far parte dell’album dei ricordi più gustosi.

Gion era dotato di una forza formidabile e muoveva pesanti mobili come fossero di cartapesta. Una volta riuscì da solo, senza difficoltà, a trasportare il pianoforte di casa nell’appartamento vicino dei miei zii. Un giorno della primavera del ‘55 mi capitò di andare con lui a Montù a portare qualche mobile che mio padre, in vista della prossima chiusura del Roma, intendeva conservare a Casa Villino. Utilizzammo per l’occasione il vecchio camion azzurrino di suo padre Duard, quasi prossimo al collasso. Comunque bene o male riuscimmo ad arrivare a destinazione e a depositare tra le altre cose una grande credenza umbertina che poi vi rimase molti anni e che ora, accuratamente restaurata, fa bella mostra nella nostra sala da pranzo. Nel viaggio di ritorno nei pressi dell’abitato di Fontanelle, poco prima di sbucare sulla statale, investimmo una gallina che incautamente attraversava la strada. Mi par ancora di vedere il povero volatile disteso sulla carreggiata in un turbinio di piume. Gion ed io ci guardammo in faccia mentre lui frenava la corsa dell’automezzo; pensavo volesse dare un’occhiata alla gallina per accertarsi delle sue condizioni ma Gion aveva un’altra idea. “Petta, c’la purtum a cà..” mi disse, certo pensando di metterla in pentola e si accingeva a scendere dal camion quando da una casa vicina sbucò una vecchia contadina inferocita per cui lesto come il lampo Gion rimise in moto il vetusto veicolo ripartendo a tutta velocità.


matrimonio di pierino marenghi

Dopo la chiusura del Roma Gion andò ad abitare dalle parti di via Castello divenendo il factotum di un’anziana nobildonna piacentina che lui scarrozzava in lungo e in largo come aveva fatto un tempo con zia Mariuccia. Lo vedevo di rado ma puntualmente in occasione delle feste natalizie gli zii Bassi solevano invitarlo al pranzo della vigilia insieme a Gino Sormani. So che all’inizio degli anni settanta andò al matrimonio di Pierino Marenghi, il fratello minore del nostro cameriere Nando, poiché possiedo una foto che lo ritrae tutto tirato a nuovo con un abito scuro tra gli invitati alla cerimonia. Si era un po’ imborghesito con l’età, spesso vestiva un decente completo grigio, forse aveva qualcuno che lo teneva in ordine. Un giorno lo incontrai in via Maddalena, mi disse che andava all’ospedale. Credevo avesse problemi di salute ma si affrettò a tranquillizzarmi: andava a far colazione lì ogni mattina, mi spiegò, poiché il cornetto costava meno e il cappuccino dello spaccio non era male. Egidio Carella avrebbe detto di lui “l’è un spindaccion ch’lè pezz che un usurâri”.Continuava la sua vita di scapolo e svolgeva i suoi traffici d’autovetture ma in modo saltuario. Preferiva fare piccoli traslochi con un camioncino e fu proprio in occasione di uno di questi servizi fuori città che la sua vita ebbe una svolta drammatica. Era sceso dal mezzo per chiedere un’informazione quando fu investito in pieno sulle zebre da un altro camion che non aveva rispettato lo stop. Gravemente ferito a entrambi gli arti rimase molti mesi in ospedale. Quando lo dimisero aveva nelle gambe delle protesi che gli permettevano di muoversi con una certa difficoltà. Alla fine però si rimise quasi completamente. Della menomazione seppe con un abile e agguerrito avvocato, mi pare il bettolese Nazzani, fare la sua fortuna. Ne ricavò una discreta sommetta che gli permise di mettersi dignitosamente a riposo. Inoltre da allora ogni estate l’assicurazione gli pagava un piacevole soggiorno sulla costa ligure. Posseggo ancora una cartolina che ci inviò da Loano nel 1984, l’anno prima che la morte lo cogliesse improvvisamente all’età di 71 anni. (al solit profesur).