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Quando a Piacenza si Combatteva la Tubercolosi

di Ippolito Negri

Mentre lavoravo ad una minuscola ricerca in occasione di un mio intervento al recente convegno “Tubercolosi: passato e presente tra leggenda e realtà” organizzato dal Dipartimento di Scienze del Liceo Scientifico Statale “Lorenzo Respighi”, in occasione della Giornata mondiale della Tubercolosi –il 24 marzo 2012– mi sono imbattuto in un fascicoletto conservato all’Archivio di Stato di Piacenza. Poche pagine, solo 26, ma ricche di informazioni utilissime oggi per ritornare ad alzare la guardia nei confronti di una malattia, la tubercolosi, che si riteneva debellata, ma che si sta riproponendo seppure in misura isolata e sporadica anche nel Piacentino. Il titolo è “Relazione sull’opera svolta dalla Giunta Esecutiva durante il 1926”; la giunta a cui si fa riferimento è quella del “Consorzio Antitubercolare della Provincia di Piacenza”. Il fascicolo –datato 31 dicembre 1926 Anno IV– è stampato a cura della libreria-cartoleria Bellardo Angelo.

Come spiega il titolo quindi è la relazione di bilancio del Consorzio provinciale antitubercolare nato nel 1922 a Piacenza. La prima notizia che apprendiamo è che il Consorzio, sotto il profilo amministrativo è organizzato sostanzialmente come le aziende sanitarie di oggi. Infatti è retto da una assemblea generale che comprende nel 1926 i 42 comuni della provincia (mancano quelli del circondario di Bobbio che diverranno piacentini di lì a poco); l’assemblea è presieduta dal presidente della Deputazione Provinciale. Sottostante l’Assemblea generale un consiglio di amministrazione presieduto dal sindaco di Piacenza in cui siedono i sindaci di Castel s. giovanni, Fiorenzuola, San Giorgio, Lugagnano, Rivergaro, Pontenure, Monticelli. La gestione pratica poi è affidata alla giunta esecutiva sempre presieduta dal sindaco di Piacenza. Di tutti e tre gli organismi fanno parte l’ufficiale sanitario di Piacenza e il medico provinciale.


colonia estiva - isolotto maggi Piacenza

Dalla relazione apprendiamo poi alcuni aspetti economici: primo fra tutti quali erano le dotazioni del Consorzio. Impariamo così che le risorse sino al 1925 erano di 20 centesimi per abitante e che nel 1925 (nella seduta dell’assemblea del 25 novembre) erano aumentati a 40 centesimi per singolo abitante dei comuni, più un contributo di cui dovevano farsi carico le amministrazioni comunali per ogni ricoverato in sanatorio. Parliamo di lire del 1926, in euro di oggi rispettivamente 30 e 60 centesimi. Il Comune di Piacenza che al censimento del 1921 (prima che fossero inglobati comuni come San Lazzaro e Sant’Antonio) risultava avere 57.233 abitanti versava quindi 22.893 lire (34mila euro attuali). Come gettito provinciale complessivo con una popolazione di 295.992 abitanti, al Consorzio antitubercolare andavano 118.396 lire pari a 177.595 euro. Il capoluogo che rappresentava circa un quinto della popolazione provinciale contribuiva per una quinto delle risorse locali al Consorzio Antitubercolare, lasciando agli altri 42 comuni il compito di provvedere agli altri quattro quinti. Come, per altro, dimostrava la presidenza affidata al sindaco di Piacenza, è intuitivo il ruolo di preminenza che la città capoluogo di provincia aveva, verosimilmente, non solo nelle cure, ma anche nelle scelte d’intervento.

Scopriamo poi che il Governo erogava sussidi direttamente a strutture di prevenzione “su riferimento favorevole del Consorzio”. Quindi la relazione ci permette di sapere che nel 1926 da Roma erano stati concessi contributi per 13.000 lire pari a 19.500 euro, di cui 2000 destinati alla colonia elioterapica di Monticelli. Questa dell’elioterapia sulle rive –e in particolare sui sabbioni del Po– è una pratica abbastanza diffusa nei territori rivieraschi. Compreso il capoluogo; al convegno sono state presentate immagini della colonia elioterapica tenuta qualche anno più tardi all’isolotto Maggi, quando il Po era balneabile. E non bisogna andare all’anteguerra per trovarne memoria nei piacentini. Un’altra informazione interessante si può desumere dall’elenco delle offerte proposte al Consorzio da privati o da istituzioni. Tra gli “offerenti” del 1926 figurano ben quattro banche piacentine, la Banca Commerciale Agricola Piacentina, la Banca Popolare Piacentina, la Banca Cattolica Sant’Antonino, la Cassa di Risparmio. Doppia informazione anche questa non solo per i contributi offerti, ma anche per il numero degli istituti di credito locali più numerosi di quanto non siano oggi. Possiamo fare anche qualche considerazione su un’altra banca presente nell’elenco, il Banco Ambrosiano, istituto forestiero, ma evidentemente tanto interessato al territorio da promuoversi attraverso la donazione al Consorzio antitubercolare. Cui vanno anche fondi dalla potentissima Federazione Italiana Consorzi Agrari.


quando a Piacenza si combatteva la tubercolosi

A cavallo tra istituzioni e privati figura persino il Comitato inondati del Po, che evidentemente non si occupava semplicemente degli interessi di “categoria” ma aveva una più ampia visione del proprio ruolo “sociale”; in ambito delle organizzazioni caritatevoli compaiono la Congregazione di Carità e il Comitato Dame Visitatrici. Sono una dozzina, i privati elencati come offerenti: il Maresciallo Alberoni, Carlo Marenghi, Mario Costa, Alfredo Paiella, Paolo Ferrari, la vedova Ernesta Alussi, Luigi Nakemberg, Franco Romagnoli, Carlo Milanesi, Maria Scolari, Tonello Santospirito, Giuseppe Tammi. Non è dato sapere quanto offrirono, ma sappiamo che ci furono sussidi alle colonie profilattiche per 16mila lire (24mila euro) erogati dal Consorzio. Dal fascicolo della relazione 1926 scopriamo anche dati riguardanti le cure e il numero dei tubercolotici: il dispensario aveva in carico 309 malati in cura e 156 in profilassi. Il numero maggiore di malati è di Piacenza. Erano curati sia in Ospedale in città, sia in sanatori: quelli famosi di Sondalo e Prasomaso in Valtellina, poi a Groppino nella Bergamasca, oppure al mare (questi sono soprattutto ragazzi) con l’Ospizio Marino o in montagna con un’associazione dedicata al pittore Stefano Bruzzi.

Non ci parla la relazione al bilancio 1926 di strutture di cura e prevenzioni locali che sorgeranno in carico alla Provincia negli anni Trenta a Piacenza (il dispensario ancora oggi a Barriera Torino) e ad Arcello. Mentre sono del dopoguerra altri interventi: nel 1947 la Provincia realizza una struttura a Bobbio, e tra il 1947 e il 1953 il preventorio Chiapponi a Bramaiano di Bettola. A completare la relazione del Consorzio troviamo anche il testo delle “Norme Fondamentali dettate al Ministro dell’Interno sul funzionamento del Consorzio Antitubercolare” emanate il 2 febbraio 1926, firmate dal ministro Luigi Federzoni (il leader dei nazionalisti confluito poi nel fascismo, fu ministro fino al novembre 1926 venendo poi emarginato a cariche onorifiche come la Società Geografica, e infine condannato a morte in contumacia nel processo di Verona del 1944 per aver votato contro Mussolini nel Gran Consiglio del 25 luglio 1943). Le paginette sulle norme fondamentali ci permettono di scoprire un’altra notizia, vale a dire come la “Direzione generale della Sanità Pubblica” dipendesse dal Ministero dell’Interno Abbiamo visto come attraverso il piccolo fascicolo stampato da Bellardo nel 1926 si possano ricavare informazioni piacentine a proposito della campagna antitubercolare che un anno più tardi, nel 1927, avrà una svolta in campo nazionale con il Regio Decreto 2055 del 27.10.1927 che imponeva l’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi. Il decreto avrebbe finito per favorire le popolazioni delle aree industriali. Inserito nella Carta del lavoro, fissava l’impegno dello Stato ad assicurare gli operai contro le malattie.


Bettola - preventorio Chiapponi

Ma la nuova legge finì per spostare molte risorse verso l’ente previdenziale mentre i CPA si trovarono con la coperta corta e in ogni caso a dover sottostare alle scelte di spesa dell’ente previdenziale. La rete dei dispensari a livello nazionale non era del tutto adeguata, con le solite differenze tra aree geografiche, le stesse di oggi tra il Nord industrializzato, allora, e il sud contadino. A conferma di questo basti pensare che i grandi sanatori della Valtellina, come Sondrio e Prasomaso nascano come istituzioni sanitarie di Milano, una città che ha sempre avuto particolare attenzione a coniugare la ricchezza della propria economia con la disponibilità “sociale” della propria imprenditoria considerata particolarmente “illuminata”. Almeno un tempo. Ma oltre ai sanatori i veri presidi sul territorio rimasero i dispensari funzioni fondamentali nell’opera di prevenzione e di individuazione precoce della malattia. Nel 1927 i dispensari attivati in Italia erano 184, nel 1940 502, sotto gli standard europei secondo i quali si calcola ne servissero almeno 2000. Va da sé, per le considerazioni viste sopra a proposito dei bilanci 1926 del CPA piacentino, che le città maggiori e con maggior capacità di spesa erano molto più dotate di servizi, ma, d’altra parte la malattia che sappiamo urbana, aveva anche una fortissima presenza nelle aree rurali le cui popolazioni spesso restavano tagliate fuori anche perché dal medico ci si andava quando compariva “il sangue nello sputo”, come si diceva allora.

Col risultato spesso di rendere poco efficace anche la soluzione sanatoriale. Che d’altra parte non era poi la più gradita. I sanatori sulle Alpi erano lontano da casa, per la maggior parte degli italiani, soprattutto perché –anche se i treni viaggiavano proverbialmente in orario– non è che ci fossero poi tutti i collegamenti di oggi. Anche questo quindi è uno degli aspetti della paura che c’era della malattia. La prospettiva –a scoprirsi ammalati– era quella di una morte certa, e di questo se ne aveva ancora il ricordo, oppure di una lunga lontananza da casa.Tanto basta per creare un mito negativo alla faccia dei risultati delle campagne di prevenzione e cura, reali o gonfiati che fossero. Inutile dire che anche negli anni Trenta la politica degli annunci dava un quadro non del tutto reale della, situazione. E d’altra parte anche da un’analisi superficiale dei documenti delle amministrazioni pubbliche la svolta vera e risolutiva non poteva che venire nel dopoguerra grazie alla streptomicina scoperta nel 1944. Di pari passo con l’evoluzione delle terapie antibiotiche e le campagne di prevenzione –ma anche di informazione– proseguite almeno fino agli anni Sessanta quello che è stato considerato il “male del Secolo” nella prima metà del ‘900 è diventato sicuramente marginale, tornando solo nell’ultimo ventennio a riproporsi come un’emergenza sanitaria da non sottovalutare. (testo dalla rivista l'Urtiga per gentile concessione di LIR edizioni).