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il Patek Philippe di Avogadri

di giorgio vecchi

Nei primi anni ’60 a Piacenza i giovani amanti della musica leggera, che compravano i dischi microsolco da 45 giri o i più capaci long playing da 33, potevano rivolgersi, in centro, al negozio di Benedetti situato sull’angolo tra il Corso e via S. Giovanni o al Discobolo che stava in uno dei box provvisoriamente sistemati in Piazza Cavalli, in attesa che venissero completati gli edifici dell’erigendo Terzo Lotto. Ma c’era sul Corso un altro piccolo negozio che vendeva musica d’ogni genere e che ebbe il suo momento di notorietà proprio in quell’epoca. Non era propriamente un negozio per i giovani che amavano la moderna musica rock e folk americana, si trattava piuttosto di un antico negozio di musica, attivo già da prima degli anni ’50, gestito da un curioso personaggio che rispondeva al nome di Luigi Avogadri. Lui in verità non era un venditore di musica o meglio non era solo quello. Avogadri era un abile orologiaio che da giovane aveva appreso il mestiere frequentando una scuola svizzera che lui diceva, con orgoglio, essere quella della celebre marca ginevrina Patek Philippe. Avogadri però era anche un appassionato di musica lirica e affiancò alla primaria attività anche il commercio di dischi d’opera e di classica in genere. Possiedo ancora alcuni cofanetti di dischi a 78 giri della Voce del Padrone che recano stampigliato sul disco l’indirizzo del suo negozio che stava al numero 97 di Corso Vittorio Emanuele.


cofanetto con dischi a 78 giri

Con l’avvento del microsolco in vinile e l’affermarsi tra i giovani della musica d’oltreoceano, Avogadri, che di quella capiva poco, pensò di modernizzarsi, assumendo una giovane commessa che si occupava di tenere aggiornato il catalogo dei successi più richiesti. Era, la ricordo bene, una giovane piuttosto formosa ma carina, ben preparata in materia. Fu allora che presi a frequentare saltuariamente il negozio del signor Luigi che era un lontano parente dei Tinelli e dunque anche nostro. Lui in negozio occupava, sulla parete a sinistra dell’entrata, un piccolo sgabuzzino in legno, a vetri sui tre lati, che gli permetteva di sorvegliare il passaggio della clientela. Se ne stava chino sui suoi orologi con una lente perennemente incollata all’occhio destro e una piccola lampada sempre accesa sul banchetto di lavoro. Il viavai dei giovani clienti, che si dirigevano verso la ragazza in attesa dietro il banco, situato al fondo del piccolo locale, pareva non disturbarlo. Avogadri mi conosceva bene e quando mi vedeva entrare in negozio interrompeva il suo paziente lavoro e mi interrogava sulla salute dei miei. Rammento che a quell’epoca frequentavo gli ultimi anni di ragioneria al Tecnico Romagnosi e solevo intavolare con lui discorsi su quella scelta poco gradita che avevo fatto per necessità, non vedendo l’ora di terminare al più presto gli studi a causa della salute cagionevole che mi obbligava a lunghi periodi di assenza dalla scuola. Avogadri mi rassicurava dicendo che avevo fatto la scelta giusta, a prescindere dal problema della salute, poiché un diploma di ragioniere mi avrebbe permesso di entrare in banca o in qualche istituto d’assicurazione e fare una buona carriera impiegatizia. Era allora già anziano e prossimo al ritiro dall’attività.

Quando occupammo sul Corso il nuovo appartamento al numero 135 che mio padre aveva fatto ristrutturare nel 1966, Avogadri, più o meno in quello stesso periodo, chiuse il negozio. Era scapolo, con pochi parenti prossimi e decise saggiamente di sistemarsi in una casa di riposo di buon livello che poteva permettersi con i risparmi di una vita. Era un ospite pagante e poteva muoversi a suo piacere senza troppe restrizioni. Prese allora l’abitudine di farci visita abbastanza spesso. Soleva capitare dopo cena facendo grandi feste a mia madre, la quale fin dall’inizio l’accolse con molta cordialità. Era un amante dei buoni vini ed ella gli offriva ogni volta un bicchierotto che lui gradiva moltissimo. La sua conversazione ruotava sempre intorno agli stessi temi, il suo apprendistato in Svizzera da giovane, la musica lirica (che a me interessava poco o nulla), le sue tragicomiche avventure da scapolo (specie quando al bicchierotto iniziale erano poi seguiti altri generosamente elargiti da mia madre ed altrettanto entusiasticamente accettati da lui). Qualche volta le visite si protraevano oltre le 23 e arrivava anche mio padre di ritorno dal Roma. Lui e Avogadri solevano allora rammentare personaggi della città ormai scomparsi da anni e i gloriosi tempi in cui la lirica richiamava a Piacenza nomi importanti e di primaria grandezza come Mafalda Favero, Ferruccio Tagliavini, Ebe Stignani, Franco Corelli, Giulietta Simionato.


artisti di fama ospiti a piacenza

Una sera si venne a parlare di me, dei miei progetti futuri di lavoro sebbene in realtà non ne avessi alcuno in concreto. Avevo deciso che la carriera d’impiegato non faceva per me e da poco mi ero iscritto alla Facoltà di Lingue dell’università Bocconi. Avogadri anche quella volta approvò la mia scelta sfoderando il luogo comune secondo il quale fare l’insegnante mi avrebbe concesso molto tempo libero per altre fruttuose occupazioni. Ad un certo punto se ne venne fuori dicendo che un laureato deve possedere qualche elemento di distinzione e tale da farlo ben considerare tra colleghi. Lui, aggiunse, aveva qualcosa che mi avrebbe permesso di fare bella figura nella mia futura attività professionale. Cavò di tasca un bell’orologio d’oro e ce lo mostrò. Si trattava di un cronografo Patek Philippe che gli era rimasto a ricordo della passata attività. Era certamente un bell’oggetto ma noi in casa avevamo già parecchi orologi di buona marca per cui sebbene Luigi si affrettasse ad aggiungere che me lo avrebbe dato ad un prezzo buonissimo, la sua proposta non incontrò molto favore. Lo ringraziammo per l’offerta poi mio padre gli spiegò con garbo che di orologi di prestigio non avevamo alcun bisogno. Lui non insistette.


Avogadri -con il farfallino- fotografato con dei parenti

Passarono i mesi e con l’inverno le visite di Avogadri si diradarono fino a cessare del tutto. Qualche volta in casa si accennava al bell’orologio che lui ci aveva esibito. Mio padre doveva essersi accorto che a me l’oggetto piaceva e una sera, vincendo le obiezioni della mamma, mi disse che se davvero volevo il Patek lo avrebbe chiesto a Luigi. Io però ero ancora studente, non guadagnavo nulla, e non volevo che i miei mi facessero regali costosi. Perciò gli risposi che l’orologio non mi interessava. Col senno di poi invece me ne sono pentito. Quante volte ho pensato che avrei fatto bene ad accettare il regalo che mio padre voleva generosamente farmi, un Patek Philippe non lo si trova spesso in giro. Oggi anche il modello più economico costa una cifra e quello era d’oro e certamente ora varrebbe un patrimonio. Sono passati tanti anni da quell’episodio, la vita mi è scivolata via senza che quasi me ne sia accorto, ma non ho mai avuto occasione di comprarmi un orologio di quella classe. Non amo le cose di lusso ma certo quel Patek è rimasto per me un oggetto del desiderio. A volte penso al povero Luigi che certo me lo avrebbe dato ad un prezzo vantaggioso e sarebbe stato ben lieto di favorirmi ma si vede che esso non era destinato a me. Le cose che possediamo a loro volta ci posseggono e a seconda dei casi, e per misteriosi flussi, ci rincorrono o si allontanano da noi. A me succede spesso con i libri: alcuni che desideravo avere e che invano ho a lungo cercato me li ritrovo anni dopo tra le mani sulle bancarelle dei mercatini e comprendo che, pazientemente, attendevano me, futuro inconsapevole acquirente. Ma il bel Patek Philippe di Avogadri continua a tormentare i miei ricordi, oggi mi farebbe piacere possederne uno simile ma non mi va di comprarlo poiché, a parte il costo proibitivo, so che esso sarebbe eccessivo e inadeguato per uno come me che detesta il consumismo e le cose griffate, e lo penso mentre accarezzo il mio vecchio Omega d’acciaio che posseggo dalle elementari e che finora mi ha sempre degnamente servito. (Al solit profesur).