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i Tortelli della "Siura" Maria

‘l turtell par me ‘l ga dein l’anma e ‘l côr di piasintein - V. Faustini

Un sabato della primavera del 1962 quando da poco avevamo lasciato l’appartamento nel Grande Albergo Roma, sistemandoci nella casa sul Corso mia madre tornò dal mercato con una simpatica notizia. Aveva incontrato, mi disse, una persona che da tempo non vedeva, la signora Maria Golzi, titolare della storica edicola che un tempo era situata davanti al vecchio Roma, sulla piazzetta che dava poi accesso al Mercato Coperto. Suo marito era Guerrino Golzi, un piacentino doc. Lo ricordavo benissimo sebbene fosse morto da molti anni. Piccoletto, scuro di capelli, dal volto aperto e gioviale con una spiccata erre nostrana, sempre pronto alla caustica battuta, era davvero un personaggio, ben degno di figurare tra gli habitué dell’albergo, con i quali, quando il tempo glielo permetteva, amava mescolarsi per dissertare sulle vicende sportive e soprattutto per spettegolare sulle persone del nostro piccolo microcosmo cittadino. Secondo quanto mi ha riferito il figlio Umberto quando durante la guerra suonava l’allarme per invitare tutti a entrare nei rifugi pare che Guerrino non si muovesse dall’edicola per tutta la durata delle incursioni nemiche. Aveva più timore dei rifugi che delle bombe e così commentava la sua scelta: “Voi mia fä la fein dal ratt, s’la ga da tuccäm paziinza”.

La famiglia Golzi, come è noto, era composta, oltre che da Maria e Guerrino, da due figli. Umbertino e Lucia che vennero a pranzo in albergo per tutto il periodo scolastico. Fu così che finii per avere due commensali fissi a mezzogiorno. Come ho già ricordato essi avevano buon appetito mentre io ero come sempre la pecora nera del gruppo, più che mangiare spilluzzicavo qualche boccone di malavoglia. Quando l’edificio che ospitava il Mercato Coperto fu abbattuto e su quell’area nel 1949 venne edificato il Palazzo della Borsa scomparve anche la storica edicola che divenne un dignitoso piccolo negozio sito all’ingresso della Galleria della Borsa, poco oltre la Genepesca del signor Arturo Riccò. Ancor oggi esistono entrambi i negozi.


il mercato coperto con l'edicola di Guerrino Golzi

La prematura scomparsa del Guerrino a causa di una grave malattia procurò grande tristezza tra i numerosi amici suoi. La consorte, dopo un comprensibile periodo di abbattimento, seppe ben riprendersi e continuò coraggiosamente e con successo l’attività di giornalaia. Con Umberto e soprattutto con Lucia, di poco più giovane di me, sviluppammo per sempre una solida amicizia come ho già avuto modo di raccontare. Lucia restava quasi ogni giorno a giocare con me e con Rosanna nel cortile dell’hôtel e fu una delle artiste burattinaie della nostra piccola filodrammatica. Era una ragazzina docile e mansueta, Lucia. Ebbe una sorte crudele anni dopo quando era ormai sposata e con prole, stroncata poco più che quarantenne da una grave malattia. Ma io la voglio ricordare com’era a quei tempi, sbarazzina ma giudiziosa, una vera donnina che seppe coadiuvare efficacemente sua madre in negozio.

Il giorno che mia madre mi disse dell’incontro con la signora Maria, ebbe anche modo di snocciolarmi tutta una serie di pettegolezzi che avevano fatto insieme. La Golzi, come il marito, era sempre molto aggiornata su quanto accadeva in città ed era in grado di continuare per ore a chiacchierare magari, come diceva maliziosamente mio padre, uscendosene alla fine con l’immancabile frase conclusiva “As sa gnan cus di”.

Ad un certo punto, dopo che mi fui informato sulle sorti di Umberto e Lucia, mia madre estrasse da una borsa di plastica un pacchetto dicendomi che la signora Golzi, che allora abitava un appartamento sopra il Bar Americano, aveva voluto farle un gradito presente, regalandole dei tortelli fatti da lei stessa. Devo per completezza aggiungere che a quell’epoca, ormai quasi ventenne, non ero più il ragazzino inappetente degli anni cinquanta. Avevo un discreto appetito e i tortelli alla piacentina, quelli con le code, erano, come ancora sono, la mia passione. Solo che mangiavo esclusivamente quelli fatti in casa da mia madre, rifiutandomi di assaggiare quelli che si vendevano nelle salumerie del centro. Mamma non era mai stata cuoca per il semplice motivo che in albergo mangiavamo i piatti del giorno preparati da zio Egidio e lei per tanti anni non si era occupata di cucina. Ma in gioventù aveva avuto da nonna Linda una solida preparazione in materia che seppe mettere a frutto dopo l’uscita dall’hôtel. Era in grado di preparare i tortelli come nessun altro, con una pasta sottile che li avvolgeva e un ripieno morbido e saporito.

Quel giorno mi disse: “Proviamo ad assaggiarli, sono certa che anche la signora Maria, che me li ha tanto decantati, non ci deluderà. Anzi mi ha detto che se ci piacciono me ne darà altri, dato che lei li fa ogni settimana per i figli”. L’assaggio si rivelò soddisfacente, in realtà fu soprattutto mia madre a lodarli dicendo che non erano inferiori ai suoi, io espressi qualche riserva sullo spessore della pasta che, aggiunsi, non era certo paragonabile alla “seta” che avvolgeva i suoi. Al che mamma ribatté che il ripieno era molto gustoso seppur un poco più salato di quel che preparava lei. Alla fine mi disse che quando avesse incontrato la Maria le avrebbe fatto i complimenti, cosa che si verificò puntualmente la settimana seguente. Anche quella volta la mamma ritornò con un pacchetto che la gentilissima Maria, ottenuti i complimenti di rito, le aveva dato con i gustosi tortelli. Anche questo nuovo assaggio si concluse con lodi sperticate da parte di mia madre e con un sobrio apprezzamento da parte mia. Per qualche tempo dunque seguitammo in famiglia a mangiare i tortelli della signora Golzi e mia madre, lodandoli, non si stancava di ripetere che era una fortuna, così lei evitava di prepararne per noi visto che eravamo solo in due a pranzo e a cena. Mio padre infatti, occupato nel lavoro d’albergo, consumava entrambi i pasti al Roma.

Un giorno ero a pranzo da zia Rosa, anche lei ottima cuoca e abilissima preparatrice di tortelli. Nonostante le origini pavesi, la zia era divenuta un’esperta di cucina piacentina perché zio Gino aveva un debole per i piatti di casa nostra e aveva fatto pressione sulla moglie affinché apprendesse a cucinarli. Zia Rosa era un’ottima persona ma aveva un difetto che, a seconda dei punti di vista, potremmo anche definire una virtù: era incapace di tenere un segreto. Quel giorno a tavola stavo gustando con soddisfazione i suoi tortelli, che erano più grandi di quelli di mia madre e che preparava con una pasta leggermente più spessa, quando mi venne di parlare dei famosi tortelli della signora Golzi. Le raccontai dell’incontro tra mia madre e la Maria, a cui erano seguite le soddisfacenti nonché generose degustazioni della pasta ripiena. Mentre narravo l’episodio mi accorsi che zia Rosa dapprima sorrise poi venne colta da un vero e proprio accesso di riso.

Meravigliato le chiesi la ragione di quell’ilarità e lei, tra singulti che ancora la scuotevano, mi raccontò che la storia dei tortelli “dla siura Maria” era una solenne panzana che mia madre mi aveva ammannito per farmi accettare i tortelli confezionati da una nota salumeria del centro. Ci rimasi di stucco e per un attimo dovetti palesare in volto un grande disappunto poiché zia Rosa, preoccupata, mi disse: “Di gnent a to mama”. Evidentemente non voleva le dicessi che aveva fatto la spia. Seppi controllare il mio sdegno e la rassicurai in proposito. In realtà pensavo di fare una scenata a mia madre al ritorno, poi riflettei che così avrei denunciato la zia, inoltre non volevo darle la soddisfazione di sapere che mi aveva menato per il naso così bellamente. Finsi di nulla e stetti al gioco ma un giorno che se ne tornò dal mercato coi famosi tortelli, le buttai lì che non facesse la scena, tanto, cosa credeva, che fossi tonto?, avevo capito benissimo, e da tempo, che non venivano certo da casa Golzi. Comunque, aggiunsi, visto che non erano poi così schifosi come avevo temuto, e ormai li mangiavamo assai spesso, continuasse pure a comprarli ma non mi raccontasse altre frottole. Così salvai la mia dignità e lei non ebbe modo di canzonarmi per la mia ingenuità. (Al solit profesur).