Piacenza del Primo Novecento
Il sito di PiacenzAntica fa ricerca attraverso le testimonianze storiche del passato, quanti di noi hanno ricordi del tempo che fu e quanti altri vorrebbero conoscerli. Farli rivivere per voi sotto forma di scritto e di immagini è un vero piacere, pensiamo che quando un argomento è interessante sia giusto renderlo pubblico anche in parte. Questo racconto di Giana Anguissola era stato pubblicato a cura del vecchio E.T.P. o ente provinciale del turismo nei lontani anni 50, con bellissime parole la scrittrice piacentina ci racconta uno spaccato di vita, momenti speciali o per certi versi quotidiani, ma sempre interessanti. Ecco insomma come si viveva a Piacenza nei primi anni del '900, attraverso i ricordi personali della prof. Anguissola e quelli raccolti durante la sua permanenza nella nostra città.
Venti Anni 1910-1930
Fra quegli anni sbocciò l’infanzia, si svolse la giovinezza, maturò il destino e la personalità della generazione di piacentini che oggi si ritrova, con stupore, i capelli grigi. Un brutto colore perché è indeciso. Non sono ancora vecchi, erano giovani solo ieri quelli con i capelli grigi. E per loro Piacenza era così.
Piacenza è nell’avvenire 1906
Caserme, fabbriche di bottoni, agricoltori in piazza il mercoledì e il sabato, contadine sotto i portici del Gotico coi polli e le uova nelle ceste fra la paglia gialla. La Porta di Sant’Antonio, la Porta di San Lazzaro ancora con le fenditure per le catene del ponte levatoio. Gli chalet dei tram a vapore che attraversava la città per lo Stradone Farnese, la via Venturini, il viale Castello. I grandi signori dell’aristocrazia, i solidi signori della vecchia borghesia, il popolo clamoroso e fiero nei suoi Borghi, con Borghetto in testa. La Scuola Normale Femminile in un vecchio tetro palazzo, molti collegi di monache con lunghe file di educande. Il vescovo Pellizzari dal cappello stinto con i suoi fiocchetti stinti, la mano con attaccato un grappolo di bambini a baciargli l’anello, camminava sempre a piedi e quando morì si scoperse che non lasciava nulla perché aveva già dato tutto ai poveri. Osterie sonore, alla domenica, come gagliardi alveari perché allora l’artigiano, l’operaio non andava al bar o allo stadio. Mogli tristemente tiepide di un soggiorno troppo prolungato e di un ritorno alticcio, spiavano attraverso i vetri della Zocca o dei Tre Gobbi. Si Mangiava il pesce fritto a Po, col divertimento dei treni per Torino che passavano solo di là dalla rete del cortile dove le tavole erano apparecchiate con tovaglie di grossa tela bianca. E il salame alla Galleana nei piatti con le scene dei Promessi Sposi. I tortelli ripieni di pasta di fagioli con l’occhio e di mostarda, a San Lazzaro e a Sant’Antonio il di della sagra. La coppa alle Case di Rocco, sotto il pergolato a cupola. Chi aveva il senso audace dello sconfinamento, si spingeva a far merenda fino a San Rocco, sulla sponda lombarda. Era bello perché per arrivarci si passava sul ponte di Po. Allora la ringhiera era un'altra, ce n’è rimasto ancora un pezzo verso Piacenza, con le galine. La ringhiera e il ponte di ora sono stati rifatti dopo l’ultima guerra. Verso la sponda lombarda c’è una ringhiera diversa, con delle specie di balconcini sull’acqua, perché quel pezzo è di un altro proprietario, è di Milano. Così il ponte pare un campionario di ringhiere: il pezzo vecchio verso Piacenza, il pezzo nuovo in centro, il pezzo milanese verso la Lombardia.
veduta della via borghetto
La passeggiata distensiva per bimbi e vecchi, romantica per i giovani, era il Wauxall, il lungo viale piantato a platani, alto sulle mura allora felicemente intatte, da una parte; su interminabili orti di conventi dell’altra: Santa Chiara, Sant’Agostino, il Sacro Cuore, Sant’Anna, fino alla Madonna della Bomba, così chiamata perché una bomba austriaca s’incastrò accanto all’immagine senza fare danno alcuno. C’è sempre, e forse le suore la lustrano come un soprammobile nella loro imparziale lindura, perché intorno vi è stata costruita una cappella e intorno alla cappella l’istituto dei ciechi. Pregando nel gran silenzio, si udivano suonare il piano. Davanti all’altare appassivano i mazzetti di margheritine raccolti dai bambini nel venire fin li. I vetri smerigliati erano gremiti di suppliche a matita: Madonna fa che R. mi sposi! Madonna fa guarire mia madre! Madonna fammi la grazia che sai! Buffalo Bill coi suoi cavalli, il primo aeroplano, richiamaron gente nel vasto prato tra il Foro Boario e la Porta Sant'Antonio, dove un giorno sorgeva il castello Farnese e poi sorse il X Artiglieria.
Wauxall passeggio pubblico 1918
La limitava un rigagnolo straordinariamente veloce amico dei bambini a cui portava via sandali e zoccoli se se li lasciavan sfuggire correndo sulle sue sponde in gara con l’acqua (non è specificato il nome, forse il Beverora). Soldati in chepì coperto di tela bianca, uniforme blu coi bottoni d’argento filettata di rosso, vi portavano a spasso per la cavezza i cavalli. Le donne al pomeriggio vi cercavan col coltellino le sprelle, per l’insalata con le uova sode della sera. I babbi, al crepuscolo, sedevano fra l’erba a fumar la pipa. Vi si potevano incontrare favolosi insetti quale il Cornabò. Poco lontano si stendeva rossigno l’Ospedale Militare coi soldati convalescenti affacciati alle bifore col berretto di cotone. Possenti piante di platani circondavano il piazzale del Foro Boario. Per la Madonna d’Agosto vi era la fiera dei bovini, si udivano muggire all’alba. I bambini col pentolino di rame o di smalto blu a chiedere il latte per niente perché tanto le mucche bisognava mungerle. Suoni e fischi regolavano e indicavano gran parte della città. Il fischio delle fabbriche dei bottoni, le trombe delle caserme, i più lontani fischi dei treni in sosta e in manovra, perché Piacenza era ed è città di coincidenze e smistamenti.
lo chalet capolinea dei tram
Allora i bottoni si esportavano, rappresentavano quasi tutta l’industria della città. Bottoni di corozo, di palma Dumm. Le bellissime bottonaie seguivan ciabattando fiere sugli esigui marciapiedi di pietra il fischio di uscita, al fischio di entrata. Si chiamavan alte. Tenevan la mano sul fianco. Erano le padrone della città. Quando litigavano si tiravano i lunghi capelli demolendo elaborate pettinature a torre, seminando il lastricato di forcine. A brusio finito, passavano, solitari, pensosi, i padroni e i capi: l’ingegner Rossini, l’ingegner Vaccari, l’ingegner Galletto, l’ingegner Perrault. Il signor Biraghi, il signor Kress, il signor Dodi, il signor Bindi. Al suono della libera uscita la città si inondava di soldati, al suono della ritirata ne rimaneva in secca. Le lunghe note del silenzio cadevan giù sulla stanchezza di tutti, raggiungevano, accorate, le estreme profondità dei cuori, le misteriose lontananze delle stelle. Una sera passò a cometa, rossa, inquietante, bassa all’orizzonte, con la coda lunga, sfangiata. Poi scoppiò la guerra del 1915. L’opera lirica era una passione quasi sportiva. I loggioni si gremivano, nei palchi brillavano insieme ai gioielli molti fra i più bei nomi d’Italia: Landi, Casati, Confalonieri, Douglas-Scotti da Vigoleno, Della Somaglia, Marazzani, Volpelandi, Caracciolo, Malvicini, N. Rocca, Barattieri, Cigala-Fulgosi, Fogliani, Sforza, Trissino da Lodi, Pallastrelli, Pallavicini. Le carrozze a due cavalli imbottite di raso, le lanterne di cristallo, i finimenti cifrati d’argento, si avvicendavano sotto al portico dello splendido Teatro Municipale, una scatola rococò bianca azzurra e oro, di Lotario Tomba. I quartieri eran frazioni. Ogni tanto le squadre di ragazzi che li rappresentavano, facevan la sassaiola. Allora bisognava chiudere le persiane. Nelle vie secondarie l’erba cresceva tra sasso e sasso. La banda suonava in Piazza, e per la Madonna d’Agosto si facevano i fuochi artificiali.
la macchina dei fuochi artificiali 1909
Io non posso soffrir gli scoppi, e mio padre, per educarmi, mi teneva, con le sue mani di ferro, in prima fila. Ci morivo nella veste di mussola bianca gonfia sulla sottanella ricamata, con nastro e passanastro, il cappello di paglia a mastello rovesciato in testa coi mazzetti di ciliegie rosse ai lati, imbottite di ovatta. Gli articoli per regali sicuri li aveva Nastrucci. Il gioielliere fine era Amadori. La pasticceria di classe, di Damino Grandi. Il maggior fiorista Zucconi, il miglior fotografo Gregori, il farmacista tradizionale Corvi. Un vero cappello lo creava la Pallaroni, un vero abito la Verdini. Le scarpe, Piendivalle. Un uomo chic non poteva fornirsi di camicie che da Neri Colombo. La signora chic di tessuti da Zanetti. Andando su e giù anche tre volte, per il Corso, alla domenica, da via Nova a via Milano, insieme con la madre la ragazza trovava marito.
veduta esterna del bar Italia
La sosta era al bar Italia, con quei bei vestiti di seta, crespo, velo. Si mettevan per la prima volta la prima domenica di giugno, alla rivista. La brezza degli Appennini faceva tremare dolcemente il foulard lieve delle maniche. La più bella era sempre la Fugazza. L’Hotel San Marco poteva considerarsi internazionale: vi correvano gli ultimi soldi di antichi signori, i primi soldi dei signori nati con la guerra. I bei palazzi erano ancora tutti dei conti, dei marchesi, dei duchi, di cui portavano da secoli i nomi. E così per cento e più castelli della provincia. Poi i bottoni incominciarono a diventare galalite, i cavalli, motori. La vita artificiale, sintetica, subentrò alla tradizionale, genuina. Altre industrie sorsero, languirono le vecchie. Nuovi nomi e nuovi valori sostituirono gli antichi. Molta incantata bellezza fu sciupata perché non la si intendeva più intendendo solo il valore del terreno su cui sorgeva. Il Wauxall non è più nulla. Le mura cadono. La città si allarga. Nella memoria, come un medaglione, la generazione che ora ha i capelli grigi ne porta in sé il ricordo: una miniatura intorno alla quale, a cornice, stridono pazze le rondini che oscuravano l’aria attorno al Palazzo Farnese, generoso di buchi e di anfratti per i loro nidi europei, che ora lascian deserti perché gli insetti, il loro pasto, li distrugge il D.D.T. (di Giana Anguissola).