penna

la Colombella

di Giorgio Vecchi

Ho pianto a lungo
la mia colombella.
La raccolsi che, implume,
tendeva le ali nell’inutile volo.
Era quella bianca bestiola
la mia gioia, la mia festa,
la mia sola compagna.
Io l’ho nutrita, protetta
e quindi amata come s’ama
in solitudine chi ci resta vicino.
E il cuor m’addolciva ogni volta
quel suo sbatter di piume
nella mia casa vuota,
il suo tubante saluto mattutino.
Ora è fuggita, volata su nel sole
Il frullare dell’ali più non odo
resta solo un mucchietto di piume
che ha voluto lasciare
per consolarmi un poco.



Questa lirica è una delle più antiche che scrissi. Risale più o meno ai tempi in cui andammo a vivere nel Grande Albergo Roma, dunque nel periodo compreso fra il 1958 e il 1962. Ero allora un adolescente brufoloso e svogliato che frequentava, con scarso profitto, i primi anni di Ragioneria al Romagnosi di Piacenza. A me piaceva leggere e proprio in quei mesi due eventi letterari importanti avevano catturato la mia attenzione. Era da poco apparso in libreria “Il dottor Živago”, il libro di Pasternak pubblicato in prima mondiale da Feltrinelli che in breve divenne un successo mondiale. Io l'avevo avuto in prestito da mio zio Angelo, bibliomane consumato, che possedeva una notevole biblioteca personale a Montù, e in breve l’avevo divorato nonostante la mole. Insieme al romanzo di Pasternak lo zio mi diede anche un altro libro, uscito pressappoco nello stesso periodo sempre per Feltrinelli, che stava diventando un vero caso letterario, “Il Gattopardo”, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Scoprii con sorpresa e piacere, leggendo la presentazione, che la sua pubblicazione si doveva al fiuto di Giorgio Bassani che ne aveva compreso il valore dopo che molte case editrici lo avevano rifiutato. Di Bassani ero già un estimatore avendo letto sempre per il tramite del mio dotto zio, le “Cinque storie ferraresi” , libro di straordinario spessore che ebbe molta parte nell’indirizzare i miei gusti di novello lettore. Predilezione per lo scrittore ferrarese che si rafforzò e consolidò qualche tempo dopo con la lettura del racconto lungo “Gli occhiali d’oro” e soprattutto del celebre romanzo ”Il giardino dei Finzi-Contini”, libro quest’ultimo che ci venne raccomandato anche dal nostro insegnante di Lettere, il professor Ranieri Schippisi persona di grande competenza letteraria e ottimo docente.


salone ristorante del 7° piano
con mio padre e i cugini Lalla e Bruno di Asti

Quello fu dunque il periodo del mio accostamento alla lettura “seria” dopo tanti facili libri d’avventura per ragazzi e ciò ebbe indubbiamente il suo peso nello spingermi a scrivere qualcosa di mio. Anche mio zio mi spronò a scrivere dopo che gli ebbi mostrato con titubanza i miei primi tentativi letterari. Stranamente però le mie preferenze s'indirizzarono quasi subito verso la poesia. Avevo letto una raccolta di liriche di Ungaretti che lasciò per così dire il segno sulla mia sensibilità di lettore. Poco dopo all’università avrei scoperto Montale e altri “ermetici” a guidare le mie scelte in ambito poetico.

La poesia che ho presentato mi fu suggerita un giorno di primavera del ’60 o '61. Come ho detto la mia famiglia occupava un piccolo appartamento al secondo piano del Grande Albergo Roma. Le finestre delle stanze da letto davano sul davanti, su via S. Marco, proprio di fronte all’ex Albergo omonimo sopra alla rampa del garage. Le altre invece erano del salotto/studio e si affacciavano sul lato interno, compresa una porta finestra che dal bagno dava accesso al cortile. Io solevo studiare su un piccolo tavolino che fungeva da scrivania proprio accanto ad un delle grandi finestre della stanza. Una mattina vidi una coppia di tortorelle planare nel cortile forse attratte da alcune briciole di pane che a volte mia madre lasciava per gli uccellini di passaggio. Quel giorno però la coppia di tortorelle era in vena di fare nuove conoscenze perché si posò sul davanzale a pochi passi da me e cominciò a tubare con insistenza. Invece di scacciarle aprii discretamente un’anta della finestra per vedere se sarebbero fuggite. Invece una più sfacciata o più audace si posò sul piano del tavolino fissandomi. La lascia fare e quello fu l’inizio della nostra amicizia. Da allora quasi ogni giorno venivano in visita e spesso entrambe si posavano sulla scrivania o sui braccioli di una vecchia poltrona li accanto. Non tentai mai di prenderle, non volevo spaventarle, mi bastava la loro presenza per mettermi di buon umore. Vennero per tutta l’estate poi in autunno sparirono e non le vidi più. Mi venne allora l’ispirazione di scriverne qualcosa e così nacque questa poesia che mi fu sempre cara. Sostituii la tortora con la colombella che mi sembrava più “poetico” e ne feci una creazione attingendo alla mia fantasia. (Al solit prufesur).


sulla terrazza del Grande Albergo Roma