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Quando i Piacentini Scoprirono la Televisione

di Mario Gioia

Nei giorni del Festival di San Remo, la memoria va sempre alla casa di Piacenza dove siamo cresciuti le mie sorelle ed io. Erano giorni importanti quelli del Festival, la nostra casa la prima ad avere il televisore ed era il centro di una piccola comunità di amici. Voglio raccontare come quella comunità si formò nei primi anni ’50. Alla fine degli anni ’40 tre amici, stavano riprendendosi la loro vita, si ritrovano sul lavoro dopo la diaspora della guerra, a loro se ne unirono altri tre colleghi. Erano quasi coetanei, tutti con famiglia, e quasi tutti con prole. Si misero insieme per costruire un pezzo del loro futuro, la loro casa. Erano stati assunti nello stesso periodo al Banco di Roma in Piazza Cavalli, prima della guerra. Mio padre aveva lasciato Piacenza nel Maggio del ’40, richiamato in Nord Africa, e quando la guerra scoppiò poche settimane dopo rimase arruolato, fu fatto prigioniero e dopo molti trasferimenti nei territori dell’Impero Britannico, finì in India da dove tornò nell’Agosto del 1946. Al suo rientro trovò una Piacenza martoriata della guerra ancora ampie erano le ferite dei bombardamenti ed i ponti sul Po erano ancora da ricostruire. Era già sposato con mia madre la cui famiglia non aveva più una casa, era stata “sfollata” dalle autorità. Lo “sfollamento” consisteva nel vuotare la città e ricollocare i civili in zone sicure, non a rischio di bombardamenti. Ad ogni quartiere della città era stato assegnato un comune dell’appennino, a loro era toccato Pianello in val Tidone. Finita la guerra e cessato il pericolo, non erano potuti rientrare subito a Piacenza, perché la loro casa, dietro al Duomo, era stata requisita e suddivisa in più locali con dei tramezzi per dare posto in qualche modo alle famiglie di chi aveva perso tutto nei bombardamenti. Così, quando mio padre, reduce, trascorse le prime settimane in Val Tidone, presso una famiglia di agricoltori, dove non mancava il buon pane, il buon latte ed il buon vino ed in poche settimane riprese molto del suo peso, quando era ritornato dall’india, sfinito, era pelle e ossa.


Televisori nella vetrina di via Garibaldi 93, foto Benedetti

Verso la fine dell’anno ’46, finita la licenza, riprese il suo lavoro in banca dove ritrovò alcuni dei colleghi della scuola e del lavoro, ognuno con un racconto del periodo della guerra e dove purtroppo molti non fecero ritorno. Si trattava di riprendersi una vita interrotta, per prima cosa occorreva una casa a Piacenza. Il problema della casa era drammatico, lui non aveva mai avuto una sua casa, non aveva più famiglia, aveva perso i genitori e, prima della guerra, da scapolo, viveva in una stanza in affitto in centro, vicino alla Banca. Vissero per qualche mese presso l’abitazione della nonna, la cui casa, ridotta dopo la suddivisione, bastava a malapena per lei che ne era la legittima occupante. E poi la famiglia cresceva in fretta, la prima figlia era in arrivo, poi arrivò la seconda, e trovarono per un paio d’anni un alloggio in un paio di stanze ricavate in una casa nobiliare in via Gaspare Landi, ma fu per poco, la casa era scomodissima con il classico “bagno” in corte. Si spostarono allora all’estrema periferia a Mucinasso, in una casa padronale con un bel giardino dove era stato ricavato qualche alloggio, era comoda per andare a lavorare in piazza Cavalli, perché il treno che veniva da Bettola faceva la sua ultima fermata prima di entrare in città a poche centinaia di metri dalla casa. Nel 1952, quando ormai ero nato anch’io, il terzo figlio, iniziò le pratiche per un alloggio “INA-casa”. L’INA casa costruiva ed assegnava nuove case, secondo la graduatoria ma anche aiutava prestando mutui agevolati a chi lavorava e comprava la propria casa. Così con i tre amici, colleghi della stessa banca, poi con altri tre colleghi, sei in tutto, costituirono un raggruppamento, trovarono un lotto di terreno edificabile, in una via che, nel 1953, esisteva solo come una traccia sul piano regolatore generale: Via Francesco Saverio Bianchi, nella realtà era solo un prato. Avevano amici tra i geometri e ragionieri ex compagni di scuola, trovarono un’impresa e si fecero fare un progetto di una palazzina di sei appartamenti, due per piano tutti uguali con tinello, angolo cucina, sala, disimpegno, due camere da letto, bagno, cantina, e un’area assegnata a ciascun alloggio sul retro dove si poteva fare un po’ d’orto.


Televisori nel negozio di via Garibaldi 93, foto Benedetti

La costruzione durò poco più di un anno e finalmente nel giugno del 1953 entrarono in quella che era la “loro” casa. Era in mezzo ad un prato. Le finiture erano semplici, economiche ma sembrava una reggia. I muri erano ancora freschi di intonaco e pittura e mancava ancora la cancellata esterna, ma tanta era la voglia di entrare che in pochi giorni le sei famiglie erano tutte lì ad abitarla. Ed era ancora tutta da pagare, ma il lavoro in “un posto fisso” dava loro e soprattutto all’INA la certezza che il debito sarebbe stato pagato. L’avrebbero pagata in trecento rate mensili come risulta dal rogito. Le rate erano di 6,190 lire, sembra poco oggi ma allora erano una bella fetta dello stipendio. Ma dopo quello che avevano passato, prima la guerra e poi le difficoltà del dopo guerra non li spaventava certo il dover lavorare per pagare quel debito. Le sei famiglie erano affiatate per la comune occupazione, formarono presto una comunità di amici ed amiche, anche i figli fecero comunità con quelli che poi sono stati i primi compagni di giochi e poi di scuola. La comunità si sciolse solo quando per esigenze di lavoro alcuni di loro dovettero cambiare città, ma l’amicizia rimane per tutta la vita, fino a quando ad uno ad uno tutti hanno lasciato questo mondo. Quanti ricordi abbiamo di quella casa!

In particolare, meglio racconta lo spirito di quei giorni felici, l’avventura della televisione. Nella famiglia di mia madre i fratelli avevano tutti il pallino delle telecomunicazioni, erano appassionati radioamatori, si costruivano i propri apparecchi e di questa passione uno dei fratelli fece una professione lavorando per una delle più importanti fabbriche di apparati radio e poi di televisori di Milano e un altro fratello installava gli impianti di antenne della TV. Erano gli anni in cui stava nascendo la televisione in Italia, si trasmettevano le epiche imprese sportive del ciclismo, le partite di calcio e gli incontri di boxe, per non parlare dei festival di San Remo, delle opere liriche e dei primi telequiz. Tramite gli zii, la mia famiglia fu la prima del piccolo condominio che ne ebbe una, ad un buon prezzo. Fu posizionata nel tinello, in alto in un angolo sopra un cavalletto, con lo stabilizzatore di tensione sotto ed il centrino di pizzo sopra. Quell’apparecchio divenne la TV di tutto il condominio. L’organizzazione delle serate era perfetta, noi abitavamo al piano intermedio sulla destra salendo le scale, quando la trasmissione stava per iniziare venivano usati due strumenti di comunicazione condominiali: la ciabatta e la scopa. La prima percuoteva il pavimento per chiamare Giacomino l’amico del piano sotto, piano terra a destra, lui prima di salire bussava al suo dirimpettaio, Gianni. La seconda picchiava sul soffitto e chiamava Armando che faceva la stessa cosa con il suo dirimpettaio, Ennio, entrambi prima di entrare da noi bussavano al nostro dirimpettaio, Dario.

Tutti arrivavano con le mogli, chi li aveva portava i figli e tutti qualcosa da mangiare o da bere, un pezzo di ciambella, un fiasco di vino, un salame “nostrano”. Le mogli, se non erano interessate alla TV, come nel caso dello sport, stavano in sala a chiacchierare, cucire, rammendare o lavorare a maglia. Noi bambini, a volte cinque, a volte sei o sette giocavamo all’infinito nella camera e nel disimpegno. Le serate importanti riempivano il tinello, ma mi ricordo in particolare del Festival di San Remo del ’55 il primo trasmesso dalla televisione, la serata riempì il tinello all’inverosimile. C’erano tutti i condomini, che si erano portati le seggiole, qualcuno portò i parenti e c’era anche il nostro dottore. Il tinello era pieno, era gennaio, fuori faceva freddo le finestre erano chiuse, tutti fumavano, l’aria era pesante, ad un tratto uno degli spettatori fece un potente starnuto, il sussulto si trasferì di gomito in gomito e l’ultimo ruppe il vetro della porta finestra dall’altra parte della stanza! Furono risate a non finire! Che momenti di genuina felicità! Essere usciti dal tunnel della guerra e dalle difficoltà del dopo guerra, con le proprie forze, dava a tutti una grande speranza nel futuro. (Testo dalla rivista l’Urtiga per gentile concessione di LIR edizioni).