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i Campi di Prigionia a Piacenza

8 settembre 1943 - fuga dei militari stranieri
prigionieri nei campi di internamento nel piacentino


di Romano Repetti

Veano, anni ‘40

Durante la seconda guerra mondiale, che Mussolini, schierato al fianco di Hitler, aveva dichiarato a Francia, Inghilterra, Grecia, Jugoslavia, e perfino a Urss e Usa, anche l’esercito italiano nelle prime fasi aveva conseguito dei successi e fatto dei prigionieri, soprattutto in Nord Africa con il contributo delle truppe di Rommel. Cosi, dopo la disfatta militare italiana, lo sbarco degli Alleati in Sicilia e l’armistizio dell’8 settembre 1943, si trovavano in Italia, distribuiti fra una settantina di campi di internamento, 79.543 militari stranieri prigionieri, dei quali 42.194 britannici, 26.126 delle altre nazioni del Commonwealth, 1.310 statunitensi, 6.153 jugoslavi, 2.000 francesi, 1.689 greci. In provincia di Piacenza vi erano quattro centri di detenzione, prevalentemente destinati agli ufficiali: il P.G. n.17, nel Castello di Rezzanello, con 50 internati greci; il P.G. n.26, nel Convento francescano di Cortemaggiore, con 235 internati, prevalentemente jugoslavi; il P.G. n.29 nella sede estiva a Veano del Collegio Alberoni, con 252 internati britannici e del Commonwealth, fra i quali molti ufficiali superiori, fra cui due generali ed un ammiraglio; inoltre un centro di assistenza ospedaliera nel Collegio Morigi di Piacenza per prigionieri ammalati. Nel marzo del 1943 era stato invece chiuso il P.G. n. 41 realizzato nel Castello di Montalbo.

Una clausola dell’armistizio prescriveva la restituzione ai loro Paesi dei militari prigionieri in Italia, ma al suo annuncio seguì immediatamente l’occupazione tedesca del territorio italiano e lo sbando del nostro esercito, con l’abbandono anche della vigilanza dei campi di detenzione. Agli italiani si sostituirono però i militari tedeschi che avevano in programma il trasferimento dei prigionieri in Germania. Ma il rimpiazzo contestuale poté avvenire la dove, come al Collegio Morigi di Piacenza, le forze hitleriane arrivarono già il 9 di settembre. Nelle strutture più periferiche vi fu un intermezzo di mancata sorveglianza che rese possibile l’evasione dei prigionieri. La fuga e la libertà si presentavano peraltro in termini alquanto problematici, anche perché i militari tedeschi si erano messi subito alla caccia degli evasi. Dove andare? dove nascondersi? come cibarsi? Non conoscevano il territorio, non disponevano di cartine geografiche, non parlavano la lingua locale. Ed oltretutto, riconoscibile come erano nelle loro vecchie divise, pensavano che la popolazione li avrebbe considerati sempre dei nemici e ne avrebbe favorito la cattura.


Castello di Montalbo

L’aiuto della popolazione per sottrarli alla cattura e alla deportazione in Germania. Invece, sorprendendo gli stessi prigionieri, si sviluppò nei loro confronti una grande solidarietà da parte della popolazione. Furono ospitati nelle case, sfamati, dotati possibilmente di abiti civili, forniti di nascondigli, informati dei movimenti delle pattuglie tedesche che erano alla loro caccia. In effetti è questa la prima significativa forma in cui si manifestò anche nella nostra provincia una ampia resistenza popolare contro gli occupanti hitleriani ed il rinato fascismo di Salò, nonché la più netta sconfessione dell’assurda e barbara guerra voluta da Mussolini. Più documentate sono le vicissitudini dei prigionieri appartenenti alle nazioni dell’impero britannico che da Veano cercarono inizialmente rifugio nel territorio della media e alta Val Nure. In questa vallata dall’ottobre ‘43 non vi fu centro abitato fra quelli più discosti dalle vie di comunicazione che non custodisse il suo gruppo di inglesi - da Spettine, a Riglio, a Padri, a Leggio, a Calenzano, a Nicelli, a Cogno San Savino, a Cassimoreno. Custoditi nelle cantine, nei solai, nei fienili, in rifugi sotterranei appositamente scavati. Furono le famiglie contadine che soprattutto si fecero carico della sopravvivenza e della sicurezza di questi stranieri. A Bettola, la casa di proprietà della famiglia Baio Francesco con la moglie Maria Carella e l’intrepido figlio ventiduenne Cesare divenne un centro di smistamento e di sostegno, oltre che per i primi ribelli piacentini, anche per questi ex prigionieri. I Baio che facevano la spola fra il capoluogo valnurese e Piacenza, raccoglievano beni alimentari e di abbigliamento da distribuire, s’informavano sui movimenti dei nazifascisti, tenevano i contatti con gli uomini del Cln piacentino. Anche dal Collegio Morigi, avendo saputo che la popolazione li avrebbe protetti, una decina di prigionieri riuscirono ad evadere. Inizialmente nascosti e riforniti di cibo nelle boschine di foce Trebbia furono poi anch’essi accompagnati in alta Val Nure.


convento francescano di Cortemaggiore

Andare aldilà del fronte o scappare in Svizzera.Inizialmente gli ex prigionieri erano convinti che bastasse restare nascosti per qualche settimana perché presto sarebbe arrivato l’esercito alleato liberatore, ma si stava avvicinando l’inverno e quell’esercito era ancora bloccato nel Sud dell’Italia. Si pose quindi il problema di portare definitivamente in salvo gli ex prigionieri. A questo obiettivo si dedicarono in particolare gli uomini collegati con il Cln. Il giovane studente Luigi Broglio verso la metà di ottobre accompagnò il capitano Addison nel lungo cammino per raggiungere e passare aldilà del fronte. Dopo un mese i due raggiunsero le forze alleate a Termoli. Ma questo fu uno dei pochi tentativi di questo genere che ebbe successo. E Broglio, fucilato nel luglio ’44 a Fossoli, pagherà con la vita la sua collaborazione con gli inglesi. Altri otto ex prigionieri, al comando del colonnello Sir Thomas Gore, attraverso la Val d’Aveto si spostarono in Liguria e, aiutati dai partigiani locali, con una barca da Voltri raggiunsero fortunosamente la Corsica. La via principale della libertà fu però quello del trasferimento clandestino in Svizzera, utilizzando la rete di assistenza messa a punto dal comitato militare del Cln milanese. Gli ex-prigionieri, debitamente travestiti, dovevano essere accompagnati in piccoli gruppi a Milano dove nei pressi della Stazione Centrale erano stati resi disponibili alcuni alloggi per ospitarli temporaneamente. Al momento opportuno sarebbe stati accompagnati, via Como, fino a Ponte Chiasso dove i doganieri svizzeri, già in possesso dei nominativi, avrebbero loro aperto il cancello della frontiera.

Ricorda l’ex partigiano Angelo Scacchi: “Eravamo verso la fine dell’ottobre ’43. Salii con Piero Cella, che lavorava per il Cln, fino a Case Camia sopra Bettola a recuperare quattro sudafricani che avevamo conosciuto dopo l’evasione dal Collegio Morigi. Prendemmo la “Littorina” non a Bettola ma a Recesio. Da Piacenza, sempre in treno e con molta trepidazione, accompagnammo i due a Milano. Dalla Stazione Centrale, secondo le istruzioni che aveva Cella, ci spostammo alla Stazione Nord e prendemmo il treno per Como, scendendo però alla penultima fermata dove trovammo una guida che prese in consegna i quattro sudafricani”. A sua volta, la signora Carella Baio in un libro di memorie ha ricostruito il trasferimento in Svizzera, fra novembre e dicembre, di diversi ufficiali inglesi, a cominciare da un primo gruppo di cinque anziani colonnelli. Il rischioso compito di accompagnatore fino a Milano o a Como fu svolto più volte dal marito e dal figlio, ma anche da uomini del Cln quale Giuseppe Narducci. Il colonnello D. Young sarà invece aiutato a passare in Svizzera direttamente dalla famiglia che lo ospitava, gli Alberici. Anche i ferrovieri collaboravano per il successo di questi trasferimenti. Collegati con le diverse stazioni tramite la rete telefonica aziendale, preavvertivano su eventuali controlli dei passeggeri da parte dei militari tedeschi o fascisti. Ricorda l’ex ferroviere e partigiano Bruno Pancini: ”Avevamo sempre con noi sul treno anche una scorta di berretti da “portatori” che, nel caso di controlli, mettevamo in testa alle persone che rischiavano di essere arrestate, facendole passare come facchini in servizio”.


Cesare Baio, deceduto in Germania

Repressioni nazifasciste e partecipazione degli ex prigionieri al movimento partigiano piacentino.Con il rafforzarsi della presenza militare tedesca e la ricostituzione delle milizie fasciste però la caccia agli ex prigionieri si intensificò e conseguì dei successi Si cominciarono a colpire anche i cittadini che aiutavano gli ex prigionieri. Bandi tedeschi minacciarono anche a loro deportazione in Germania ed un decreto del governò di Salò addirittura la condanna a morte. Particolarmente insidiosa inoltre l’offerta delle autorità militari tedesche di una taglia di 1.800 lire per ogni militare straniero di cui si fosse favorita la cattura. Il 6 gennaio 1944 anche Francesco, Cesare e Maria Baio furono arrestati, contemporaneamente ad altri quattro antifascisti. Aiutare gli ex prigionieri divenne sempre più pericoloso. Cessò l’accompagnamento in Svizzera, ma non il sostegno, soprattutto delle famiglie contadine, ai militari rifugiati nei paesini di montagna. Alcuni di questi si unirono ai primi gruppi di partigiani piacentini. Il capitano scozzese Arcibald D. Mackenzie diventerà in Val Nure vice-comandante della Brigata “Stella Rossa” e perderà la sua vita sulle colline del Bagnolo nell’ottobre ‘44. Il maggiore Gordon Lett con altri inglesi andrà a costituire un battaglione partigiano internazionale nell’Appennino ligure. I militari greci, a loro volta, dopo l’8 settembre, da Rezzanello avevano cercato rifugio più su nel territorio montano. Si sa di un gruppo che trascorse l’inverno ‘43/’44 nel paesino di Canale, sul versante bobbiese del Monte Lazzaro e che poi si costituì il nucleo di una piccola banda partigiana al comando del sottufficiale Andrea Spanoyannis con sede a Costalta di Pecorara.


centro assistenza ospedaliera al collegio Morigi

Dei militari jugoslavi detenuti a Cortemaggiore una parte certamente tentò la lunga e pericolosa via del ritorno in Slovenia e Croazia. Altri si rifugiarono nelle frazioni dell’alta Val d’Arda dove furono anche lì sfamati e protetti dalle famiglie contadine. Il tenente Giovanni Gravaz con i compagni insediato nel territorio di Settesorelle costituirà anche lui una banda partigiana e nel febbraio’44 caccerà i militi fascista dalla Caserma di Luneto. Diventerà poi noto come Giovanni lo Slavo, comandante delle 62ª Brigata partigiana garibaldina. Si conteranno 42 jugoslavi nelle fila del movimento partigiano piacentino. Nel complesso si calcola che dei quasi ottantamila militari prigionieri in Italia l’8 settembre ’43 circa il 20% si sia sottratto alla cattura tedesca e all’internamento in Germania. Per i detenuti in provincia di Piacenza non si è in grado di fare un calcolo preciso ma la percentuale fu certamente molto superiore. (Romano Repetti per Grac- Gruppo Ricercatori Aerei Caduti Piacenza).