penna

le Cotolette dello zio Ferrari

di Giorgio Vecchi

Nel vecchio Roma avevo una bella squadra di zii, in genere fratelli di mio padre: zio Natale, zio Egidio, zio Giulio, zio Angelo ma c'erano anche gli zii acquisiti come zio Gino che aveva sposato Rosetta, una delle sorelle di mio padre. Come non bastasse potevo pure contare su uno zio putativo, lo zio Armando Ferrari, detto Vanettu. Era costui uno dei pëssgatt più fedeli, vecchio amico di baracche di papà fin dai tempi del Bottegone. Aveva un'avviata attività nel campo dei marmi, per cui al Roma era noto come "Fereri al marmista" per distinguerlo dall'altro Ferrari, Renato, titolare della Cantina Quattro Valli e pure lui vecchio amico di mio padre. Armando era un accanito giocatore di briscola e di "brisc e brasc", che non era poi altro, credo, che la briscola che si giocava in due. Lo rivedo nella saletta mentre siede al tavolo con zio Gino, suo abituale partner di briscola, polemico e mordace col compagno quando da lui si attendeva una diversa giocata. Zio Gino era anch’egli sempre piuttosto nervoso quando sedeva al tavolo da gioco e non amava perdere per cui finiva spesso che i due, quando uscivano sconfitti, litigassero rumorosamente sull'andamento della partita rinfacciandosi reciprocamente le giocate poco felici. Ricordo che un giorno assistevo interessato a un brisc e brasc tra i due. Ad un certo punto Vanettu, indispettito perché zio Gino stava vincendo alla grande la partita, mi si rivolse e indicandolo, esclamò: "S' at ciam zio che lü , cle gnint par te, alura at po ciamem zio anca me", forse voleva essere solo una battuta ma ebbe successo tra gli altri pëssgatt presenti in sala e da quel giorno Vanettu, fu lo zio Ferrari. Conservo ancora una foto mia che sul retro porta, scritta di mio pugno con infantile calligrafia, la dedica "Al caro zio Ferrari"; non so perché non gliela diedero. Vanettu era un piacentino sanguigno, ciarliero e un pò pettegolo. In questo faceva il paio con zio Gino, detto da zia Rosa il "Gazzettino Padano." I due insieme interagivano in modo perfetto componendo con le loro storielle un bel campionario di quanto avveniva in città in quei giorni. Spesso parlavano di faccende di corna, argomento principe in quella Piacenza provinciale e un pò bigotta che fingeva di scandalizzarsi per i peccati della carne ma che in realtà adorava farne oggetto di piccanti narrazioni. A loro si univano sovente "Gion il messiccano" e qualche altro amico della compagnia. E allora i commenti e le risate si moltiplicavano.


cortile del vecchio Roma, 1939. Gruppo di "pëssgat" e personale dell'hotel.
Vanettu Ferrari è il secondo da sinistra, zio Gino è il quinto da destra,
mio padre, ultimo da destra

Vanettu a quel punto saliva in cattedra e sciorinava una sfilza di episodi gustosissimi che io potei udire solo di straforo quando quei chiacchieroni, troppo infervorati nelle loro rievocazioni, non si accorgevano della mia presenza, e mia madre in quel momento era assente. A Gion in quelle occasioni toccava il ruolo del comprimario. Essendo un uomo semplice e poco istruito lui aveva un senso dell'umorismo alquanto grossolano ma a volte sapeva essere comicissimo sfoderando narrazioni di casalinghe insoddisfatte che, a suo dire, era stato in grado di consolare. Vanettu spesso lo investiva con la sua lingua tagliente, "Gion, te a te bon apena da mangié e dimbruiè i povar disgracié chi compran i to machin" e lo canzonava con i suoi sarcasmi. Gion non si scomponeva, incassava sorridendo e sentenziava "Mei imbruié quelca luc che avig a che fé coi mort," alludeva alla professione di Vanettu, che forniva il marmo per le tombe a mezza Piacenza. Un giorno Vanettu, in combutta con altri pëssgatt volle giocare un tiro mancino a Gion che aveva una fama ben meritata di gran mangiatore. Vanettu, che si era in precedenza accordato con zio Egidio, annunciò di voler festeggiare non so quale anniversario pensando di invitare gli amici più intimi per una breve colazione a base di cotolette alla milanese. Allora convenuta tutti gli allegri commensali ricevettero delle succulente cotolette salvo Gion, al quale furono servite delle cotolette "speciali" preparate utilizzando dei ruvidi e bisunti frammenti di sacco che lo zio cuoco usava per ripulire le padelle ma che una volta impanati parevano davvero cotolette. Gion non si capacitava del fatto che mentre gli altri amici mangiavano di gusto le tenere cotolette di vitello, lodandone ad alta voce la bontà e la morbidezza, a lui la cosa non riuscisse per niente. Dopo alcuni inutili sforzi nel suo piatto c'erano solo mucchietti di pan grattato e frammenti scuri immangiabili ed egli finalmente comprese che gliel'avevano giocata. Ma non se la prese più di tanto e per non dar troppa soddisfazione a quei burloni che ridevano sotto i baffi si mangiò senza tanti complimenti il pan grattato. (Al solit profesur).