la Cattura del Partigiano “Sandokan”
In questo giorno che ricorda la fine della guerra e della dittatura fascista voglio qui lasciare il contributo di un caro amico che fu giovane partigiano in Val Nure. Giuseppe Filippa, recentemente scomparso, mi dettò le righe che seguono e che feci pubblicare sul numero de “l’Urtiga”. Giuseppe attendeva con ansia la pubblicazione. Purtroppo non è riuscito a vederla. Spero che da qualche altra parte lo possa fare. In ogni caso lui fece la sua parte per dare all’Italia la libertà. Per questo merita il nostro rispetto e il nostro affettuoso ricordo insieme a quello di chi purtroppo non ebbe altrettanta fortuna.
Era il mese di settembre del 1944, avevo quasi sedici anni e da poco mi ero unito ai partigiani quando dal Comando di Bettola venne ordinato, alla mia squadra volante, che faceva parte della 59ma Brigata Garibaldi, di procurarsi un mezzo per andare a ritirare presso la chiesa di Obolo, parte del materiale paracadutato dagli alleati e destinato alla Brigata Caio. Era notte e ci ricevette un giovane prete che ci intrattenne offrendoci uno spuntino, poi al momento del congedo mi mise la mano sul viso e mi accarezzò dicendomi: ‘Sei molto giovane, ti benedico’. Seppi poi che si trattava di don Giuseppe Borea, Cappellano partigiano della Divisione Valdarda. Don Borea a dicembre venne arrestato dai fascisti, condannato a morte e fucilato nel febbraio del 1945, dietro il Cimitero di Piacenza. Ebbene, dopo tanti anni continuo a pensare che la benedizione di quel sant’uomo mi abbia salvato pochi mesi dopo da una morte certa.
Era il mese di settembre del 1944, avevo quasi sedici anni e da poco mi ero unito ai partigiani quando dal Comando di Bettola venne ordinato, alla mia squadra volante, che faceva parte della 59ma Brigata Garibaldi, di procurarsi un mezzo per andare a ritirare presso la chiesa di Obolo, parte del materiale paracadutato dagli alleati e destinato alla Brigata Caio. Era notte e ci ricevette un giovane prete che ci intrattenne offrendoci uno spuntino, poi al momento del congedo mi mise la mano sul viso e mi accarezzò dicendomi: ‘Sei molto giovane, ti benedico’. Seppi poi che si trattava di don Giuseppe Borea, Cappellano partigiano della Divisione Valdarda. Don Borea a dicembre venne arrestato dai fascisti, condannato a morte e fucilato nel febbraio del 1945, dietro il Cimitero di Piacenza. Ebbene, dopo tanti anni continuo a pensare che la benedizione di quel sant’uomo mi abbia salvato pochi mesi dopo da una morte certa.

Narrerò brevemente il fatto e le drammatiche circostanze in cui avvenne la mia cattura da parte dei repubblichini.
Nel mese di gennaio del 1945, la linea del fronte della guerra in Italia si arrestò sulla linea gotica, a causa dell'inverno particolarmente rigido. Le truppe nazifasciste, impegnate a contrastare l'avanzata delle truppe alleate, vennero allora dirottate più a nord e utilizzate per sferrare un furioso attacco alle formazioni partigiane che controllavano ampie zone dell’alta Italia. I tedeschi, con l'aiuto di potenti mezzi blindati, iniziarono un imponente rastrellamento delle zone occupate dai partigiani, costringendoli a ritirarsi sulle montagne. La mia squadra si unì al reparto e cercammo rifugio in zone sicure. Corremmo per due giorni per sfuggire all’accerchiamento dei nazifascisti fermandoci solo per chiedere qualcosa da mangiare in quelle poche zone abitate e per dormire in vecchie baite sull’alto Appennino. Sentimmo parlare di molte vittime e di arresti di nostri compagni. Arrivammo infine in una zona irraggiungibile dai mezzi corazzati, senza più sparatorie. Io però stavo male, avevo la febbre alta per il freddo e la neve, non volevo rischiare di morire in quelle precarie condizioni e così decisi di tentare di arrivare a Poggioli, dove la mia famiglia era sfollata dal ’44, e dove speravo di trovare mia mamma e mia sorella. Contavo anche sul fatto che la mia giovane età mi avrebbe favorito nel caso avessi incontrato delle pattuglie nemiche. Ero stremato ma trovai la forza di arrivare a Poggioli dove finalmente potei riabbracciare mia madre e mia sorella che non vedevo da tantissimo. Dopo un paio di giorni di riposo mi sentivo molto meglio e pensai, d’accordo con le mie donne, che sarebbe stato opportuno per noi raggiungere Piacenza. In fin dei conti eravamo una famiglia di sfollati con i documenti in regola e non avremmo corso grossi rischi. L'indomani ci mettemmo in moto. A Farini d'Olmo c'era un presidio di repubblichini ma non fecero nessun controllo. Tirammo dritto puntando su Piacenza. Arrivammo a Bettola, presidiata da un Battaglione della Divisione San Marco, ma nessuno ci fermò per controllare e continuammo per la nostra strada. A Ponte dell'Olio ci fermammo per la notte e il mattino seguente ripartimmo per la città. Finalmente arrivammo a Piacenza nella tarda mattinata e attraversammo il centro diretti in Piazza Cavalli. Improvvisamente un gruppo di guardie repubblichine al grido di ‘Partigiano, partigiano!’ mi circondò trascinandomi in via Borghetto dove aveva sede l’Ufficio Politico. Non riuscivo a spiegarmi come avessero potuto riconoscermi ma presto lo capii. A Ponte dell’Olio mesi prima dopo una cruenta battaglia per la riconquista del paese, i repubblichini si erano arresi. Alcuni di essi vennero lasciati liberi mentre i comandanti furono trattenuti in vista di un possibile scambio di prigionieri. Tra i liberati c’erano due fratelli piacentini, assai noti nel dopoguerra anche in ambito sportivo, che io ed altri avevamo perquisito prima del rilascio. Purtroppo per una fatale coincidenza loro si trovavano in quel momento nei pressi della Piazza e mi avevano riconosciuto. Nei locali dell’ufficio politico il capitano Zanoni ascoltò la denuncia particolareggiata fatta dall’ex prigioniero alla fine della quale fui tradotto nella vicina sede del Fascio. Mia madre, che ci aveva seguiti, mi abbracciò per impedire che mi portassero via ma a quel punto il futuro atleta le puntò una baionetta alla gola obbligandola a staccarsi da me. Più tardi mi portarono in una stanza dove c’erano due tizi in borghese sulla quarantina e un repubblichino in divisa che si divertiva a far ruotare tra le dita una pistola. Mi sembra ancora di vederlo nonostante gli anni trascorsi.. Poco dopo giunsero due guardie repubblichine che prelevarono uno dei due uomini, evidentemente un prigioniero come me poiché non fece più ritorno, il che accrebbe la mia angoscia. Dopo un’attesa per me infinita arrivò una persona in borghese che chiese chi fosse Filippa, e questo mi parve strano e di cattivo auspicio poiché nessuno prima di allora mi aveva chiesto le mie generalità. Pensai fosse giunta la mia ultima ora anche perché la guardia con la pistola disse ridendo ‘Partigiano giovane.. buono per i pesci!’.
Seguii il nuovo venuto al posto di guardia dove l'uomo si fermò a firmare dei documenti. A me con un cavetto di fil di ferro legarono le mani dietro la schiena.
Attraversammo Piazza Cittadella, io davanti e l’altro dietro che mi ammoniva di star zitto. Arrivammo sull’argine del Po, presso i ponti distrutti dai bombardamenti alleati. Si poteva attraversare il fiume con un ponticello fatto e posizionato davanti allo scalo del Genio Pontieri, ed è proprio lì che ci dirigemmo. Ero ormai certo che sarei finito nel fiume con le mani legate dietro la schiena ma stranamente il mio stato d'animo era sereno; stavo vivendo questa situazione quasi fossi uno spettatore, come se la cosa stesse succedendo a un altro. Eravamo al centro del traghetto, l’acqua del Po scorreva veloce sotto di noi, l’attesa della spinta che avrebbe decretato la mia esecuzione si faceva spasmodica tanto che pensai di gettarmi da solo nel fiume e porre fine a quel calvario.. Ma il mio custode mi disse di continuare a camminare e arrivammo così sull’argine lombardo. A questo punto lui mi raggiunse, mi liberò le mani dai ferri e mi disse che ero libero ma che dovevo allontanarmi da Piacenza il più presto possibile. Ero frastornato, non riuscivo a capire che cosa mi stesse succedendo.. Pochi minuti prima stavo per farla finita gettandomi nel fiume, e ora questo sconosciuto mi diceva che ero libero. Fu quella persona a svelarmi il mistero della mia liberazione. Lui era l’autista del capitano Mezzadri, vicecapo dell’ufficio politico, il quale la sera prima lo aveva chiamato per affidargli, in tutta segretezza, un importante incarico. Era stata mia sorella, che con mia madre aveva assistito al mio arresto, a trovare il mezzo per salvarmi rivolgendosi a chi poteva aiutarmi. Era una diciannovenne impiegata all’Arsenale dell’esercito, il suo capo ufficio era proprio il capitano Mezzadri, allora importante personaggio politico; corse da lui raccontandogli l'accaduto e scongiurandolo di aiutarmi. Non era cosa facile in quei tragici momenti aiutare un prigioniero politico condannato a morte, si trattava di un reato grave che avrebbe potuto costare caro al suo autore se fosse stato scoperto. Nondimeno il Mezzadri acconsentì a salvare il ragazzino sedicenne che ero allora. Il mio accompagnatore, prima di salutarci, mi disse che si chiamava Tirelli e mi consigliò di allontanarmi il più in fretta possibile da Piacenza e di prendere il treno per Milano appena trovassi una linea disponibile. Mi diede qualche soldo per il biglietto e per un caffè. Alla stazione di Milano, aggiunse, avrei trovato ad attendermi una persona. Lui doveva tornare al Comando fascista di via Borghetto e sottoscrivere di aver eseguito la sentenza che gli era stata comandata dal suo Comandante Mezzadri. Lo abbracciai ringraziandolo per il suo aiuto insperato e ripresi il cammino in cerca di un tratto di ferrovia agibile. A Secugnago presi un biglietto per Milano e arrivai nella capitale lombarda che era quasi giorno. In stazione ad attendermi c’era mio padre. Lui era a quel tempo un dipendente dell'Arsenale, Capo Collaudatore in trasferta a Milano presso un Centro Logistico di mezzi blindati, cosi quando il Capitano Mezzadri decise di attivarsi e di aiutare la mia famiglia, diede disposizioni che mio padre fosse informato segretamente di quanto stava accadendo facendogli anche sapere di attendermi in stazione.
Nel mese di gennaio del 1945, la linea del fronte della guerra in Italia si arrestò sulla linea gotica, a causa dell'inverno particolarmente rigido. Le truppe nazifasciste, impegnate a contrastare l'avanzata delle truppe alleate, vennero allora dirottate più a nord e utilizzate per sferrare un furioso attacco alle formazioni partigiane che controllavano ampie zone dell’alta Italia. I tedeschi, con l'aiuto di potenti mezzi blindati, iniziarono un imponente rastrellamento delle zone occupate dai partigiani, costringendoli a ritirarsi sulle montagne. La mia squadra si unì al reparto e cercammo rifugio in zone sicure. Corremmo per due giorni per sfuggire all’accerchiamento dei nazifascisti fermandoci solo per chiedere qualcosa da mangiare in quelle poche zone abitate e per dormire in vecchie baite sull’alto Appennino. Sentimmo parlare di molte vittime e di arresti di nostri compagni. Arrivammo infine in una zona irraggiungibile dai mezzi corazzati, senza più sparatorie. Io però stavo male, avevo la febbre alta per il freddo e la neve, non volevo rischiare di morire in quelle precarie condizioni e così decisi di tentare di arrivare a Poggioli, dove la mia famiglia era sfollata dal ’44, e dove speravo di trovare mia mamma e mia sorella. Contavo anche sul fatto che la mia giovane età mi avrebbe favorito nel caso avessi incontrato delle pattuglie nemiche. Ero stremato ma trovai la forza di arrivare a Poggioli dove finalmente potei riabbracciare mia madre e mia sorella che non vedevo da tantissimo. Dopo un paio di giorni di riposo mi sentivo molto meglio e pensai, d’accordo con le mie donne, che sarebbe stato opportuno per noi raggiungere Piacenza. In fin dei conti eravamo una famiglia di sfollati con i documenti in regola e non avremmo corso grossi rischi. L'indomani ci mettemmo in moto. A Farini d'Olmo c'era un presidio di repubblichini ma non fecero nessun controllo. Tirammo dritto puntando su Piacenza. Arrivammo a Bettola, presidiata da un Battaglione della Divisione San Marco, ma nessuno ci fermò per controllare e continuammo per la nostra strada. A Ponte dell'Olio ci fermammo per la notte e il mattino seguente ripartimmo per la città. Finalmente arrivammo a Piacenza nella tarda mattinata e attraversammo il centro diretti in Piazza Cavalli. Improvvisamente un gruppo di guardie repubblichine al grido di ‘Partigiano, partigiano!’ mi circondò trascinandomi in via Borghetto dove aveva sede l’Ufficio Politico. Non riuscivo a spiegarmi come avessero potuto riconoscermi ma presto lo capii. A Ponte dell’Olio mesi prima dopo una cruenta battaglia per la riconquista del paese, i repubblichini si erano arresi. Alcuni di essi vennero lasciati liberi mentre i comandanti furono trattenuti in vista di un possibile scambio di prigionieri. Tra i liberati c’erano due fratelli piacentini, assai noti nel dopoguerra anche in ambito sportivo, che io ed altri avevamo perquisito prima del rilascio. Purtroppo per una fatale coincidenza loro si trovavano in quel momento nei pressi della Piazza e mi avevano riconosciuto. Nei locali dell’ufficio politico il capitano Zanoni ascoltò la denuncia particolareggiata fatta dall’ex prigioniero alla fine della quale fui tradotto nella vicina sede del Fascio. Mia madre, che ci aveva seguiti, mi abbracciò per impedire che mi portassero via ma a quel punto il futuro atleta le puntò una baionetta alla gola obbligandola a staccarsi da me. Più tardi mi portarono in una stanza dove c’erano due tizi in borghese sulla quarantina e un repubblichino in divisa che si divertiva a far ruotare tra le dita una pistola. Mi sembra ancora di vederlo nonostante gli anni trascorsi.. Poco dopo giunsero due guardie repubblichine che prelevarono uno dei due uomini, evidentemente un prigioniero come me poiché non fece più ritorno, il che accrebbe la mia angoscia. Dopo un’attesa per me infinita arrivò una persona in borghese che chiese chi fosse Filippa, e questo mi parve strano e di cattivo auspicio poiché nessuno prima di allora mi aveva chiesto le mie generalità. Pensai fosse giunta la mia ultima ora anche perché la guardia con la pistola disse ridendo ‘Partigiano giovane.. buono per i pesci!’.
Seguii il nuovo venuto al posto di guardia dove l'uomo si fermò a firmare dei documenti. A me con un cavetto di fil di ferro legarono le mani dietro la schiena.
Attraversammo Piazza Cittadella, io davanti e l’altro dietro che mi ammoniva di star zitto. Arrivammo sull’argine del Po, presso i ponti distrutti dai bombardamenti alleati. Si poteva attraversare il fiume con un ponticello fatto e posizionato davanti allo scalo del Genio Pontieri, ed è proprio lì che ci dirigemmo. Ero ormai certo che sarei finito nel fiume con le mani legate dietro la schiena ma stranamente il mio stato d'animo era sereno; stavo vivendo questa situazione quasi fossi uno spettatore, come se la cosa stesse succedendo a un altro. Eravamo al centro del traghetto, l’acqua del Po scorreva veloce sotto di noi, l’attesa della spinta che avrebbe decretato la mia esecuzione si faceva spasmodica tanto che pensai di gettarmi da solo nel fiume e porre fine a quel calvario.. Ma il mio custode mi disse di continuare a camminare e arrivammo così sull’argine lombardo. A questo punto lui mi raggiunse, mi liberò le mani dai ferri e mi disse che ero libero ma che dovevo allontanarmi da Piacenza il più presto possibile. Ero frastornato, non riuscivo a capire che cosa mi stesse succedendo.. Pochi minuti prima stavo per farla finita gettandomi nel fiume, e ora questo sconosciuto mi diceva che ero libero. Fu quella persona a svelarmi il mistero della mia liberazione. Lui era l’autista del capitano Mezzadri, vicecapo dell’ufficio politico, il quale la sera prima lo aveva chiamato per affidargli, in tutta segretezza, un importante incarico. Era stata mia sorella, che con mia madre aveva assistito al mio arresto, a trovare il mezzo per salvarmi rivolgendosi a chi poteva aiutarmi. Era una diciannovenne impiegata all’Arsenale dell’esercito, il suo capo ufficio era proprio il capitano Mezzadri, allora importante personaggio politico; corse da lui raccontandogli l'accaduto e scongiurandolo di aiutarmi. Non era cosa facile in quei tragici momenti aiutare un prigioniero politico condannato a morte, si trattava di un reato grave che avrebbe potuto costare caro al suo autore se fosse stato scoperto. Nondimeno il Mezzadri acconsentì a salvare il ragazzino sedicenne che ero allora. Il mio accompagnatore, prima di salutarci, mi disse che si chiamava Tirelli e mi consigliò di allontanarmi il più in fretta possibile da Piacenza e di prendere il treno per Milano appena trovassi una linea disponibile. Mi diede qualche soldo per il biglietto e per un caffè. Alla stazione di Milano, aggiunse, avrei trovato ad attendermi una persona. Lui doveva tornare al Comando fascista di via Borghetto e sottoscrivere di aver eseguito la sentenza che gli era stata comandata dal suo Comandante Mezzadri. Lo abbracciai ringraziandolo per il suo aiuto insperato e ripresi il cammino in cerca di un tratto di ferrovia agibile. A Secugnago presi un biglietto per Milano e arrivai nella capitale lombarda che era quasi giorno. In stazione ad attendermi c’era mio padre. Lui era a quel tempo un dipendente dell'Arsenale, Capo Collaudatore in trasferta a Milano presso un Centro Logistico di mezzi blindati, cosi quando il Capitano Mezzadri decise di attivarsi e di aiutare la mia famiglia, diede disposizioni che mio padre fosse informato segretamente di quanto stava accadendo facendogli anche sapere di attendermi in stazione.

la popolazione inneggia alla fine della guerra, 28 aprile 1945
Grande fu la commozione e il sollievo che provammo mio padre ed io abbracciandoci. Ero salvo! Non riuscivo a credere di essere scampato a una morte certa e, dopo tutti questi anni, continuo a pensare che la carezza di don Borea mi abbia in qualche modo protetto. Rimasi a Milano con papà fino alla fine della guerra. Il giorno prima, avevo raggiunto Piacenza da Milano dove ero rimasto dopo la miracolosa liberazione. Avevo ritrovato i miei compagni della squadra volante e gli altri della Brigata che non sapevano della mia liberazione e mi credevano morto. Grandi abbracci e una divisa recuperata per sfilare in Piazza con loro. Qualche anno dopo ebbi occasione di incontrare il signor Tirelli con il quale commentammo la storia della mia insperata liberazione. Sull'argine del fiume Po, sul piazzale vicino alla “Vittorino” è ancora possibile vedere tre grandi statue bianche che ricordano i partigiani giustiziati con il lancio dal traghetto e le mani legate“. Al solit profesur..