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Piacenza ai tempi dell'Imperatrice Angilberga

“Racconto di Massimo Solari”
Piacenza nell’anno di Nostro Signore 865 – data presumibile di fondazione del monastero di San Sisto – era talmente differente dalla Piacenza attuale che solo con un grande sforzo possiamo provare ad immaginarla: partiamo dunque dal Po, dalle parti dell'attuale Piazzale Milano. Innanzi tutto il letto del Po era senza argini, affiancato da paludi ed acquitrini che correvano per molte centinaia di metri alla destra e alla sinistra del letto del fiume, solcati da qualche via sopraelevata, in terra battuta, che consentiva di raggiungere la riva del fiume ai carriaggi, ai viaggiatori e ai pellegrini che percorrevano a piedi o a dorso di mulo quelle strade. Nessun ponte: il Po veniva passato su chiatte a fondo piatto, pagando un pedaggio al traghettatore (ricordate San Cristoforo?). Sono invece documentati addirittura tre porti fluviali, uno del vescovo, uno di San Sisto e uno dipendente dal monastero di Santa Giulia di Brescia. Visto lo stato generale e la scarsa sicurezza delle vie di terra, la maggior parte delle merci correva per via d'acqua sulla direttrice Milano (Lambro) – Pavia – Venezia per commerciare soprattutto il sale di Comacchio. Se, nel nostro ipotetico cammino, volessimo partire dal Po verso il centro della città ci troveremmo, una volta superati quest’insieme di acquitrini, lanche di acque morte e paludi (luoghi umidi, si dice oggi) dalle parti dell’attuale Palazzo Farnese, che rappresenta il primo innalzamento naturale del terreno. Ovviamente non c'è nessuna costruzione, né ci sarà per altri cinque secoli, dato che la fondazione della primitiva cittadella viscontea risale al tredicesimo secolo. Siamo nell’attuale viale Risorgimento e abbiamo intorno a noi una campagna aperta, interrotta da qualche rara capanna di legno col tetto di paglia e certamente da ruderi delle fornaci, ove i piacentini dell’età romana cuocevano i mattoni e le tegole, approfittando del suolo argilloso. Nel nostro secolo (il nono) le fornaci erano state abbandonate da secoli e dunque non possono che essere ruderi circondati da vegetazione spontanea e rovi. Da lontano possiamo intravedere la cinta muraria. È ancora quella romana, di conseguenza è alta e sottile, (le mura spesse che vediamo oggi erano dovute all’introduzione dell’artiglieria e sono del cinque-seicento) e corre tra l’attuale via Benedettine e l’attuale Piazza Cittadella. Agli albori dell’età comunale (dunque qualche secolo dopo la nostra storia) la cinta muraria correva poi per via San Sisto, via San Rocchino, rasentava dunque l’attuale muntà di ratt, fino a piazza Borgo, piegava poi prima di via Garibaldi, supponiamo all’incirca in via Calzolai, poi correva in vicolo Perestrello, largo Battisti (ove esisteva una porta per la strada della Val Trebbia e la chiesetta di San Donnino, degli inizi del IX secolo, mentre Sant'Ilario è successiva, dell'891), in via Sopramuro, in via Chiapponi, sfiorava la Cattedrale e ritornava per via Trebbiola o via del Consiglio a ricongiungersi a via Benedettine. Si hanno notizie che la cinta venne allargata solo per ricomprendervi la vecchia Cattedrale di Santa Giustina (crollerà a causa di un terremoto nel 1117 e verrà sostituita dall’attuale, iniziata nel 1122) e il nuovo monastero di San Sisto, che rimanevano comunque ai margini della stessa. Non possiamo proseguire, perché nelle mura non si vede alcuna porta: si entrava infatti in città o dalle parti dell’attuale via Borghetto (Porta Milanese) o da una porta, della quale non si hanno notizie ma che probabilmente sorgeva all'incrocio di via Legnano con via Roma (Porta di San Lazzaro). Non dimentichiamo, infatti, che per molti secoli al Po si accedeva da via Borghetto. Il piacentino che oggi, dal centro, arriva ai Giardini Merluzzo si accorgerà che via Alberoni diverge da via Roma con un angolo acuto. Ebbene, tale angolo acuto deriva dal fatto che nei pressi si apriva, appunto, la porta San Lazzaro, ove si congiungevano la via Emilia (via Roma) e la via Postumia (via Alberoni) che, passando da Cremona, giungeva in Veneto fino al’importante porto di Aquileia. La via Postumia, che proveniva dalla direzione di Torino e Genova, probabilmente aggirava anche la città per la via Francigena secondo la direttrice attuale Piazza Borgo, via Garibaldi, via S. Antonino, via Scalabrini. Entriamo comunque in città: quello che ci appare è molto lontano non solo dall’aspetto attuale ma anche, che so, dalla tradizionale immagine che abbiamo di una città medioevale, come ci è stata tramandata per esempio da Ambrogio Lorenzetti nell’Allegoria del Buon Governo del Palazzo Pubblico di Siena: case murate, spesso turrite e merlate, affiancate le une alle altre in un continuum disordinato e pittoresco. La città che Lorenzetti ci tramanda è infatti la ricchissima Siena di quattro, cinque secoli dopo. La nostra Piacenza dei secoli definiti “bui” da Montanelli è invece un villaggio maleodorante, più simile alla Sherwood di Robin Hood che alla Siena di Lorenzetti: case di legno con tetti di paglia alternate ad ampi spazi vuoti recintati, adibiti ad orti. C’erano le fognature e l’acqua corrente? L’acqua corrente c’era, ma non come l’intendiamo noi. Secondo gli studi del prof. Castignoli, fin dall’epoca romana era stato creato un canale che inviava in città le acque della Trebbia, partendo da Gossolengo. Il canale principale si divideva, prima di entrare in città, in tanti canali che passavano in tunnel sotto le mura prendendo i nomi delle strade che attraversavano: rio Beverora, rio San Siro, rivo di Santa Vittoria, rivo di San Savino. I singoli canali, dopo aver attraversato la città, si gettavano tutti nella “fossa Augusta” (o Fodesta) che, udite udite, era navigabile. Un canale navigabile a Piacenza? Come i navigli? Se crediamo al prof. Castignoli (e non abbiamo motivo di dubitarne) nel XII secolo esisteva sul canale Fodesta una darsena che permetteva alle imbarcazioni fluviali di attraccare entro le mura urbane per scaricare le merci (e dunque poteva benissimo esistere anche nel nono secolo, ai tempi di Angilberga). E a cosa servivano tutti questi canali? Sicuramente per uso domestico, poi ad alimentare i numerosi mulini che c’erano entro le mura e infine a “ripulire” le strade dai rifiuti. Il sistema funziona ancora oggi in alcune città francesi (Briançon) e tedesche (Friburgo in Brisgovia). L’acqua serviva anche per riempire il fossato delle mura cittadine. L’energia data dai mulini serviva come forza motrice: i mulini macinavano la farina, muovevano i torchi per il vino e i telai per le stoffe. L’unica identità con la città attuale sono i tracciati di alcune vie. Non esiste ancora Piazza Cavalli e via Cavour è un vicolo. Il centro è nei pressi della chiese di San Martino e di San Pietro, dette infatti “in foro”, all’incrocio tra via Roma e via X giugno, antichi cardo e decumano della colonia romana. Esiste invece via Borghetto, prolungamento di via Roma, e da lei possiamo raggiungere il sito del monastero di San Sisto che ci appare come un grande cantiere, del quale però non possiamo dire nulla perché nulla ci è stato tramandato. Possiamo solo immaginarlo sulla scorta degli altri monasteri alto medioevali. Siamo agli albori del romanico, ma l’assenza di cave di pietra vicine (ecco perché Lodovico autorizzava la moglie a prendere pietre dalla cinta muraria, dalle costruzioni vicine e forse, financo dai ponti sul Nure e sulla Trebbia) ci induce a ritenere che il monastero sia stato costruito prevalentemente in mattoni. Possiamo immaginarlo, per avere un’idea, alla stregua della pieve di Vigolo Marchese o della collegiata di Castell’Arquato, che sono all’incirca dello stesso periodo e sono giunte a noi quasi perfettamente conservate. Le chiese monastiche non erano spaziose perché non erano chiese parrocchiali e dunque non dovevano contenere la popolazione ma solo le monache. Un'altra peculiarità, oltre che la loro ridotta dimensione, era il singolare sviluppo del coro o presbiterio, che doveva raccogliere le monache in preghiera. Oltre alla miriade di chiese e chiesette oggi scomparse, nel nono secolo esistevano già San Savino, del IV secolo, Sant’Antonino, anche lei del quarto-quinto secolo, l'appena costruita Santa Brigida in Piazza Borgo, Santo Stefano in Via Scalabrini, il già nominato San Martino in Foro. Quasi tutte sorgevano nelle adiacenze o fuori dalle mura. Piacenza non era ovviamente tutta fatta di case di legno e paglia: esistevano anche palazzi in laterizio, alcuni “coppati” e cioè col tetto in coppi e palazzi anche in pietra (Santa Maria in Cortina, di fronte al Teatro Municipale, deriva il suo nome dalla corte: sorgeva probabilmente a fianco del palacium ove “rendevano giustizia” i missi dominici imperiali). Ma secondo le notizie che abbiamo i palazzi di pietra e di laterizio erano una netta minoranza rispetto alle case modeste e ai grandi spazi bradi esistenti tra una casa e l’altra. Quanti abitanti aveva Piacenza nel nono secolo? Pochissimi. I circa 30.000 abitanti della Piacenza all’apogeo dell’impero romano si erano ridotti a causa delle crisi economiche e demografiche dei secoli quarto – ottavo, provocate dalla caduta dell’impero e dalle invasioni barbariche. Sant’Ambrogio, che visita Piacenza nel quarto secolo, la descrive come una città semidistrutta (“semirutarum urbium cadavera” che non mi sembra necessiti di traduzione) Solo in epoca carolingia, grazie alla riorganizzazione dell’impero romano germanico e a un rinnovato interesse per i lavori dei campi, Piacenza inizia ad avere una timida ripresa. Lo storico Pierre Racine azzarda la cifra di circa 9.000 abitanti. Per avere un’idea, quanti ne fa oggi Carpaneto. La Piacenza del nono secolo è una città dominata dalla Chiesa: i capitoli di Sant’Antonino e della Cattedrale litigano per l’attribuzione dei fondi e per le fiere. Le quattro fiere annuali di cui parlavamo prima servivano per lo scambio delle merci tra la città e il contado: prodotti agricoli come ortaggi e grano, forse pollame o conigli contro manufatti artigianali, stoffe, suppellettili eseguiti in città. Sempre dagli studi del professor Racine risulta che nel nono secolo le case intorno a Sant’Antonino e a Santa Brigida costassero di più che in centro. Perché? Perché erano poste entrambe sulla “via Francigena”, una all’ingresso e una alla fine del suo tratto urbano, e dunque le botteghe artigiane che sorgevano nei pressi erano favorite dal passaggio. Che tipo di botteghe? Di orafi, di ciabattini e di canestrai, forse anche di tessitori, di vasai o di falegnami. A Piacenza esisteva anche la zecca dei re franchi, che batteva monete d’argento. La chiesa piacentina “soprattutto i capitoli del Duomo e di Sant'Antonino, che erano composti da una dozzina di sacerdoti che vivevano una sorta di vita monastica, in comunità” possedeva numerosi fondi e poderi sparsi per la campagna e imponeva decime sia sui prodotti agricoli del contado che sui prodotti artigianali della città.
“Tratto da: Le regine di Piacenza di Massimo Solari – edizione Lir 2010”